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Dario-Bressanini-La-Scienza-della-Carne-La-chimica-della-bistecca-e-del-arrosto-Edizioni-Gribaudo- 2

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LA SCIENZA
LA
DELLA
CARNE
CHIMICA DELLA BISTECCA E DELL’ARROSTO
Dario Bressanini
ISBN edizione cartacea: 9788858016022
Fotografie di
Barbara Torresan
ISBN edizione digitale: 9788858017555
Le foto per “I grassi”, per “Struttura a tripla elica del
tropocollagene” nel cap. Composizione e struttura della
carne e la foto di chiusura del capitolo Il sapore della carne
sono di Shutterstock Images.
Illustrazioni: Shutterstock Images, tranne “I tagli del
bovino adulto”, “I tagli del maiale”, “I tagli del pollo”
(Stefano Trainito)
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È
vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Alla mia mamma
INTRODUZIONE
È inutile negarlo: la carne piace a moltissime persone in tu o il
mondo. Anche in un momento storico nel quale si cerca, con
buone ragioni sia salutistiche che ambientali, di ridurne il
consumo, la sua popolarità è sempre altissima. Forse perché è
nutriente, semplice da preparare, sazia facilmente e tu o
sommato relativamente a buon mercato. Ma forse anche perché il
suo sapore rimanda inconsciamente a un passato primordiale
quando la carne ha giocato un ruolo importante, se non
fondamentale, nella storia dell’uomo. I nostri antenati erano
cacciatori/raccoglitori ancora prima di diventare, circa 12.000 anni
fa, agricoltori. Carote e peperoni sono un’aggiunta relativamente
recente al nostro menu. Le testimonianze nelle gro e di mezzo
mondo ci mostrano cacciatori che, a rischio della vita e con armi
rudimentali, cercano di cacciare grossi animali, che verranno
senza dubbio co i e mangiati in qualche rito pubblico e comune.
Alcuni studiosi addirittura sostengono che l’invenzione,
se così possiamo chiamarla, della cottura della carne abbia
addirittura guidato in qualche modo l’evoluzione della
specie umana. Di sicuro la carne è diventata un alimento
sempre più comodo se non indispensabile a mano a mano
che l’Homo sapiens, uscito dall’Africa, si è spostato verso
regioni sempre più a nord, fredde e con poca disponibilità
di alimenti vegetali commestibili, specialmente in alcune
stagioni dell’anno.
Il consumo di carne non smette di generare discussioni e
controversie e forse nessun altro alimento definisce
l’identità gastronomica di moltissime persone. Ci sono
quelli che la evitano a tutti i costi e quelli che invece non ne
possono fare ameno. Questa divisione non è certo nuova e il
rifiuto di consumare carne, per motivi etici e filosofici, non
è una novità dei nostri tempi: Pitagora e Platone non
mangiavano carne per esempio.
In tempi più recenti studi epidemiologici hanno mostrato
una forte correlazione tra il consumo di carne rossa e un
aumento del rischio di contrarre malattie cardiovascolari e
il cancro al colon, anche se non si sa ancora esattamente
quale tra i componenti della carne sia il responsabile.
Tuttavia, il consumo di carne, a livello mondiale, continua
a salire. Cina e India stanno aumentando il loro consumo, a
mano a mano che larghe fette della popolazione escono
dalla povertà. Nel 1997 ne abbiamo consumate 235 milioni
di tonnellate e le Nazioni Unite prevedono che questa cifra
raddoppierà entro il 2050, con indubbie conseguenze
ambientali, perché l’allevamento di animali ha bisogno di
grandi quantità di risorse scarse: acqua, terra, energia,
generando anche grandi problemi di smaltimento dei rifiuti.
Qualcuno si spinge a prevedere che, a causa di questi
problemi, nel prossimo futuro mangeremo bistecche da
colture cellulari cresciute in laboratorio. “Hamburger in
provetta” come titolano a volte i giornali. Non so se sarà
così, francamente ne dubito, ma se dovesse accadere le
conoscenze, che avrete appreso alla fine della lettura di
questo libro, serviranno anche in quel caso.
Quando, giovane studente di dottorato in chimica, sono
stato mandato negli Stati Uniti, in California, decisi che
dovevo imparare a cucinare. Fino ad allora non avevo quasi
mai seriamente spadellato in cucina, a parte degli
occasionali spaghetti aglio, olio e peperoncino e qualche
pizza in teglia ogni tanto. Dovevo passarci un anno e non
avevo intenzione né di mangiare alla pessima mensa degli
studenti dell’Università di Berkeley, dove la quantità
sembrava molto più importante della qualità e le patatine
fritte sembravano essere l’unico ortaggio servito, né di
dilapidare la mia piccola borsa di studio andando al
ristorante tutti i giorni. In California, il cibo al
supermercato era abbondante, vario e tutto sommato aveva
prezzi contenuti. Frutta e verdura di ogni tipo in qualsiasi
stagione e carne e pesce a profusione. Avevo anche
imparato a riconoscere le marche di pasta accettabili per
un italiano. Certo, mi mancavano i formaggi e i salumi di
casa ma per quelli ogni tanto potevo fare un sacrificio e
acquistarli al negozio che importava e vendeva alimenti di
qualità da tutto il mondo.
Che cosa ci voleva a imparare a cucinare? Non sembrava
essere troppo difficile. Chiesi a mia madre di spedirmi per
posta un po’ di ricette, e ancora conservo le lettere in cui
lei mi descriveva come cucinare il coniglio arrosto che
tanto amavo o lo spezzatino con la polenta. Mi piaceva, e
mi piace tuttora, la carne e in quei grandi supermercati
americani potevo trovare pane per i miei denti. Ma,
aggirandomi per i lunghi corridoi, mi resi subito conto che
acquistare la carne non era una cosa semplice e cucinarla
correttamente ancora meno. Vi erano nomi che non
conoscevo come chuck, tenderloin, ribeye, round e shank.
Tutti provenienti da un bovino adulto ma che
evidentemente avevano utilizzi diversi. Quali tagli avrei
dovuto utilizzare per lo spezzatino e quali per una bistecca?
Su alcune confezioni c’era scritto steak cioè bistecca, ma
non capivo perché avevano nomi, e prezzi, diversi. Quale
dovevo acquistare? Non che in Italia fosse diverso
ovviamente, come capii la prima volta che tornai a casa per
un periodo di vacanza, anche se i nomi erano differenti: per
acquistare e cucinare nel modo corretto la carne era
necessario studiare un po’ meglio l’argomento.
Anche oggi chiunque si avvicini per la prima volta al
bancone di una macelleria o tra gli scaffali dei tagli di
carne preconfezionati di un supermercato prova la stessa
sensazione di smarrimento per il gran numero di tagli di
carne dai nomi inusuali.
Ben presto capii che le sorgenti della confusione erano
molteplici. Alcuni tagli di carne corrispondono
semplicemente a muscoli interi ben determinati, anche se
questi non sono necessariamente indicati sulla confezione.
In altri casi però da un intero muscolo, specialmente se
molto grande, il macellaio può ricavare dei tagli diversi e
dargli nomi diversi. Alcuni poi comprendono sezioni di più
gruppi muscolari contemporaneamente. E per aggiungere
confusione a confusione, non esiste una nomenclatura
condivisa in tutta l’Italia e a volte lo stesso taglio di carne
può avere nomi differenti in città diverse di una stessa
regione. Per fortuna sulla confezione è spesso indicato
l’uso: alcuni tagli sono più adatti arrostiti mentre con altri è
meglio preparare un brasato. Il perché però non era
spiegato.
Col tempo, e molti errori, cominciai a dipanare la
matassa nella mia testa. Da chimico mi veniva naturale
guardare alla cucina come a un piccolo laboratorio.
Filtrare, riscaldare, raffreddare lentamente o bruscamente,
mescolare, portare all’ebollizione, diluire, aggiungere
ghiaccio, mettere in frigorifero. Sono gesti di tutti i giorni
in un qualsiasi laboratorio chimico in qualunque parte del
mondo. Ma sono anche le stesse operazioni che si compiono
in cucina. E non a caso i chimici in laboratorio parlano
scherzosamente di “ricette” quando seguono elaborate
procedure per sintetizzare una molecola o far avvenire
delle reazioni.
E con l’analisi scientifica arrivò, alla fine, anche la
comprensione del perché tagli diversi di uno stesso animale
dovevano essere cotti in maniera diversa. Le ricette
cominciavano a venire come dovevano, e gli amici del
dipartimento apprezzavano quando portavo da assaggiare
qualcosa. Tornato in Italia la passione per questa visione
scientifica della cucina continuò e anni dopo, per una serie
di coincidenze fortuite, mi venne offerta la possibilità di
scrivere una rubrica mensile sulla prestigiosa rivista di
divulgazione scientifica Le Scienze e di aprire il blog
Scienza in cucina (http://bressaninilescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/) da cui in
seguito è nato il primo libro della collana di “Scienza in
cucina”, dedicato alle basi della pasticceria, il settore della
cucina che, per precisione e accuratezza delle ricette e per
la necessità di misurare gli ingredienti esattamente, più si
avvicina alla chimica di un vero laboratorio.
Dopo il successo di quel primo volume, i lettori hanno
cominciato a contattarmi sul blog, per e-mail o su
Facebook. Chi avrebbe voluto leggere un libro di
pasticceria scientifica sui lievitati, chi sul cioccolato e chi
invece un libro per vegani. Molti allievi di istituti
alberghieri mi hanno scritto entusiasti dell’approccio
scientifico alla pasticceria, riempendomi di gioia,
dicendomi che sarebbe stato molto utile poter leggere
anche libri dedicati ad altri settori della cucina con cui a
scuola avevano a che fare tutti i giorni. Non potei fare a
meno di ricordarmi di quando, studente all’estero, cercavo
di raccapezzarmi tra tagli di carne americani e ricette
italiane. Non solo senza Wikipedia da consultare ma senza
neppure tutto il World Wide Web, che non era ancora stato
inventato.
Decisi che il secondo libro della collana avrei potuto
dedicarlo alla carne. Dopo tutto, anche se a prima vista può
sembrare incredibile, tutti i possibili modi di cottura della
carne si basano su pochissimi principi scientifici. Tenendo
fede all’impostazione della collana, il libro avrebbe
approfondito gli aspetti scientifici ma li avrebbe illustrati
con delle ricette. E non essendo un libro di cucina classico
non sarei stato costretto a usare solo ricette di pietanze. La
carne, dopotutto, la si utilizza anche per condire la pasta o
per preparare brodi.
Come nel libro precedente, ho scelto di proposito ricette
di base, semplici ma molto dettagliate. Ho cercato di
descrivere ogni passaggio scientificamente cruciale. Forse
qualcuno di voi vedendo che ho dedicato 4 pagine alla
ricetta della bistecca o 6 al ragù penserà “che esagerazione
sprecare così tante righe per spiegare come si cucina una
bistecca”. Chiamatela deformazione professionale, ma non
dovete considerare queste come normali ricette. Del resto,
ve l’ho detto che questo non è un classico libro di cucina, e
io non sono un cuoco. Consideratele piuttosto degli
“esperimenti culinari”: applicazioni sperimentali dei
principi chimici e fisici illustrati nelle pagine precedenti.
Osservare una bistecca mentre cuoce può offrire molti
spunti di riflessione e far scaturire molte domande. Un po’
come guardare le stelle. Ad esempio: perché si dovrebbe
girare la bistecca solo una volta? È solo una leggenda
urbana o c’è una motivazione scientifica? E davvero non si
deve salare la carne prima di metterla in padella altrimenti
si asciuga? Ma sarà vero? Perché a un certo punto
cominciano ad affiorare delle goccioline sulla superficie?
Cercate di guardare a tutte le ricette, compreso quelle
che fate da anni, con spirito scientifico. Non date mai nulla
per scontato, non fidatevi troppo degli insegnamenti della
tradizione e chiedetevi sempre il perché di certe
prescrizioni. Nel cercare di dare una risposta alle domande
che ci poniamo cucinando possiamo ampliare le nostre
conoscenze di cosa succede nei nostri piatti preferiti,
migliorare la loro preparazione e diventare, si spera, cuochi
migliori.
Il fatto che le ricette siano state scelte per illustrare
alcuni principi chiave non le rendono meno appetitose. Una
ricetta di cui sono particolarmente orgoglioso è quella del
ragù alla (quasi) bolognese, la stessa che iniziai a mettere a
punto da studente. Esistono probabilmente migliaia di
ricette diverse di ragù. Forse la mia vi piacerà, come è
piaciuta a molte persone che l’hanno provata, oppure
continuerete a prepararlo con la vostra ricetta ma, sono
sicuro, cambiando qualcosa. Perché lo scopo ultimo di
questo libro è quello di mettere in luce gli aspetti scientifici
cruciali di ogni preparazione, in modo che possiate
migliorare le vostre ricette, con le vostre dosi e i vostri
ingredienti. Perché ogni preparazione di ragù esistente
condivide gli stessi punti chiave e sottostà agli stessi
principi chimici e fisici. E la stessa cosa si può dire di un
brasato, di una bistecca o delle altre ricette che ho scelto, e
anche tutte le altre che, per motivi di spazio, non ho potuto
inserire nel libro. Avendo però compreso come preparare
un buon brasato non avrete problemi a seguire il
procedimento per un ossobuco o una scaloppina,
eventualmente correggendo gli errori e migliorandolo.
COMPOSIZIONE E STRUTTURA DELLA CARNE
Un libro sulla scienza della carne non può che iniziare con
un approfondimento scientifico sulla composizione e su
come è stru urata la carne che compriamo, cuciniamo e
mangiamo.
Siamo abituati a considerarlo un ingrediente unico, ma in realtà è
più corre o pensare alla carne come a più ingredienti presenti
contemporaneamente, ognuno con proprietà diverse. Un po’ come
un uovo, in cui albume e tuorlo hanno cara eristiche differenti
che vanno comprese e sfru ate per preparare torte e creme. A
differenza dell’uovo però, dove albume e tuorlo si possono
separare senza difficoltà, nella carne le varie componenti sono
legate insieme ed è più difficile rendersi conto visivamente della
differente composizione, e quindi delle diverse proprietà
gastronomiche, tra lo scamone e il reale, o tra il file o e il girello.
Imparare a conoscere le varie componenti della carne e come
queste sono stru urate è indispensabile se vogliamo
comprendere meglio ciò che accade quando eseguiamo una
rice a.
LA COMPOSIZIONE CHIMICA
Siamo fa i d’acqua. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Ed è vero.
L’acqua è di gran lunga il componente principale del nostro
organismo e quindi anche della carne che consumiamo: circa il 6575% a seconda dei tagli. Oltre all’acqua, le molecole più abbondanti
appartengono alla famiglia delle proteine, con il 20% circa. Non a
caso, pure gastronomicamente, spesso carne è sinonimo di
proteine, anche se queste si trovano, in percentuali diverse, in
quasi ogni alimento. Impareremo a conoscerle e distinguerle per
tipo, funzione e proprietà. Che cosa troviamo nel restante 5%?
Generalmente, con qualche eccezione, il terzo componente più
presente nei muscoli è il grasso o, meglio, i grassi, sopra u o di
quelli che i chimici chiamano “saturi”. Mediamente rappresentano
il 3%, ma le differenze tra i vari tagli e tra animali diversi possono
essere importanti sia dal punto di vista nutrizionale sia,
sopra u o, dal punto di vista culinario. La percentuale di
proteine, invece, varia molto poco tra muscoli diversi, mentre più
aumenta il contenuto di grassi e più diminuisce la quantità di
acqua presente.
Tolta l’acqua, le proteine e i grassi, quel che rimane è costituito
da minerali, vitamine e solitamente pochissimi carboidrati.
CONTENUTO MEDIO DI ACQUA, PROTEINE E GRASSI
[su 100 g di carne dei più comuni animali da consumo]
CARNI CRUDE
Agnello
Anatra domestica
ACQUA PROTEINE LIPIDI
(g)
(g)
(g)
70
20
9
69
21
8
Tagli anteriori di bovino
adulto
Tagli posteriori di
bovino adulto
Capre o
Cavallo
Coniglio
Fagiano
Gallina
Coscia di maiale leggero
Coscia di maiale
pesante
Pollo
Struzzo
Tacchino
72
21
7
71
22
3
75
74
75
69
66
75
19
20
20
24
21
20
5
7
4
5
12
3
73
20
5
70
76
74
19
21
18
11
1
7
FONTE: Banca dati INRAN, Istituto Nazionale di Ricerca per
gli Alimenti e la Nutrizione.
ACQUA
La succosità di un pezzo di carne è uno dei parametri principali,
insieme al sapore, al colore e alla tenerezza, che il consumatore
considera nel valutare un pia o a base di carne. Abbiamo appena
visto che l’acqua è il componente principale di tu a la carne, ma se
circa i tre quarti di un pezzo di carne cruda sono composti di
acqua, come mai quando la tagliamo non la vediamo fuoriuscire?
Il motivo è che una parte dell’acqua, circa il 5%, è stre amente
legata alle proteine e, quindi, impossibilitata a muoversi, mentre il
resto è intrappolata per capillarità nello spazio tra le proteine
delle fibre muscolari. Quando cuociamo la carne, le proteine
perdono o riducono la possibilità di segregare l’acqua che, quindi,
viene liberata. Questo è il motivo per cui la carne troppo co a
diventa asciu a: non riesce più a tra enere parte dei cosidde i
“succhi”, cioè acqua con dissolte varie sostanze.
Con così tanta acqua a disposizione non stupisce che la carne
sia facilmente preda di microrganismi. Dopo tu o è un cibo
altamente nutriente non solo per noi esseri umani, ed è per questo
che uno dei più antichi modi di conservazione della carne,
l’essiccazione, sfru a il fa o che ba eri e muffe non possono
proliferare senz’acqua. Con l’avvento dei frigoriferi e dei
congelatori questo tipo di conservazione è diventato sempre
meno comune, almeno nei Paesi occidentali, ma vi sono ancora
rice e tradizionali che usano la carne essiccata.
Congelare e surgelare
Il congelamento, anche casalingo, è un metodo ormai comune di
conservazione della carne cruda. I freezer casalinghi sono
mantenuti solitamente a −19 °C: a queste temperature le reazioni
chimiche di decomposizione della carne sono quasi
completamente ferme e quindi, con qualche eccezione, la carne
può essere conservata anche per alcuni mesi.
CONSIGLIO
Sarà capitato anche a voi di togliere dal
congelatore una bistecca o un pe o di pollo,
congelati crudi, e di notare macchie di colore
diverso dove la carne sembra addiri ura
co a. Questo fenomeno è dovuto alla
disidratazione superficiale della carne: l’aria
contenuta nel freezer è particolarmente secca
e può disidratarla causando una
denaturazione delle proteine simile
visivamente a quanto avviene con una
co ura. La carne è ancora perfe amente
commestibile, anche se le zone danneggiate
saranno dure e asciu e. Per evitare questo
fenomeno ricordatevi di avvolgere molto bene
con pellicola per alimenti la carne che
congelate, in modo da ridurre l’esposizione
all’aria.
Che cosa succede quando si me e un pezzo di carne in freezer?
Raggiunta la temperatura di −1 °C, la carne comincia a congelare
(l’acqua congela a 0 °C solamente quando è pura). Iniziano a
formarsi dei cristalli di ghiaccio che crescono a mano a mano che
la temperatura scende. Il modo in cui questi cristalli crescono è
importantissimo. Se il raffreddamento è effe uato molto
velocemente, come avviene industrialmente con l’esposizione
della carne o del pesce a temperature molto più basse di quelle
raggiungibili a casa propria, si parla di “surgelazione”: in questo
caso si formano molto velocemente tantissimi cristalli di ghiaccio
molto piccoli, che non hanno il tempo di crescere troppo. Quando
la scongeleremo sarà quasi come se non fosse mai stata surgelata.
LO SAPEVATE CHE?
L’azoto liquido tenuto a −196 °C viene
utilizzato per surgelare pesci come il
tonno, in modo tale che il processo non
danneggi la stru ura della carne di
questo prelibato, e costosissimo, pesce.
Se invece il raffreddamento è piu osto lento, come avviene nel
congelatore domestico, si formano meno cristalli, ma più grossi.
Così facendo danneggiano le cellule, bucandone la membrana. Le
conseguenze le vediamo una volta che scongeliamo la carne: i
danni prodo i dai grandi cristalli di ghiaccio portano a una
fuoriuscita dei succhi della carne, che sarà quindi più asciu a una
volta co a. Se per alcune rice e in umido questo effe o può non
essere molto importante, per bistecche e arrosti è consigliabile
usare carne che non avete congelato voi, a meno di non possedere
un abba itore, ma ancora meglio carne che non è mai stata
surgelata.
Se vi trovate nella condizione di dover congelare delle bistecche
perché i vostri ospiti vi hanno dato buca e non potete certo
mangiarne cinque da soli, potete asciugarle con della carta
assorbente da cucina, depositarle su una teglia di metallo
ricoperta con carta da forno e me erle in freezer. Non coprite le
bistecche altrimenti ne rallenterete il raffreddamento. Una volta
congelate, avvolgetele bene, singolarmente, in un sacche o da
freezer a chiusura ermetica avendo cura di far uscire più aria
possibile.
A enzione però: anche se gli alimenti sono stati surgelati
corre amente, lasciandoli troppo a lungo nel freezer si perme e
comunque ai cristalli di ghiaccio di crescere, danneggiando le
cellule.
CONSIGLIO
Durante la fase di scongelamento la carne non
deve mai scaldarsi troppo, per evitare
proliferazioni ba eriche. Se avete tempo
potete togliere molte ore prima la carne dal
freezer e riporla nel frigorifero, dentro un
contenitore per evitare che colino dei liquidi.
Se invece avete fre a, la strategia più
efficiente è me erla in un sacche o di plastica
con chiusura a zip, cercando di eliminare il più
possibile l’aria contenuta, e scongelarla
usando un filo di acqua fredda corrente,
tenendola immersa in una bacinella. Non
usate l’acqua calda e neppure il microonde:
rischierete di cuocerne alcune zone perché
l’assorbimento delle microonde non è
omogeneo e uniforme.
PROTEINE
A Natale, tra cenoni e pranzi, il cibo la fa da padrone. I grandi si
a ardano a tavola, mangiando, chiacchierando e mangiando
ancora mentre i bimbi hanno spesso fre a di scappare dal tavolo
per andare a divertirsi con i giochi ricevuti. Un anno i miei figli
riceve ero in regalo un gioca olo che degnarono di poca
a enzione. Una sorta di passatempo con pezzi da incastrare a
piacimento. Sul divano, aspe ando il caffè per digerire il pranzo,
come al solito ricco di portate di carne, cominciai a giocherellare
con quei pezzi tondi di plastica lucida e mi venne in mente di
utilizzarli per uno scopo che forse gli ideatori non avevano
previsto: illustrare la stru ura delle proteine. Da allora li uso a
lezione con i miei studenti all’Università e li porto sempre con me
quando vengo invitato a tenere delle conferenze sulla scienza in
cucina.
Il 20% circa di un pezzo di carne è costituito da proteine, un
termine che ormai fa parte del linguaggio comune. Ma cosa sono
esa amente? Sono una famiglia di molecole indispensabili per la
vita di qualsiasi essere vivente, composte a loro volta da molecole
più piccole, chiamate amminoacidi, legate insieme a formare
lunghe catene. Le proteine nel nostro corpo svolgono molte
funzioni: possono fungere da materiale da costruzione per,
le eralmente, fabbricare dei tessuti come i muscoli, per esempio.
Oppure possono svolgere una funzione di tipo chimico,
prendendo parte, per esempio, alla costruzione di altre molecole di
cui il nostro corpo ha bisogno e che produce a partire da ciò che
mangiamo. In questo caso vengono più spesso chiamate enzimi.
Oppure possono svolgere una funzione di segnalatori, per
esempio del gusto dolce o salato sulla nostra lingua, o della
temperatura e tanto altro ancora. Se ne mangiamo in eccesso il
nostro corpo può persino usarle come combustibile per produrre
energia, visto che hanno lo stesso contenuto energetico, in peso,
dei carboidrati.
L’ANGOLO CHIMICO
LE PROTEINE ANIMALI E VEGETALI Spesso si sente parlare
di “proteine animali” e “proteine vegetali” come se
avessero proprietà chimiche e nutrizionali
sostanzialmente diverse. In realtà tu e le proteine,
indipendentemente dall’origine, sono costituite
sempre dagli stessi amminoacidi, in cui saranno poi
scomposte durante la digestione.
Ma vediamo che cosa succede all’interno del nostro organismo
quando mangiamo un alimento che contiene proteine. Per prima
cosa il nostro stomaco le scompone, siano esse di origine animale
o vegetale, nelle loro componenti fondamentali: gli amminoacidi.
Li possiamo rappresentare come in FIGURA 1.
Sono una famiglia di venti molecole con un’estremità acida e
una alcalina (o basica). Il resto della molecola identifica il
particolare amminoacido: lisina, alanina, arginina, istidina e così
via, ma non ci interessa qui la specifica stru ura chimica. Alcuni
sono molto noti: l’acido glutammico per esempio, il cui sale, il
glutammato, è responsabile della sapidità di molti cibi e proprio
per questo viene aggiunto nei dadi da brodo e in molti alimenti
industriali. Oppure la cisteina, componente importante dei capelli.
Tu i gli amminoacidi sono fondamentali per la vita e mentre
alcuni riusciamo a sintetizzarli da soli, altri, de i amminoacidi
“essenziali”, non siamo in grado di produrli e quindi li dobbiamo
necessariamente… mangiare: è il caso, per esempio, del triptofano.
Una volta scomposta la proteina nei suoi amminoacidi
fondamentali, il nostro corpo li riorganizza, come i ma oncini del
Lego®, per costruire altre proteine ed enzimi.
Gli amminoacidi si legano fra di loro per le estremità, in un
modo definito dai geni, formando delle lunghe catene lineari come
quella costruita con il gioca olo in FIGURA 2.
Una volta assemblate le lunghe le catene, contenenti anche
molte migliaia di amminoacidi, queste si ripiegano in una forma
ben precisa che perme e loro di funzionare corre amente.
Quando gli amminoacidi si ripiegano come in un gomitolo si dice
che formano una proteina “globulare”, come quella in FIGURA 3.
Se le proteine vengono “disturbate”, per esempio aumentando la
temperatura o per azione meccanica, oppure variando il pH,
possono cominciare a srotolarsi parzialmente o totalmente, come
vedete in FIGURA 4. In questo caso si dice che stanno “denaturando”.
Una volta denaturate le proteine, muovendosi, possono venire
in conta o le une con le altre e legarsi tra loro come in FIGURA 5.
Questo fenomeno si chiama coagulazione. Quando cuocete un
uovo in padella state prima denaturando le proteine contenute e
poi facendole coagulare.
Non tu e le proteine, però, sono globulari. Ve ne sono alcune,
molto abbondanti nei muscoli, che assomigliano a dei fili e
vengono perciò de e “fibrose”. Il tropocollagene, riprodo o in
FIGURA 6, per esempio è la proteina che tiene le eralmente insieme
i fasci muscolari.
È presente nelle ossa, nei tendini, nelle cartilagini e nei tessuti
conne ivi. È una proteina fibrosa, quindi gli amminoacidi che la
compongono formano un lungo filo che non si appallo ola su se
stesso come invece fanno le proteine globulari. Tre di questi fili si
avvolgono su se stessi per formare una stru ura a tripla elica. Più
fibre si possono unire sino a formare una stru ura molto
resistente, una specie di fune. Sono queste funi che, legandosi tra
loro, tengono insieme i nostri muscoli e li legano alle ossa.
Oltre al tropocollagene nei muscoli troviamo grandi quantità di
altre due proteine: la miosina, che rappresenta il 50% delle
proteine totali nei muscoli, e l’actina, che ne costituisce il 20%. È
grazie a loro, lavorando in sincronia, che riusciamo a muoverci e a
contrarre e rilassare i nostri muscoli.
Vi sono molte altre proteine contenute nei muscoli, troppe per
poterle descrivere tu e, ed esulerebbe anche dagli scopi di questo
libro. Ne cito solo alcune: la troponina e la tropomiosina, che
lavorano a stre o conta o con actina e miosina; e due dai nomi
buffi: la nebulina e la titina, la più grande proteina mai scoperta,
composta da più di 33.000 amminoacidi.
La carne, poi, non avrebbe il suo colore se non ci fosse un’altra
proteina presente: la mioglobina che tra eremo in de aglio in un
prossimo capitolo.
Le differenti funzioni delle proteine
Le varie proteine presenti nei muscoli hanno proprietà diverse e
quindi giocano ruoli differenti nel conferire alla carne le sue
cara eristiche.
IDRATAZIONE Sono le proteine a tra enere l’acqua dentro la
carne, e sono quindi in parte responsabili della sua succosità, sia
da cruda che da co a. Sono sempre miosina e actina a svolgere
sopra u o questa funzione. Il collagene invece, finché la carne è
cruda, è pochissimo idratato e il suo effe o, come vedremo, si
manifesta solo dopo una lunga co ura.
SOLUBILITÀ Alcune proteine sono solubili in acqua in certe
condizioni di pH, temperatura e concentrazione di sale, il cloruro
di sodio o NaCl. La miosina è solubile sia in acqua completamente
pura, o distillata, sia in acqua molto salata, mentre la solubilità è
minima a concentrazioni di sale intermedie. Quando spargiamo
del sale su una fe a di carne la miosina inizia a sciogliersi mentre
l’actina è molto meno solubile. Scopriremo come questa
cara eristica possa essere sfru ata in cucina a nostro vantaggio.
Il collagene a temperatura ambiente non è solubile in acqua, che
sia salata o meno, ma si può solubilizzare aumentando la
temperatura oppure modificando il pH, sia in ambiente acido che
alcalino.
GELIFICAZIONE Tu i sanno che l’albume, scaldato, diventa
opaco e semisolido intrappolando l’acqua che contiene, circa il
90% in peso. Questo fenomeno, chiamato gelificazione, è dovuto
alla coagulazione delle proteine di cui è composto, per il restante
10%. Non è solo l’albume ad avere questa proprietà che è, anzi,
piu osto diffusa tra le proteine. La miosina, una volta sciolta in
acqua, se riscaldata a temperature superiori ai 45 °C comincia a
coagulare e a 50-55 °C forma un gel che intrappola l’acqua
presente, un po’ come fa l’albume. Avete presente come è fa o
internamente un würstel? Ecco, la sua consistenza è dovuta
primariamente al gel di miosina che conferisce la particolare
stru ura gelatinosa di questo prodo o e di moltissimi altri
prodo i trasformati.
Il collagene invece riesce a sciogliersi e a liberare le singole catene
proteiche solo se so oposto a temperature superiori ai 65-70 °C
per un tempo piu osto lungo. Quindi in tu e le rice e a co ure
veloci non gioca un ruolo apprezzabile nella formazione di un gel.
EMULSIFICAZIONE Le proteine sono anche degli o imi
emulsionanti. Riescono cioè a mantenere miscelati acqua e grassi
senza che si separino, un po’ come succede nella maionese classica
dove l’emulsionante in quel caso è principalmente la lecitina.
Potete però fare una maionese anche solo con l’albume se volete,
sfru ando le proprietà emulsionanti delle proteine contenute. A
volte l’effe o emulsionante delle proteine della carne è una
conseguenza indesiderata, per esempio nella preparazione di un
brodo. L’emulsione dei grassi porta a un intorbidimento del liquido
quando di solito si cerca di o enere, per un fa ore puramente
estetico, un brodo limpido.
GRASSI
Siamo in un momento storico in cui i grassi alimentari vengono
demonizzati e assistiamo a una proliferazione di alimenti senza
grassi. In realtà così come i carboidrati e le proteine, i grassi in
giusta quantità sono necessari per il nostro organismo. A parità di
peso contengono più del doppio dell’energia dei carboidrati e delle
proteine (9 kcal/g contro 4 kcal/g) e quindi sono usati dagli
animali, compreso l’uomo, principalmente come serbatoio
energetico.
Un file o di bovino può avere il 4-8% di grasso e uno di agnello
dal 4 al 6%. Le variazioni all’interno di una specie possono però
essere notevoli: pensate che la carne della razza bovina
giapponese Wagyu, quella del celeberrimo manzo di Kobe, può
avere un contenuto di grasso che si avvicina al 40%. L’animale che
ha subito la riduzione più drastica del contenuto di grassi è il
maiale. Ora un file o di maiale può contenere l’1-2% di grasso, una
quantità in linea, o addiri ura inferiore, a quella di un pe o di
pollo o tacchino.
Grassi di animali diversi non solo sono presenti in percentuali
diverse, ma possono anche avere una diversa composizione
chimica, che può variare con l’alimentazione, la razza e l’età. Oca e
anatra, per esempio, hanno un contenuto di grassi insaturi
superiore a quelli saturi. La composizione dei grassi di maiale e
pollame è abbastanza facilmente influenzata dall’alimentazione e
negli ultimi tempi, in linea con le dire ive sanitarie internazionali
che suggeriscono di ridurre il consumo di grassi saturi, si è operata
una selezione genetica per ridurne il contenuto, e sono stati
formulati mangimi arricchiti di grassi insaturi, provenienti da
semi oleosi. Per i ruminanti invece, come i bovini, è molto più
difficile modificare la composizione del grasso poiché la
produzione di grassi saturi dipende anche dai ba eri presenti nel
rumine dell’animale, che idrogenano i grassi insaturi prima che
arrivino nell’intestino e vengano assorbiti. Per questo motivo i
grassi di bovini e ovini sono prevalentemente saturi.
Il grasso è presente negli animali, e quindi nella carne che
acquistiamo, in almeno qua ro posti diversi. Se, come faccio io, la
prima cosa su cui vi avventate in un pollo arrosto o alla diavola
non è il pe o, che lascio volentieri a qualcun altro, ma la pelle,
saprete sicuramente che uno dei motivi per cui questa parte del
pollo è così succulenta risiede nel fa o che la parte esterna – che
deve essere ben arrostita e croccante – è saporita e secca, ma è
controbilanciata dal grasso, ormai quasi del tu o sciolto, che
risiede so o. I grassi sciolgono le molecole gustose create dalla
co ura e le intrappolano, facendole percepire alle nostre papille
gustative. Tu i gli animali accumulano grasso so o la pelle, in
maniera diversa e in zone diverse del corpo. E lo fanno sopra u o
per proteggersi dal freddo, visto che i grassi sono un o imo
isolante. Molte rice e tradizionali italiane di maialini, come il
porceddu, il maialino sardo, devono la loro popolarità anche al
grasso so ocutaneo del maiale. Questo tipo di grasso nel maiale
adulto viene utilizzato per produrre salumi, tra cui il più noto è
sicuramente il lardo, il grasso della zona dorsale.
Un’altra zona dove gli animali immagazzinano il grasso è la
cavità addominale, per proteggere alcuni organi come i reni –
chiamati anche rognoni in gergo gastronomico – o il cuore.
Questo tipo di grasso, chiamato “sego” nei bovini, veniva usato
per friggere ma è ormai ben poco utilizzato nella cucina casalinga,
sostituito da altri grassi alimentari. Solido a temperatura
ambiente in un’epoca in cui i frigoriferi non erano ancora entrati
nelle cucine, il sego si conservava senza problemi in un
contenitore, a differenza dello stru o. Trovava applicazioni
sopra u o al di fuori della cucina: come lubrificante e per
fabbricare saponi o candele.
Vi sono poi cuscine i di grasso che separano muscoli diversi.
Servono per farli scorrere più facilmente durante il loro
movimento. Nei tagli di carne che troviamo in vendita questo
grasso è quasi sempre eliminato ma può venire lasciato se la carne
è destinata a essere macinata, per esempio nella preparazione
degli hamburger, e in questo caso può arrivare al 20-30% del
totale.
Il grasso più importante dal punto di vista gastronomico però è
sicuramente quello disperso tra i fasci muscolari. Questo tipo di
grasso si chiama marezzatura o marmorizzazione. Il consumatore
moderno spesso preferisce, quando deve acquistare delle
bistecche, carne che non contenga grasso intramuscolare visibile a
occhio nudo. E sbaglia di grosso, perché poi quando la cucina a
casa propria si chiede come mai non sia così saporita e succulenta
come quella che ha mangiato nella Steak House.
Una bistecca ben marezzata, a sinistra, e una con poco grasso intramuscolare, a
destra.
Il grasso tra le fibre muscolari ha due funzioni importantissime:
prima di tu o rende più facile la masticazione delle fibre e del
tessuto conne ivo. Durante la co ura si scioglie e si insinua tra le
fibre e i fasci agendo da lubrificante, perme endo a questi di
scorrere più facilmente. L’effe o finale è che la carne, a parità di
co ura, sembra sciogliersi in bocca e risulta più morbida di un
pezzo contenente meno grasso.
CONTENUTO MEDIO DI GRASSI
[su 100 g di carne di tagli comuni di bovino adulto]
TAGLIO
File o
Girello
Scamone
Costata
Fesa
Lombata
Noce
So ofesa
Copertina di so o, copertina di spalla,
so ospalla, collo
Gere o anteriore o posteriore
Pancia, biancostato, punta di pe o
Spalla, muscolo, girello, fesone
GRASSI
(g)
5
2.8
3.7
6.1
1.8
5.2
2.3
2.6
5.7
3.2
10.2
2.4
FONTE: Banca dati INRAN, Istituto Nazionale di Ricerca per
gli Alimenti e la Nutrizione.
TESSUTO ADIPOSO E ADIPOCITI
Il tessuto adiposo è formato per lo più dagli adipociti,
cellule che fungono da deposito di grasso. Se
assumiamo più cibo rispe o al nostro fabbisogno
energetico, gli adipociti si ingrandiscono fino a 4 volte
per immagazzinare il grasso in eccesso e per poi
risvuotarsi se dimagriamo. Gli adipociti svolgono una
funzione importante per la regolazione dell’appetito
producendo la leptina. Quando il livello di questa
proteina è basso il corpo lo interpreta come un
segnale di carenza di energia e fa sca are subito la
sensazione di fame.
I mammiferi hanno anche uno speciale tessuto
adiposo: il “grasso bruno”, localizzato vicino al collo e
nel torace. È in grado di bruciare i grassi per produrre
calore e riscaldare il nostro corpo.
I grassi poi riescono a sciogliere molte molecole gustose insolubili
in acqua. Quando mastichiamo un boccone di carne con un buon
contenuto di grasso intramuscolare, le molecole gustose disciolte
si depositano sulle nostre papille gustative. Poiché il grasso ha
una persistenza in bocca maggiore dell’acqua, le sensazioni
gustative sono prolungate.
Quindi, il fa o che negli ultimi anni si sia andati incontro a una
riduzione della quantità di grassi nelle carni, non è
necessariamente una buona notizia dal punto di vista
gastronomico perché la carne con un contenuto di grassi molto
basso può diventare asciu a e immangiabile in fase di co ura
molto più facilmente.
CARBOIDRATI
Il contenuto di carboidrati della carne è, dal punto di vista
nutrizionale, decisamente trascurabile. I muscoli dell’animale in
vita contengono un carboidrato chiamato glicogeno. Questo
consiste di molte molecole di glucosio legate insieme e funge da
fonte locale di energia. L’animale – ma succede così anche nel
nostro corpo – immagazzina il glucosio in eccesso so o forma di
glicogeno per poterlo utilizzare in una fase successiva. Potete
immaginarlo come la versione animale dell’amido, il serbatoio di
glucosio sintetizzato dalle piante. Nelle fasi immediatamente
successive alla macellazione, il glicogeno viene consumato quasi
interamente, quindi la carne contiene solamente tracce di alcuni
zuccheri. Tracce che però, impareremo, sono importantissime
quando la si cuoce ad alte temperature per svilupparne il sapore.
VITAMINE E MINERALI
La carne è un’o ima fonte di vitamine del gruppo B, in particolare
tiamina (B1), riboflavina (B2), niacina (B3), piridossina (B6) e
cobalamina (B12). Il fegato e i reni sono particolarmente ricchi di
vitamina B12. Tu e le vitamine del gruppo B sono solubili in
acqua e alcune, come la B1, sono sensibili al calore, quindi il
contenuto di queste nella carne co a è molto variabile e può
essere notevolmente inferiore rispe o al quantitativo di partenza
a seconda del metodo di co ura impiegato.
Di queste, la vitamina B12 è l ’unica presente esclusivamente nei
prodo i animali. Ecco perché a chi segue una dieta vegana,
completamente priva di prodo i animali, si consiglia di assumerla
tramite integratori, per ov viarne l ’assenza nella dieta.
La carne è anche un’o ima fonte di ferro: un file o di manzo ne
contiene 2 mg ogni 100 g, e il fegato addiri ura da 4 a 8 volte tanto.
Esistono due tipi di ferro nella carne. Il cosidde o “ferro eme” è
legato all’emoglobina e alla mioglobina. Circa il 50-60% del ferro
della carne è di tipo eme. Questo tipo di ferro è assorbito molto
facilmente dall’uomo nell’alimentazione. Il restante è ferro libero,
come lo si trova anche in tanti vegetali, non legato a proteine.
Questo ferro è più difficilmente assorbibile dal nostro corpo e si
stima che solo l’1-7% possa essere assorbito, confrontato con il 2030% del ferro eme. Per un fenomeno ancora non del tu o
compreso, se nella dieta assumiamo carne la presenza del ferro
eme aumenta l’assorbimento anche del resto del ferro, per
esempio contenuto nei vegetali.
LO SAPEVATE CHE?
La vitamina C aumenta l’assorbimento
del ferro non eme da parte del nostro
corpo.
Se è universalmente noto che la carne contiene buone quantità di
ferro, meno noto è il fa o che è altre anto ricca di zinco, un altro
micronutriente essenziale nella sintesi delle proteine, degli acidi
nucleici e nella maturazione sessuale maschile. Anche in questo
caso il fegato ne è ricchissimo.
LA STRUTTURA FISICA
Acqua, proteine e grassi sono organizzati nel muscolo in una
stru ura altamente gerarchica, a differenza di quanto avviene in
altri alimenti di origine animale come il la e e le uova. Se in un
uovo o nel la e le proteine sono quasi del tu o libere di flu uare
in acqua, in un muscolo vari tipi di proteine sono organizzate in
stru ure complesse per costituire il tessuto muscolare. Anche i
grassi sono organizzati e distribuiti in punti specifici dei vari
organi, e comprendere l’organizzazione dei vari componenti in un
pezzo di carne è importante non solo per uno studente di
veterinaria alle prese con l’esame di anatomia, ma anche per chi,
professionalmente o a livello casalingo, si dile a in cucina.
TESSUTO MUSCOLARE
Un muscolo è fa o un po’ come un cavo ele rico molto grande
costituito da cavi più piccoli a loro volta composti da lunghi
filamenti. Esa amente come per i cavi ele rici, a ogni livello vi è
una sorta di guaina che protegge e separa i fili tra loro. Tu e
queste guaine sono formate da un tessuto conne ivo, composto
principalmente da una proteina fibrosa che abbiamo già
incontrato, il tropocollagene. Il tessuto conne ivo è una sorta di
colla biologica che lega insieme tessuti diversi, per esempio il
muscolo a un osso, oppure lega insieme filamenti più piccoli per
formare la stru ura muscolare.
STRUTTURA GERARCHICA DI UN MUSCOLO
FIBRE Le cellule dei muscoli hanno una forma particolare:
sono allungate e prendono il nome di “fibre”. Sono molto so ili, del
diametro di un capello o anche meno, ma possono essere molto
lunghe, tanto quanto il muscolo intero. Le fibre sono ricoperte da
una guaina di tessuto conne ivo chiamata “endomisio” che non si
scioglie neppure a 100 °C. Fortunatamente rappresenta meno del
10% del tessuto conne ivo totale di un muscolo e quindi non ha
quasi influenza sulla percezione della tenerezza o meno di un
pezzo di carne.
MIOFIBRILLE E SARCOMERI All’interno di una fibra
muscolare vi sono alcune migliaia di miofibrille, chiamate a volte
semplicemente fibrille. Sono un po’ come i singoli fili di rame che
si vedono quando togliamo la guaina di plastica da un piccolo filo
ele rico. Ogni miofibrilla è a sua volta composta da unità
elementari, chiamate sarcomeri, in grado di allungarsi e contrarsi
in sincronia quando arriva l’impulso nervoso. Il movimento
avviene grazie ai filamenti di actina e di miosina – le principali
proteine costituenti – che sono in grado di scorrere le une
inframmezzate alle altre.
CONTRAZIONE MUSCOLARE
Il meccanismo di contrazione muscolare funziona grazie al
movimento di actina e miosina.
Quando tu i i sarcomeri sono contra i lo è anche il muscolo. In
questa posizione l’actina e la miosina sono legate insieme
formando l’actomiosina.
Osservate il bicibite del vostro braccio destro a riposo.
Toccatelo, sentite il muscolo so o la pelle? Ora contraetelo, un po’
come se doveste giocare a braccio di ferro. Sentite come è molto
più duro? Noterete anche che il muscolo contra o è più corto ma
si è espanso nella direzione perpendicolare, lasciando quasi
invariato il volume totale. Questo perché ogni sarcomero
contraendosi aumenta di spessore affinché actina e miosina
possano interconne ersi.
FASCI Le fibrille e le fibre sono troppo piccole per essere viste
a occhio nudo: guardando un pezzo di carne le striature che si
osservano, a volte più marcate altre volte quasi imperce ibili,
sono i fasci, composti da molte fibre tenute assieme sempre dalla
fasciatura di collagene, che qui si chiama “perimisio” e che
costituisce il 90% del tessuto conne ivo interno al muscolo.
Avete presente quando, in un bollito o in uno straco o, dai pezzi
di carne si staccano dei fili? Quelli sono i fasci muscolari, composti
da circa 150-200 fibre, che si separano dopo che la lunga co ura in
acqua ha sciolto completamente la guaina che li separava e teneva
insieme. In alcune rice e, come il maiale sfilacciato, questa è
addiri ura la cara eristica principale.
MUSCOLO Al livello gerarchico più alto, infine, abbiamo il
muscolo, composto da più fasci tenuti insieme dal perimisio e
fasciato esternamente dall’epimisio: il tessuto conne ivo
biancastro che si vede a occhio nudo. È generalmente più duro
delle guaine che circondano fibre e fasci, specialmente
avvicinandosi all’osso, perché deve tenere insieme tu o il muscolo
e perme ergli di contrarsi e distendersi scivolando su muscoli
vicini. Muscoli adiacenti nell’animale sono raccolti in gruppi
muscolari. A volte il macellaio asporta e separa i singoli muscoli,
come il file o o il girello. In altri tagli, specialmente se provengono
da parti meno nobili dell’animale, più muscoli sono sezionati
assieme e venduti a fe e o a blocchi, oppure macinati.
TESSUTO CONNETTIVO
Come dice il nome, il tessuto conne ivo serve a tenere insieme
parti diverse. Fasci muscolari e fibre all’interno di un muscolo,
come abbiamo visto, o ancora per legare insieme parti diverse,
come muscoli e ossa, oppure per canalizzare il sangue. È formato
principalmente da proteine: tropocollagene sopra u o, ma anche
elastina, laminina e altre.
OSSA
Non le possiamo certo classificare come carne. Dopotu o
non le mangiamo. Però hanno un ruolo importante in
alcune rice e, per le sostanze che contengono: il midollo,
nell’ossobuco, e in generale il tessuto conne ivo nella
preparazione del brodo.
Nella carne troviamo tre tipi di tessuto conne ivo, costituiti
principalmente da elastina e collagene. L’elastina è la proteina che
compone le cartilagini, i vasi sanguigni e i legamenti. Organizzata
in una stru ura elastica, non è solubile in acqua e in co ura si
indurisce ulteriormente. Fortunatamente il contenuto di elastina
dei muscoli, tranne casi particolari, è molto basso, 0,1-0,2% del
tessuto conne ivo totale. Può essere presente nella pellicola
esterna ai muscoli, che va eliminata con un coltello nella
preparazione iniziale del pezzo di carne.
Abbiamo poi la reticolina e il collagene. In entrambi i casi, il
costituente principale è la proteina tropocollagene, la più comune
proteina stru urale del regno animale. Può costituire anche un
terzo di tu e le proteine di un organismo. Abbiamo già visto
essere formata da tre lunghe fibre proteiche avvolte a tripla elica,
un po’ come una fune.
STRUTTURA A TRIPLA ELICA DEL TROPOCOLLAGENE
A seconda di come si organizza, il tropocollagene può formare
diversi tipi di tessuto conne ivo; un po’ come con dei fili di lana o
di cotone si possono tessere stoffe con trame diverse.
L’ANGOLO CHIMICO
Sono stati identificati almeno 28 tipi di
arrangiamenti diversi di tropocollagene, ma nei
muscoli sono presenti quasi esclusivamente il
collagene I e il collagene III.
La reticolina, o tessuto conne ivo reticolare, ha una stru ura a
rete molto fine e, purtroppo, come l’elastina è insolubile in acqua.
Ricopre alcuni organi come i polmoni e i reni, ma anche alcuni
muscoli: l’epimisio, per esempio, può essere ricco di reticolina, oltre
che di elastina, e quindi deve essere eliminato col coltello,
altrimenti in co ura diventa duro e immangiabile.
Il collagene, infine, è anch’esso formato da filamenti di
tropocollagene, ma legati insieme in modo diverso rispe o alla
reticolina. La quantità di collagene in un boccone di carne cruda
influenza dire amente la sensazione di morbidezza, o di durezza,
quando lo me iamo so o i denti.
Le fibre di collagene si accorciano se scaldate, come vedremo
meglio in seguito. La temperatura a cui avviene questa
contrazione è diversa per specie differenti. Per i pesci è circa 45 °C
mentre per i mammiferi è circa 60 °C, ed è questo il motivo
principale per cui, generalmente, i pesci devono essere co i a
temperature inferiori rispe o alla carne dei mammiferi.
Le guaine dei fasci – il perimisio – sono fa e di collagene che, a
differenza della reticolina, è solubile in acqua. Dopo essersi
accorciate, se riscaldate in ambiente acquoso, le fibre di collagene
si possono sciogliere, anche se lentamente, liberando il
tropocollagene e i singoli filamenti proteici o enendo la gelatina.
Il risultato finale, a ricompensare la vostra pazienza per la lunga
co ura, è un aumento della lubrificazione tra fibre e fasci, che
rende la carne più morbida e succulenta.
LE FRATTAGLIE O IL “QUINTO QUARTO”
La cucina regionale italiana è nata povera, figlia della
disponibilità spesso scarsa di materie prime di qualità non
certo elevata. Dopo la macellazione un animale veniva
diviso in quarti, per essere poi ulteriormente sezionato. Se
ricchi e nobili potevano mangiare i muscoli dell’animale, la
carne più pregiata e costosa, rimanevano come scarti tu i
gli organi interni, le fra aglie. Fegato, reni, cuore, cervello e
così via. Tu o ciò che rimane dopo aver sezionato i qua ro
quarti dell’animale, viene chiamato “quinto quarto”. Come
spesso accade, la necessità di rendere gustoso e appetibile
tu o ciò che si poteva di un animale ha portato alla
creazione di rice e popolari da leccarsi i baffi, come il
fegato alla veneziana, il rognone trifolato, la cervella fri a,
la trippa, la coda alla vaccinara, la lingua salmistrata, i
fegatini, la finanziera e così via. Io adoro quasi tu e le
rice e di fra aglie (ho ancora qualche problema con la
trippa). Cucino il fegato regolarmente, in vari modi, e uno
dei pia i che ancora chiedo ogni tanto a mia madre di
prepararmi quando vado a trovarla è il rognone trifolato.
Gli organi interni di un animale hanno una composizione
diversa dai muscoli e deperiscono più velocemente. Per
questo motivo andrebbero consumati più rapidamente di
quanto facciamo con i tagli muscolari. Se una fiorentina
può rimanere nel nostro frigorifero per due giorni senza
grossi problemi prima di venire co a, fegato e rognoni
devono essere consumati al più presto.
Cosa succede quando l’animale invecchia
All’aumentare dell’età dell’animale, o del lavoro a cui è so oposto, i
muscoli subiscono delle trasformazioni che hanno una rilevanza
gastronomica.
Più l’animale invecchia e più, con il lavoro continuo dei muscoli,
il collagene di alcuni muscoli aumenta. Con il tempo, e con la
maturazione dell’animale, si formano anche dei legami più forti
dire amente tra i diversi filamenti proteici e tra fibre di collagene
vicine, ed è per questo che tagli di carne ricchi di tessuto
conne ivo di animali anziani hanno bisogno di co ure molto
lunghe per poter dissolvere i legami formati tra le catene di
collagene. Questi fa ori portano la carne a essere più dura. Anche
le fibre muscolari subiscono delle modifiche con l’esercizio
muscolare: aumenta il numero di fibrille all’interno delle fibre, che
quindi diventano più voluminose, come indire amente potete
osservare guardando i muscoli di un culturista.
Quindi animali molto vecchi che si sono mossi tanto avranno la
carne molto più dura. Provate a sentire la differenza tra la carne
del vitello e quella del toro. Questo è il motivo principale per cui in
tu e le culture gastronomiche mondiali vi sono rice e che
prevedono l’utilizzo di animali giovani, o addiri ura da la e: la
carne è molto più morbida, anche se molto meno saporita.
Muscoli più teneri e meno teneri
Come regola generale, a parità di età dell’animale, più un muscolo
viene sollecitato e utilizzato quando l’animale è in vita più sarà
ricco di tessuto conne ivo, più grosse saranno le sue fibre, e
quindi più sarà duro. Da queste considerazioni possiamo
grossolanamente prevedere quali parti dell’animale hanno
muscoli più teneri e quali meno.
MUSCOLI SEDENTARI E MUSCOLI SEMPRE IN MOVIMENTO DI UN QUADRUPEDE
I muscoli delle zampe devono sostenere tu o il peso, mentre
quelli a orno e vicino al collo sostengono la testa e sono in
continuo movimento quando l’animale cerca da mangiare o si
muove. Saranno quindi le parti meno tenere e più ricche di tessuto
conne ivo, e avranno bisogno di speciali tra amenti per essere
cucinate. I muscoli del dorso invece si muovono poco, sono
so oposti a poche sollecitazioni e non devono sostenere il peso
dell’animale. Saranno quindi meno ricchi di tessuto conne ivo e
risulteranno più teneri: un file o, muscolo dorsale, sarà più tenero
della punta di pe o, ricavata dalla zona tra il collo e la pancia.
SANGUE
Il sangue è un tessuto particolare dell’animale, poiché è
liquido. In alcune rice e tradizionali è utilizzato
dire amente come ingrediente, per esempio nel
sanguinaccio, ma nella cucina contemporanea, e
sicuramente nelle cucine casalinghe, ormai non è più un
ingrediente. Il colore del sangue è dovuto principalmente
all’emoglobina, la proteina contenente ferro che trasporta
l’ossigeno in giro per il corpo. Scorre nei vasi sanguigni, ma
nella carne che acquistiamo ne è rimasto pochissimo: il
colore rosa o rosso della carne è dovuto a una proteina
simile all’emoglobina, la mioglobina, che immagazzina
l’ossigeno all’interno del muscolo.
RICAPITOLIAMO…
Le cara eristiche principali di un taglio di carne sono
determinate, in uno stesso animale, sia dalla quantità sia dal tipo
di tessuto conne ivo presente, oltre che dalla quantità di grasso.
Le percentuali relative di fibre, collagene e grasso determinano in
larga misura in che modo sarebbe meglio tra are e cuocere il
taglio di carne, ricordando che, se riscaldato, il collagene prima si
indurisce e poi si scioglie, e che il grasso, sciogliendosi, lubrifica le
fibre. Tagli molto poveri di collagene e magri possono essere
mangiati crudi a fe e, come nel carpaccio o nella carne all’albese.
Oppure, se hanno un po’ di tessuto conne ivo, ma non troppo,
possono essere macinati per preparare una tartare. Se li cuociamo
è meglio scegliere delle co ure asciu e e veloci, in modo da non
asciugare troppo la carne che, essendo povera di collagene, non
godrà dell’effe o della lubrificazione della gelatina. Se la carne ha
poco tessuto conne ivo, ma una buona quantità di grasso, come la
rinomata carne del manzo di Kobe, il grasso sciogliendosi
compenserà la mancanza di lubrificazione. Aumentando la
quantità di collagene presente è inevitabile prolungare la co ura,
che dovrà necessariamente sciogliere il collagene. Poiché per
sciogliere il tessuto conne ivo serve tempo, queste co ure
saranno lunghe e in ambiente acquoso. Il pezzo può essere
sommerso interamente dal liquido, come in un bollito o uno
spezzatino, oppure parzialmente, come in un brasato, o ancora
essere mantenuto in un ambiente ricco di vapore d’acqua, come un
cartoccio o una pentola ben sigillata, sfru ando l’acqua già
presente nella carne – dopo tu o è circa il 75% – ed evitando che
possa sfuggire facilmente.
In pratica in questa sezione è riassunto tu o il libro, o quasi.
Dedicheremo i prossimi capitoli a sviscerare ogni singolo aspe o
per mostrare come i pochi principi scientifici che vi ho esposto
perme ano di scegliere, per ogni taglio di carne, il metodo di
co ura più ada o.
LA DIFFERENZA TRA POLLO, GALLO, GALLETTO E GALLINA
Nella UE la commercializzazione delle carni di pollame
distingue gli esemplari di Gallus domesticus in base all’età e
al sesso. Un pollo può essere maschio o femmina, con un’età
tra i 35 e i 60 giorni. Un galle o è semplicemente un pollo
che non ha superato i 28 giorni di età. Un pollo in età
riprodu iva si chiama gallo, se di sesso maschile, e gallina,
se di sesso femminile. Spesso le galline in vendita nei
supermercati sono ovaiole, usate cioè per produrre uova,
alla fine della loro carriera riprodu iva. Un pollo maschio
castrato prima che raggiunga l’età riprodu iva, ingrassato
appositamente e macellato dopo almeno 140 giorni dalla
castrazione, è definito “cappone”. Si usa solitamente per
preparare il brodo durante le festività.
RICETTA
CARPACCIO DI MANZO
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come un taglio magro e
povero di tessuto conne ivo possa essere consumato
crudo, dopo essere stato tagliato molto so ile per ridurre al
minimo la lunghezza delle fibre muscolari e aver eliminato
il tessuto conne ivo esterno.
A Giuseppe Cipriani doveva piacere molto la pi ura se diede il
nome di due pi ori ad altre ante rice e che ormai sono diventate
patrimonio gastronomico del mondo. Le serviva nel suo
famosissimo Harry’s Bar a Venezia, a ridosso di Piazza San Marco,
frequentato da personaggi come Ernest Hemingway, Peggy
Guggenheim e Arturo Toscanini. La prima è il cocktail Bellini,
creato nel 1948 unendo una parte di polpa bianca di pesca con tre
parti di prosecco. Pare che il colore rosato del cocktail ricordasse a
Cipriani il colore della veste di un santo in un dipinto del pi ore
rinascimentale veneziano Giovanni Bellini, noto anche come
Giambellino. La seconda rice a è il Carpaccio. Con “carpaccio di”
ormai si intende carne, pesce o altri ingredienti tagliati a fe e
so ilissime e serviti solitamente crudi. Il Carpaccio originario,
però, l’ha inventato nel 1950 proprio Cipriani. Il suo nome deriva
da Vi ore Carpaccio, celebre pi ore veneziano del rinascimento,
famoso per il suo uso del colore rosso, a cui in quell’anno venne
dedicata una grande mostra a Venezia.
Il pia o, raccontò Giuseppe Cipriani, fu ispirato dalla contessa
Amalia Nani Mocenigo, una cliente abituale dell’Harry’s Bar, alla
quale il medico aveva proibito di mangiare carne co a.
Ogni cuoco ormai ha la sua versione personale, ma quella
originale era fa a di fe ine so ilissime di controfile o di manzo,
più saporito del file o, disposte su un pia o e decorate con una
salsa a base di maionese fa a gocciolare come per dipingere un
quadro astra o.
Per spendere meno, è possibile usare anche tagli un po’ meno
pregiati, come lo scamone o il girello.
Vi devo ricordare che il consumo di carne cruda espone a rischi
sanitari dovuti alla possibilità che ba eri patogeni possano
proliferare sulla superficie della carne. Per ridurre al minimo
questi rischi usate sempre carne freschissima e non lasciatela mai
a temperatura ambiente se non immediatamente prima di
mangiarla.
INGREDIENTI 600 g di girello
PER 6 PERSONE sale
PER 250 ML DI SALSA
185 ml di maionese (meglio se preparata
al momento)
1-2 cucchiaini di salsa Worcestershire
1 cucchiaino di succo di limone
la e
sale
pepe bianco
PROCEDIMENTO PER LA SALSA
1
Per la salsa, me ete la maionese in una ciotola e sba etela con la
salsa Worcestershire e il succo di limone: la lecitina contenuta
nella maionese aiuterà a emulsionare i nuovi liquidi aggiunti.
2
Aggiungete il la e necessario per o enere una salsa di una
consistenza sufficiente da poter essere fa a gocciolare dall’alto
sulla carne, senza però essere troppo liquida.
3
Assaggiate e correggete il condimento con un po’ di sale, di pepe
macinato al momento e altra salsa Worcestershire, oppure con
altro succo di limone, a piacere.
PROCEDIMENTO PER IL CARPACCIO
4
Per tagliare la carne molto so ile è necessario avere un coltello
ben affilato a lama liscia e che la carne sia ben fredda, in modo da
risultare più soda. Potete usare il controfile o, come faceva
Cipriani, togliendo ogni traccia di grasso e tessuto conne ivo,
o enendo così un piccolo cilindro di carne tenera. Oppure potete
usare un file o, meno saporito, parimenti pulito dal tessuto
conne ivo. Ma anche scamone o girello.
5
Affe ate la carne a so ilissimamente. Dovreste riuscire a tagliare
una fe a con un movimento unico, sfru ando tu a la lama del
coltello, facendolo avanzare mentre tagliate e abbassandolo verso
il tagliere. In questo modo eviterete di sfilacciare le fe e. Un
trucco che potete utilizzare è quello di riporre per 30 minuti la
carne nel freezer, chiusa e ben stre a nella pellicola per alimenti
in modo da formare un cilindro. Più fredda è la carne e più sarà
facile tagliarla in fe e molto so ili. Potete anche raffreddarla per
un tempo più lungo, ma la carne non deve assolutamente
congelare, deve solo raggiungere temperature vicine allo zero per
diventare molto più soda e più facile da tagliare.
6
Sistemate le fe ine su un pia o coprendone interamente la
superficie.
7
Salate leggermente la carne e me ete i pia i in frigorifero per
almeno 5 minuti. Se l’avevate messa nel freezer per tagliarla,
aspe ate 10 minuti. Successivamente intingete un cucchiaio nella
salsa e, facendola gocciolare dall’alto, immaginate di dover
dipingere un quadro astra o.
8
Servite immediatamente.
CONSIGLIO
Per una versione “veloce” del Carpaccio potete
anche semplicemente condire la carne con un
po’ di succo di limone, olio extravergine di
oliva, scaglie di grana e un po’ di insalata. O,
ancora, con olio, sale, pepe e capperi.
RICETTA
MAIALE SFILACCIATO AL FORNO
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come una lunga co ura riesca
a sciogliere il tessuto conne ivo che tiene insieme i fasci
muscolari, che diventano separabili e sfilacciabili, dando il
nome a questo procedimento.
Del maiale non si bu a via niente, ricorda un de o popolare. E
questo perché praticamente ogni taglio viene utilizzato per
cucinare o per produrre salumi. Nonostante la carne di maiale
costi meno di quella di vitello o manzo, negli ultimi decenni è
sempre meno usata nelle case degli italiani, dove il maiale
richiama più facilmente la grande varietà di salumi che i norcini
d’Italia sono riusciti a inventare nel corso dei secoli. Infa i, se vi
dico “coppa” o “spalla” probabilmente vi vengono in mente gli
omonimi salumi, eppure questi sono anche due tagli che si
possono usare per una delle più classiche preparazioni da
barbecue, rivaleggiando per popolarità forse solo con le costine: il
maiale sfilacciato o pulled pork. La carne viene prima affumicata e
poi co a lentamente talmente a lungo, a volte anche per 12 ore, in
modo che alla fine i fasci muscolari si stacchino gli uni dagli altri
tirando con una semplice forche a – pull in inglese vuol dire
«tirare». La carne è sfilacciata a mano, con delle forche e o con
a rezzi simili, e si usa per preparare panini, conditi con una salsa
barbecue e una tradizionale insalata di cavolo, cipolle, carote e
maionese chiamata coleslaw.
Qualcuno potrebbe pensare che la carne co a così a lungo sia
“straco a”, e dal punto di vista tecnico avrebbe ragione. Tu avia
se si sceglie una carne ricca di tessuto conne ivo – che si
trasforma in gelatina con una lunga co ura – e ricca di grasso –
che lubrifica lo spazio lasciato vuoto dalle proteine delle fibre che
si denaturano – si o errà una preparazione da leccarsi le dita.
Non è possibile riprodurre in un forno casalingo il gusto del
BBQ, con il suo sentore affumicato di legna e il suo calore asciu o.
Questo però non significa che non si possano sfru are gli stessi
principi per cucinare gli stessi tagli in cucina e o enere comunque
un o imo pia o.
La scelta del taglio è cruciale: non possiamo usare tagli di
maiale troppo poveri di collagene come il file o, la lonza o l’arista.
E neppure tagli troppo magri come la coscia. Altrimenti rischiate
di avere una carne troppo asciu a. Il taglio che i pitmaster
americani – così si chiamano gli adde i al barbecue – del Sud
usano per il pulled pork si chiama Boston bu e corrisponde alla
parte superiore della spalla. Tra Paesi diversi non sempre vi è una
corrispondenza precisa tra i tagli, specialmente se essi
comprendono più muscoli che non vengono separati interi, come
accade per il file o, ma vengono tagliati o segati. Un taglio italiano
che si avvicina al Boston bu è la coppa, da cui si prepara anche
l’omonimo salume. Da noi la coppa, che parte dietro il collo del
maiale, viene separata dalla zampa, da cui sarà tagliata la spalla. È
un taglio che si può fare arrosto ma è perfe o anche per questa
rice a. Io la trovo già confezionata in pezzi da 1,5-2 kg al
supermercato. Se la trovate solo già affe ata, per le braciole,
chiedete al macellaio di darvi un pezzo intero.
INGREDIENTI
PER 6-8
PERSONE
1,5-2,5 kg di coppa di maiale a taglio
intero
zucchero
spezie
sale
PROCEDIMENTO
1
Dovrete immergere la coppa in una salamoia, quindi procuratevi
un contenitore ada o. Io avevo un pezzo di carne da 1,5 kg e ho
usato una scatola di plastica da 3 litri. Preparate la salamoia
aggiungendo a ogni litro di acqua 150 g di sale e 50 g di zucchero.
La prima volta preparate la salamoia standard. Le volte successive
potete sostituire una parte dell’acqua con del succo di mela e
sostituire lo zucchero con melassa, miele o zucchero grezzo di
canna. Se l’assaggiate vi sembrerà salatissima, ma non temete:
come vedrete più avanti, il sale nella salamoia aiuterà gli strati
superficiali della carne a non disidratarsi troppo e insaporirà solo
un po’ la carne, mentre gli zuccheri rimarranno nella crosticina
contribuendo al sapore.
2
Me ete il pezzo di carne in un contenitore con coperchio e
copritelo completamente con la salamoia.
Se la carne galleggia potete me erle sopra un peso che la tenga
sommersa. Chiudete il coperchio e me ete il contenitore in
frigorifero. Potete lasciare la carne in salamoia anche per
un’intera no ata prima di iniziare a cuocerla. Se avete fre a,
potete lasciarla solo 4 ore. Se davvero non avete tempo potete
saltare questo passaggio, ma dovrete stare più a enti a non far
seccare il pezzo di carne durante la co ura.
3
Togliete la carne dalla salamoia, che ge erete via. Asciugatela ben
bene con della carta assorbente da cucina.
4
A questo punto coprite il pezzo di carne con sale misto a spezie.
Nella produzione di salumi questo passo si chiama “conciatura”. In
cucina da qualche tempo è stato introdo o il termine americano
rub per indicare una miscela di sale e spezie in polvere da
applicare alla carne. Esistono ormai più combinazioni di sale e
spezie da usare che sughi per gli spaghe i, e ognuno ha la sua
preferita. Anche da noi in Italia si iniziano a vendere le confezioni
con le miscele già pronte: se ne avete una preferita usate quella. Se
invece avete un po’ di tempo per procurarvi gli ingredienti vi
suggerisco di provare a fare la miscela Rub18 ideata da Gianfranco
Lo Cascio, uno dei più famosi esperti italiani di BBQ. Altrimenti
potete inventarne una voi a partire da una base di pepe macinato,
zucchero, paprica e sale, aggiungendo a vostro gusto altri aromi e
spezie. Se usate la paprica affumicata potrete sopperire un po’ alla
mancanza della fase di affumicatura.
LA MISCELA RUB18 DI GIANFRANCO LO CASCIO
INGREDIENTI 20 g di zucchero grezzo di canna
5 g di origano
120 g di paprica dolce in polvere
20 g di aglio in polvere
15 g di cipolla in polvere
5 g di pepe nero
5 g di pepe bianco
6 g di semi di finocchio
50 g di sale
PROCEDIMENTO
Pesate gli ingredienti e, usando un macinaspezie oppure un
vecchio macinino da caffè, riducete tu i gli ingredienti,
separatamente, alla stessa grana, che deve essere finissima.
Mescolateli e rimuovete a mano gli eventuali grumi.
Chiudete in un contenitore ermetico la miscela e usatela
generosamente nelle vostre grigliate. Ogni tanto agitate il
bara olo per evitare che gli ingredienti formino grumi,
specialmente se entra umidità.
5
Con le mani passate la miscela in polvere sulla carne. Siate
generosi e massaggiate bene per farla aderire, senza però fare uno
strato troppo spesso. Alcuni, per facilitare questa fase,
spennellano la carne con un po’ di senape prima di me ere la
miscela. Potete usare dei guanti usa e ge a per non sporcarvi.
6
Se usassimo il barbecue, ora sarebbe la volta della fase di
affumicatura, che è quasi impossibile da o enere in casa. Noi
invece procediamo dire amente alla co ura. Bisogna far formare
una crosticina esterna, quindi, se potete, usate
contemporaneamente una teglia e una griglia rovesciata per
sostenere la carne, in modo che i succhi che usciranno non vadano
a far bollire la carne. Io ho ricoperto la teglia di alluminio per
alimenti e, sopra, di carta da forno per raccogliere meglio i succhi.
7
Coprite la carne e la teglia completamente con alluminio per
alimenti. L’ambiente di co ura deve rimanere umido per poter
sciogliere, lentamente, il collagene. Se lo avete, inserite un
termometro a sonda per tenere so o controllo la temperatura.
8
Infornate a 140 °C e cuocete per 4 ore, monitorando la temperatura
con il termometro a sonda. Se il pezzo che avete scelto è piu osto
piccolo – meno di 1,5 kg – riducete la temperatura a 130 °C. La
temperatura salirà ma, se avete sigillato bene l’involucro in modo
che il vapore resti imprigionato, non dovrebbe superare i 90-95 °C.
Se il pezzo di carne era di 2 kg o più la temperatura finale potrebbe
anche essere so o i 90 °C. Dopo 4 ore togliete l’alluminio e
recuperate il liquido rilasciato.
9
Dovrete separare il grasso, che potete ge are, e tenere la parte
acquosa e gustosa. È abbastanza facile farlo: versate il liquido in
un recipiente stre o e alto, anche un bicchiere può andare bene,
lasciatelo riposare e poi ge ate il grasso che, essendo meno denso
dell’acqua, formerà uno strato galleggiante.
10
Rime ete in forno, sempre con la sonda. Ora, senza più l’alluminio
per alimenti, l’acqua comincerà a evaporare più facilmente e la
temperatura a salire: si formerà una gustosa crosta esterna.
Internamente dovremo raggiungere i 95 °C. Quando la
temperatura al cuore raggiunge i 95 °C – potrebbero servire dai 30
ai 90 minuti, a seconda della grandezza del pezzo di carne –
togliete la carne dal forno e lasciatela raffreddare, coperta con
alluminio per alimenti, per 20-30 minuti. Se i 95 °C erano già stati
raggiunti in precedenza, perché il vostro pezzo di carne era
piu osto piccolo oppure perché la temperatura del forno era
troppo alta, tenete comunque il pezzo nel forno per una ventina di
minuti, in modo che formi la crosticina. Alla fine la carne si
sfalderà toccandola con una forche a.
11
Sfilacciate la carne tenendo due forche e nelle due mani. I fili che
osservate sono i singoli fasci muscolari, composti a loro volta da
fibre, che si separano completamente perché la lunga co ura ha
sciolto il collagene che li legava. In un contenitore aggiungete i
succhi che avete recuperato in precedenza in modo che possano
essere riassorbiti dalle fibre; se amate la salsa barbecue o qualche
altra salsa, potete miscelarli a questa e poi usare il composto per
condire il panino.
12
Il pulled pork, infa i, è tradizionalmente utilizzato come farcitura
di un panino da hamburger. Io non amo la salsa barbecue e
neppure la coleslaw, quindi preferisco guarnirlo con salsa alla
senape e cipolle grigliate.
Se avanzate della carne potete surgelarla senza problemi.
IL COLORE DELLA CARNE
Quanti colori ha la carne? Quando è cruda è rossa o rosa,
ma anche biancastra oppure giallina. Quella di selvaggina
può essere molto scura e quasi nera in alcuni mammiferi.
Diventa marrone quando è arrostita, oppure grigiastra se
sbagliamo a cucinare una bistecca, o rosa intenso nei
salumi affumicati e in alcuni insaccati. Insomma, un
arcobaleno che è importante conoscere per vari motivi.
Innanzitu o, è il primo a ributo che il consumatore
valuta nell’acquisto, consapevolmente o meno, di carne
fresca o salumi. Inoltre, per il cuoco è fondamentale capire
e interpretare corre amente i cambiamenti di colore di
alcune carni quando vengono co e perché, come vedremo,
il colore funziona un po’ come un termometro grossolano.
Può infine segnalare un deterioramento superficiale. È
quindi importante approfondire l’argomento per i suoi
risvolti culinari.
CARNI BIANCHE E ROSSE
Per la gastronomia le carni sono suddivise in bianche e rosse,
anche se la distinzione non è sempre così ne a. D’altronde, avrete
sicuramente notato che gli animali hanno carni di colore diverso:
il bovino adulto ce l’ha rossa mentre quella del maiale è rosa e così
quella di pollo, a volte leggermente giallastra. Anche animali di età
diversa possono avere la carne colorata diversamente – pensate al
vitello e al manzo – e a volte persino tagli diversi dello stesso
animale hanno colori differenti. Questa varietà dipende dalla
quantità di mioglobina contenuta e dal tipo di fibre muscolari.
LO SAPEVATE CHE?
Quando si parla di carni rosse in
ambito medico o salutistico, si
intendono tu e le carni di mammiferi e
quindi anche alcune che dal punto di
vista gastronomico vengono spesso
classificate come bianche vitello,
coniglio e a volte persino maiale.
Nei bovini è più difficile osservarlo, ma prendete per esempio un
pollo: il pe o è sempre molto più chiaro delle cosce. Il motivo
risiede nel tipo diverso di fibre di cui sono composti i muscoli.
Questo non è un manuale di veterinaria, non temete, ma è
importante per un cuoco, anche casalingo, conoscere il più
possibile della materia prima con cui sta lavorando, quindi cercate
di seguirmi ancora un poco. Sarete ricompensati con una
maggiore consapevolezza quando cucinerete. E non temete,
arriveremo anche a cuocerla, la carne, prima della fine del libro.
ROSSO CARNE
La carne di manzo è rossa; da bambino credevo fosse così perché
piena di sangue, anche se non riuscivo a capire come mai il
bancone del macellaio non fosse grondante di rosso. La carne del
pollo e del vitello invece erano più rassicuranti, molto chiare e
sicuramente, pensavo, di sangue non dovevano contenerne. In
realtà, come ho imparato molto più tardi, non è il sangue a
impartire la colorazione rossa, o rosa, alla carne bensì,
principalmente, una proteina contenuta nei muscoli: la
mioglobina. Questa proteina, che dona una colorazione rosso
scuro alla carne, è parente stre a dell’emoglobina, la proteina che
trasporta l’ossigeno nel flusso sanguigno. E come la sua cugina
emoglobina, la mioglobina è in grado di legare l’ossigeno in modo
reversibile. Può cioè legare l’ossigeno, tenerlo prigioniero e
liberarlo quando il muscolo ne ha bisogno.
Che cosa succede alla carne quando la scaldiamo? Il legame
dell’ossigeno con la mioglobina è reversibile e a basse temperature
questa proteina può fungere da deposito temporaneo. Una sorta
di bancomat dell’ossigeno nelle cellule. Il ferro contenuto nel
gruppo eme della mioglobina è in uno stato non ossidato anche in
presenza di ossigeno. Quando scaldiamo, specialmente in
ambiente acido, a basso pH, il ferro si ossida, o enendo la
metamioglobina, di colore marrone. Questa non è più in grado di
legare l’ossigeno, si lega a una molecola d’acqua e la
trasformazione diventa irreversibile. Scaldandola ancora si
denatura e, successivamente, perde la parte responsabile della
colorazione, il gruppo eme: è a questo punto che diventa grigia.
Il colore della carne è quindi dovuto alle percentuali delle
diverse forme di mioglobina presenti. La stabilità al calore, al pH,
all’ossigeno e ad altri agenti determinano anche i cambiamenti di
colore che la carne mostra quando viene tra ata nei diversi modi
in cucina.
LO SAPEVATE CHE?
Anche se normalmente non possiamo
vederlo, il nostro sangue è più rosso
nelle arterie, dopo aver prelevato
l’ossigeno dai polmoni, e più scuro nelle
vene, dopo che ha depositato l’ossigeno
nelle cellule. L’emoglobina infa i
cambia colore come la mioglobina.
LA MIOGLOBINA
La mioglobina (Mb) è una proteina composta da un filamento di
153 amminoacidi e da una molecola chiamata “eme” contenente un
atomo di ferro. Quest’ultimo è in grado di legare a sé l’ossigeno e
altre molecole, cambiando colore.
Il colore della mioglobina è il porpora, un rosso scuro con
sfumature violacee. A volte viene chiamata deossimioglobina.
Quando lega l’ossigeno e si forma l’ossimioglobina, il colore cambia
e diventa di un rosso brillante. Vi sarà capitato di acquistare della
carne macinata confezionata che alla vista è bella rossa, ma una
volta aperta la confezione e separati i pezzi risulta all’interno
molto più scura. Se pensate che vi abbiano truffato vi sbagliate:
semplicemente l’ossigeno non ha avuto modo di penetrare a
sufficienza all’interno e quindi la mioglobina non si è trasformata
nella sua versione più colorata. Se la lasciate all’aria – a volte i
macellai consigliano di “lasciarla respirare un po’” – l’ossigeno si
legherà alla mioglobina ed essa diventerà di un rosso più acceso,
poiché il processo è reversibile, esa amente come succede nei
muscoli dove la mioglobina preleva l’ossigeno dal flusso
sanguigno, lo lega a sé e lo rilascia quando ce n’è bisogno.
L’occhio, in cucina e al supermercato, vuole la sua parte e quindi
alcuni produ ori usano della pellicola trasparente permeabile
all’ossigeno per mantenere la carne macinata confezionata di un
bel colore invitante. Lo stesso effe o lo potete osservare quando
tagliate una fe a da un pezzo di carne più grande: l’interno sarà
sempre più scuro dell’esterno, esposto all’ossigeno.
Insomma, il colore della carne non necessariamente rifle e la
sua freschezza. Ricordatevi infa i che è l’odore, più che il colore, a
poter rivelare se la carne non è freschissima o se ha iniziato il
processo di decomposizione.
L’ANGOLO CHIMICO
I COLORI DELLA MIOGLOBINA La mioglobina può assumere
vari colori, a seconda della molecola legata e dello
stato di ossidazione del ferro.
IL COLORE ROSA DEI SALUMI
La mioglobina può legarsi ad altre sostanze dando luogo a
colorazioni diverse. È prassi comune nella lavorazione di molti
salumi aggiungere come conservante il nitrito di sodio o di
potassio. La sua funzione principale, specialmente nei salumi a
pasta lavorata come la mortadella, è quella di prevenire eventuali
intossicazioni da botulino, che può essere persino mortale.
L’effe o secondario però, assolutamente desiderato dai produ ori,
è quello di impartire una colorazione rosa e impedire che la
mioglobina si trasformi in metamioglobina, che donerebbe al
prodo o una colorazione scura non apprezzata dai consumatori.
All’interno dei salumi, i nitriti producono ossido di azoto (NO) che
si lega alla mioglobina formando la nitrosilmioglobina che in
co ura si denatura assumendo una colorazione rosa. Per questo
motivo “estetico” a volte alcuni produ ori di salumi utilizzano più
nitriti di quanti ne siano stre amente necessari.
Anche l’affumicatura porta a una colorazione rosata della carne,
sempre dovuta agli ossidi di azoto contenuti nel fumo.
Il prosciu o di Parma, prodo o senza nitriti, deve invece il suo
colore a un complesso dello Zinco con la protoporfirina IX.
Il monossido di carbonio
Il monossido di carbonio, CO, può legarsi facilmente
all’emoglobina e alla mioglobina impartendo una colorazione
rosso brillante analoga a quella provocata dall’ossigeno. Tu avia,
a differenza di quest’ultimo, è molto più difficile da staccare. È
questo il motivo dell’avvelenamento da monossido di carbonio: il
sangue non riesce più a trasportare ossigeno perché il CO ha
occupato tu a l’emoglobina disponibile e non ne vuole sapere di
staccarsi. Tra are carne con monossido di carbonio mantiene la
sua superficie rosso brillante, ma è una pratica illegale nell’Unione
Europea perché considerata ingannevole per il consumatore. È a
volte utilizzata, illegalmente, per mantenere ben rosso il colore
della carne del tonno.
Carne verde
Il verde non è un colore che associamo normalmente alla carne,
eppure è una delle tonalità che può assumere la mioglobina in
presenza di zolfo, trasformandosi in sulfomioglobina,
cara erizzata proprio da un’inquietante colorazione verde. Poiché
lo zolfo non è comunemente utilizzato in cucina, se nel frigorifero
avete della carne con una colorazione verde è più probabilmente
un segno di degradazione a opera di muffe o ba eri come lo
Pseudomonas mephitica. Ovviamente bu ate tu o.
L’ANGOLO CHIMICO
LE MUTAZIONI DELLA MIOGLOBINA Nel corso
dell’evoluzione la mioglobina ha subito delle
mutazioni via via che sono comparse nuove specie di
animali. Dall’analisi della sequenza di amminoacidi
della mioglobina di diverse specie ora siamo in grado
di ricostruire le varie parentele. Per esempio, la
mioglobina del cavallo è identica a quella della zebra,
così come è di un unico tipo quella dei bovini
europei, del bisonte americano e dello yak asiatico.
Tra un maiale e un manzo, invece, ci sono 18
amminoacidi diversi.
FIBRE BIANCHE E FIBRE ROSSE
Nel capitolo precedente abbiamo visto come è fa o un muscolo.
Ora sapete che l’unità fondamentale con cui sono costruiti i
muscoli sono le fibre. Non vi avevo ancora de o, però, che
esistono due tipi di fibre muscolari: quelle rosse – de e anche di
tipo I o lente – e quelle bianche – de e anche di tipo II o veloci. La
differenza risiede nel modo in cui queste fibre bruciano il loro
carburante per produrre energia.
Le fibre bianche sono utilizzate per i movimenti rapidi, ma di
breve durata. Un pollo vola raramente, e quando lo fa sfru a i
muscoli del pe o a fibre bianche che sono in grado, per un periodo
molto breve, di farlo volare. Le fibre bianche prendono l’energia
necessaria dal glicogeno, la riserva di glucosio localizzata nel
muscolo. Nel processo metabolico, chiamato glicolisi, le fibre
bianche sono in grado di bruciare il carburante più in fre a di
quanto il flusso sanguigno riesca a trasportare l’ossigeno. Non
avendo bisogno di molto ossigeno hanno poca mioglobina e sono
quindi chiare. I muscoli prevalentemente a fibre bianche però non
possono sostenere questo tipo di metabolismo troppo a lungo.
Provate ad alzarvi dal divano e correre più velocemente che
potete per 100 metri. Dopo un po’, se non siete degli atleti,
crollerete a terra con le gambe appesantite e doloranti. Avete
a ivato le fibre bianche e queste nel loro metabolismo veloce
producono acido la ico, che si accumula nei muscoli, come
sperimentiamo appunto ogni volta che usiamo dei muscoli per
troppo tempo senza essere allenati. Ci vuole del tempo per
eliminare l’acido la ico ed è per questo che le fibre bianche
funzionano solamente per un breve periodo.
Se il muscolo deve invece essere usato in continuazione, allora
c’è bisogno di molto ossigeno per perme ere alle fibre rosse, più
lente, di bruciare i grassi, il combustibile in questo tipo di
metabolismo. Queste fibre hanno quindi un contenuto più elevato
di mioglobina, che fornisce ossigeno, e il muscolo sarà di colore più
scuro, e con un contenuto di grasso superiore a quello delle fibre
bianche. Le cosce del pollo sono sempre in movimento e quindi
conterranno più fibre rosse del pe o, che è molto più chiaro.
Avendo più grasso sono anche più saporite.
Le balene sono mammiferi e, nonostante passino gran parte del
tempo so ’acqua, devono periodicamente tornare in superficie per
respirare e immagazzinare ossigeno. Il record d’apnea spe a al
capodoglio che può resistere so ’acqua per più di un’ora. Per
sopravvivere immerse per così lunghi periodi le balene hanno
talmente tanta mioglobina nei muscoli che la loro carne è di
colore quasi nero.
LO SAPEVATE CHE?
Con un allenamento continuo le fibre
bianche si possono trasformare in fibre
rosse, ma non viceversa. In altre parole,
tu i possiamo diventare maratoneti,
ma centometristi si nasce. Per sforzi
brevi e intensi i muscoli producono
energia usando prevalentemente la
glicolisi, il metabolismo anaerobico,
cioè senza ossigeno. Per sforzi costanti
e prolungati invece i muscoli utilizzano
un metabolismo aerobico, l’ossidazione
dei grassi.
Nella realtà non esistono muscoli solo a fibre bianche o solo a
fibre rosse, perché ogni muscolo può venire usato per movimenti
brevi e rapidi o lenti e lunghi. Perciò i muscoli contengono
solitamente entrambi i tipi di fibre. Nel pollo, per esempio, il pe o
contiene il 10% di fibre rosse mentre in oche, anatre e quaglie la
percentuale raggiunge il 75-85%.
Esiste persino un terzo tipo di fibre, intermedio tra le bianche e
le rosse, ma è un de aglio che qui possiamo trascurare. L’esa a
proporzione dei vari tipi di fibre dipende quindi dall’uso che
facciamo dei muscoli: più so oponiamo un muscolo a uno sforzo
prolungato e più si formeranno fibre rosse, e alcune bianche si
trasformeranno irreversibilmente in fibre rosse. Ecco perché gli
animali selvatici sono costituiti prevalentemente da carne scura:
usano molto di più i muscoli dei loro cugini allevati, che raramente
si muovono.
Altri pigmenti della carne
Oltre alla mioglobina vi sono altri pigmenti nella carne che
possono influenzarne il colore. Per esempio il citocromo c, una
proteina colorata di rosso che contribuisce al colore della carne
sopra u o nella selvaggina e nel pollame. È più stabile al calore
della mioglobina ed è la maggiore responsabile del colore rosa
persistente della carne di tacchino co a.
Il colore giallastro che a volte assume la carne e la pelle del pollo
è dovuto ai betacaroteni contenuti nel mangime. In alcuni paesi i
consumatori preferiscono che la carne del pollo abbia delle
tonalità rosa, in altri gialle, e gli allevatori si regolano di
conseguenza. Un pollo ruspante, libero di razzolare a piacimento,
avrà la carne delle cosce di un colore molto più scuro di un pollo
allevato con poche possibilità di movimento.
DIFFERENZA TRA FIBRE BIANCHE E FIBRE ROSSE
CARATTERISTICA
FIBRE ROSSE
Carburante
principale
Grasso
Metabolismo
Con ossigeno
A ività
Colore
Movimenti a
lunga durata
Rosso
FIBRE
BIANCHE
Glucosio
Senza
ossigeno
Sca i di breve
durata
Rosa/bianco
Contenuto di
Elevato
mioglobina
Contenuto di grassi Alto
Sapore
Intenso
Scarso
Basso
Moderato
RICETTA
POLLO TERIYAKI
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come nel pollo le fibre rosse
delle sovracosce, più grasse e con più tessuto conne ivo del
pe o, siano in grado di sopportare anche le co ure al grill,
aiutate da una marinata che riduce la perdita di liquidi.
Con il termine teriyaki si indica una tecnica giapponese di co ura
di un alimento, solitamente carne o pesce, so oponendolo
all’azione dire a del calore di un grill, talvolta dopo essere stato
marinato in un liquido a base di salsa di soia. È un grande classico
della cucina giapponese: sebbene il sushi e il sashimi siano molto
popolari e più conosciuti in Italia, essi rappresentano solo una
piccola percentuale della cucina giapponese. Sarebbe come
identificare la cucina italiana solo con la pizza, tanto per fare un
esempio.
Le eralmente teri significa «lucido, splendente» e yaki significa
«co o al grill». La patina lucida viene data dalla salsa. Spesso in
occidente c’è un abuso del termine teriyaki, e alcuni lo usano
impropriamente per indicare qualsiasi pia o a base di carne
marinata nella salsa di soia.
Questa rice a riesce meglio usando le sovracosce: con le loro
fibre rosse sono più saporite e resistono di più alla co ura,
rispe o al pe o, grazie anche al grasso e al collagene contenuti.
Prima di iniziare, però, dobbiamo dire due parole sulle
precauzioni sanitarie da tenere quando si cucina il pollo.
LA TEMPERATURA DI COTTURA DEL POLLO
Le infezioni alimentari causate dal consumo di carne di pollo poco
co a o da uova crude non sono una rarità, purtroppo. Salmonella,
Staphylococcus aureus, Campylobacter jejuni e Listeria
monocytogenes sono i ba eri contaminanti più frequenti nel
pollo. E non solo nel pollo. La salmonella è l’agente ba erico che
più frequentemente causa tossinfezioni alimentari ed è
responsabile di oltre il 50% del totale delle infezioni
gastrointestinali nel mondo industrializzato.
Che succede se vi beccate la salmonella? Lasciamo parlare
l’Istituto Superiore di Sanità:
«La gravità dei sintomi varia dai semplici disturbi del tratto
gastrointestinale (febbre, dolore addominale, nausea, vomito e diarrea)
fino a forme cliniche più gravi (batteriemie o infezioni focali a carico
per esempio di ossa e meningi) che si verificano soprattutto in soggetti
fragili (anziani, bambini e soggetti con deficit a carico del sistema
immunitario). I sintomi della malattia possono comparire tra le 6 e le 72
ore dall’ingestione di alimenti contaminati (ma più comunemente si
manifestano dopo 12-36 ore) e si protraggono per 4-7 giorni. Nella
maggior parte dei casi la malattia ha un decorso benigno e non richiede
l’ospedalizzazione, ma talvolta l’infezione può aggravarsi al punto tale
da rendere necessario il ricovero. Le salmonellosi nell’uomo possono
anche causare lo stato di portatore asintomatico.»
L’infezione si trasme e per via orofecale, a raverso l’ingestione di
cibi o bevande contaminate, ma anche per conta o a raverso la
manipolazione di ogge i o piccoli animali in cui siano presenti le
salmonelle. Le uova contaminate, in particolare, sono ritenute
responsabili del 50% delle epidemie di salmonellosi al mondo; la
mala ia si diffonde sia in seguito al consumo dire o di uova
crude o poco co e sia per la contaminazione di altri alimenti.
Quando si rompono delle uova, infa i, non si deve so ovalutare la
potenziale carica infe iva del guscio. Piccole incrinature possono
perme ere l’ingresso nell’uovo del ba erio eventualmente
presente nelle feci della gallina. E ogni volta che toccate delle uova
lavatevi bene le mani con acqua calda e sapone prima di toccare
qualsiasi altro alimento.
Nonostante i metodi di allevamento moderni, i controlli
veterinari periodici e la cura degli allevatori, le infezioni ba eriche
negli allevamenti di polli purtroppo non possono mai essere
escluse, per cui è opportuno prendere le dovute precauzioni ed
essere consapevoli del rischio che si corre, piccolo ma non nullo,
per esempio consumando uova crude. Se non volete correre il
minimo rischio che il vostro tiramisù o la maionese facciano
passare delle bru e giornate in bagno, o peggio, alle persone a cui
li offrirete, utilizzate albumi e tuorli pastorizzati, in vendita in
ogni supermercato.
La carne di pollo solitamente non si consuma cruda ed è
sufficiente la co ura per eliminare i rischi, che però possono
derivare anche da una ca iva manipolazione. È opportuno, dopo
aver toccato il pollo crudo per preparare la rice a, lavarsi bene le
mani; se ve le asciugate in uno straccio da cucina abbiate cura di
me erlo a lavare subito dopo e di non utilizzarlo per asciugarci le
posate. Io quando maneggio il pollo crudo mi asciugo le mani nella
carta da cucina, che poi ge o. Tu e le vostre precauzioni verranno
però vanificate se userete il tagliere dove avete pulito il pollo
anche per affe are le verdure, o se il coltello usato per tagliare la
carne cruda lo userete poco dopo per tagliare la carne co a, senza
un adeguato lavaggio tra un’operazione e l’altra.
E veniamo alle temperature di co ura consigliate. La USDA, il
Ministero dell’Agricoltura Statunitense, che si occupa anche di
fornire informazioni sulla co ura degli alimenti, consiglia di
cuocere la carne di pollo a 74 °C, che è una temperatura
abbastanza elevata e per alcuni tagli particolarmente magri, come
il pe o, può portare a una carne asciu a e stopposa. L’Istituto
Superiore di Sanità consiglia1 addiri ura una temperatura più
alta, 77 °C per il pe o il pollo, e 82 °C per il pollo intero. In realtà
non è che i polli americani abbiano bisogno di temperature
minori: semplicemente se a 74 °C gli eventuali ba eri di salmonella
sono decimati in una decina di secondi, a 77 °C lo sono quasi
istantaneamente. È lo stesso conce o della pastorizzazione del
la e: aumentando le temperature si possono ridurre i tempi e
viceversa.
Il vantaggio dell’usare le sovracosce è che, essendo un taglio a
fibre rosse, sopportano le alte temperature più facilmente, e
potete cuocerle a 75 °C o anche a 80 °C senza che diventino
immangiabili.
1www.iss.it
INGREDIENTI 4-6 sovracosce di pollo disossate,
PER 4 PERSONE preferibilmente con la pelle
120 ml di salsa di soia
30 g di sake
30 g di mirin
70 g di zucchero
1 spicchio di aglio
zenzero
3 g di amido (1/2 cucchiaino)
PROCEDIMENTO PER LA SALSA
1
Me ete in un pentolino la salsa di soia e aggiungete lo zucchero.
Con le quantità indicate la salsa non viene troppo dolciastra. Se
invece vi piace il sapore dolce potete arrivare anche a 100 g di
zucchero. La salsa di soia è ricchissima di glutammato che deriva
dalla degradazione, durante la fermentazione, delle proteine della
soia. Il glutammato stimola i rece ori del gusto umami, che
potremmo tradurre con sapido: è per questo che rende gustosi i
cibi.
Aggiungete il sake e il mirin (entrambi prodo i fermentati di riso).
Se non trovate il mirin usate solo il sake, aumentando a 50 g la
dose.
2
Prendete un pezze ino di zenzero. Fatene un parallelepipedo
tagliando la buccia con un coltello e gra ugiatelo per bene,
raccogliendolo in un recipiente.
Tritate l’aglio il più finemente possibile. Se avete uno spremiaglio,
ancora meglio. L’intensità dell’aroma dell’aglio dipende anche da
quanto danneggiamo le sue cellule: più lo tritate o spremete e più
aroma riuscite a estrarre.
Aggiungete aglio e zenzero alla salsa.
PROCEDIMENTO PER IL POLLO
3
Per il pollo, disossate le sovracosce. Io le trovo sempre con l’osso e
la pelle, oppure senza osso e senza pelle. Siccome voglio la pelle
ma non l’osso, devo disossarmele da solo. Se vi piace la pelle
croccante del pollo praticate tre o qua ro lunghi tagli in modo da
far fuoriuscire, in co ura, il vapore della carne so ostante. In
questo modo la pelle rimarrà bella croccante e la marinata potrà
penetrare meglio. La pelle ha anche lo scopo di proteggere un po’
la carne dalla co ura al grill. Se invece la pelle non vi piace usate
pure le sovracosce già disossate.
4
Marinate il pollo. Per le marinate usate sempre i comodi sacche i
con chiusura a zip: in questo modo non si spreca salsa inutilmente
e, a fine uso, potete ge are il sacche o. Vi ricordo che anche la
salsa utilizzata per la marinata dovrà essere ge ata via, e non
potrà essere in alcun modo riutilizzata, proprio per evitare
problemi di contaminazione ba erica.
Me ete i pezzi di pollo nel sacche o, aggiungete 2-3 cucchiai della
salsa che avete preparato e fate marinate per 30-60 minuti. Nella
salsa teriyaki lo zucchero serve per dare dolcezza: lo stimolo
contemporaneo di più sapori – dolce, salato e umami in questo
caso – è tipico della cucina orientale. La componente acida della
marinata è fornita sia dalla salsa di soia che da sake e mirin.
5
Togliete il pollo dal sacche o, sgocciolatelo ben bene e ge ate il
liquido residuo. Disponete la carne, con la pelle in su, su una teglia.
Me ete nel forno a grigliare sul ripiano superiore per 10-15 minuti,
a seconda della potenza del vostro grill. Per evitare co ure
disomogenee è buona norma, a metà co ura, ruotare la teglia di
180 °C.
6
Mentre il pollo è in forno, addensate la salsa che è rimasta nel
pentolino, aggiungendo l’amido. Per evitare la formazione di
grumi me ete l’amido in un bicchiere asciu o, unite un po’ di salsa
e stemperatelo. Quando sarà fluido potrete aggiungerlo al resto
della salsa. Accendete il fuoco e cuocete per qualche minuto, fino a
raggiungere la viscosità che desiderate.
7
Togliete il pollo dal forno. Nel mio caso ho grigliato per 10 minuti.
Controllate la temperatura interna del pollo: se è troppo bassa,
so o i 75 °C, rime etelo in forno per qualche minuto. Se è troppo
alta, oltre gli 80 °C, sapete come regolarvi per la prossima volta.
Tagliate ogni pezzo di pollo a strisce larghe un centimetro,
disponetelo sul le o di riso e condite con la salsa.
CONSIGLIO
Per essere più filologici dovreste preparare
anche del riso bianco al vapore. A me
piacciono molto le varietà orientali
aromatiche come il Basmati o il Thai, anche se
non sono giapponesi.
CALORE E COTTURE
Ve lo avevo promesso: è arrivato il momento di accendere
fornelli, forni e griglie e capire come il calore può
trasformare la carne in una miriade di pia i, con aromi e
sapori molto diversi a seconda del taglio e del metodo di
co ura. Ora possiamo me ere a fru o quello che abbiamo
imparato nei capitoli precedenti e vedere come le varie
componenti che abbiamo incontrato fino a ora – proteine,
grassi e acqua – si comportano quando le me iamo in
padella. La parola chiave di questo capitolo è temperatura.
Impareremo che c’è una temperatura “giusta”, o un
intervallo di temperature, per ogni cosa, a seconda delle
proprietà della carne che stiamo considerando. Munitevi
quindi di un termometro da cucina, di quelli a le ura
rapida, e anche uno da forno, con la sonda – ormai costano
pochissimo e non dovrebbero mancare tra gli aggeggi
indispensabili da tenere nel casse o – e partiamo.
PERCHÉ SI CUOCE
Cuocere un alimento serve a svariati scopi, non tu i gastronomici.
L’effe o sicuramente più importante dal punto di vista sanitario è
l’eliminazione, o per lo meno la drastica riduzione, di
microrganismi patogeni che possono essere presenti sia sulla
superficie dell’alimento sia all’interno. Per o enere questo effe o
si devono raggiungere determinate temperature, a seconda dei
microrganismi che dobbiamo eliminare, e mantenerle per un certo
lasso di tempo. Pochi secondi, se le temperature sono alte, oppure
minuti o addiri ura ore se sono più basse. Il processo di
pastorizzazione, applicato più comunemente al la e, elimina i
ba eri patogeni scaldandolo a 72 °C per circa 15 secondi, oppure a
temperature più basse per tempi più lunghi o, alternativamente, a
temperature più alte e tempi più brevi.
Il secondo effe o della co ura degli alimenti è di rendere alcuni
nutrienti più “utilizzabili” per il nostro corpo e in generale rendere
i cibi più digeribili. Per poter assimilare le proteine, sia che
provengano da animali che da vegetali, dobbiamo prima
denaturarle e spezzarle nei singoli amminoacidi in modo che il
nostro organismo possa poi utilizzarli come materiale per
costruire le nostre proteine e i nostri enzimi o, se serve, usarli
come fonte di energia. La co ura facilita questo processo e aiuta il
nostro corpo a digerire le proteine più facilmente.
Ma veniamo agli aspe i più gastronomici. L’alimento cambia
consistenza durante la co ura: i vegetali solitamente si
ammorbidiscono, alcuni velocemente, altri meno, mentre la carne
diventa prima più dura, a causa della contrazione delle fibre, e poi,
quando il collagene inizia a sciogliersi, più tenera e lubrificata.
Anche la succosità della carne viene modificata dai vari tipi di
co ura e dal tra amento a cui viene so oposta prima di cuocerla.
Vi è infine un effe o notevolissimo sul sapore, specialmente se
la carne viene tra ata ad alte temperature e in ambiente asciu o,
come in un forno, alla griglia o in padella. Non è un caso se la
maggior parte delle rice e di carne ne prevedono la co ura:
fornendo calore inneschiamo moltissime reazioni chimiche che
creano le molecole gustose da molti tanto apprezzate.
CALORE E TEMPERATURA
Gli scienziati ci hanno messo secoli per capire cosa fosse
esa amente il calore, e come questo fosse collegato alla
temperatura, cioè a quella grandezza fisica che misuriamo con un
termometro. Ora sappiamo che il calore è una particolare forma di
energia, come quella meccanica che vediamo all’opera quando
spostiamo un ogge o, o quella ele rica che perme e al nostro
computer di funzionare. In particolare, il calore è energia che si
sta trasferendo da un corpo all’altro, oppure tra zone di uno stesso
ogge o con temperature diverse.
No, non avete sbagliato libro, è sempre quello in cui parliamo di
bistecche, brasati e ragù. Ma se pensavate, una volta finita la
scuola, di non dover avere più a che fare con la chimica e la fisica –
i cui programmi scolastici, diciamocelo, sono spesso troppo
astra i e lontani dalla vita quotidiana per appassionare la
maggior parte degli studenti – vi sbagliate. Però forse adesso
riuscirete a trovare un’applicazione pratica a quei conce i che vi
sembravano così lontani dalla realtà. Quando cuciniamo siamo
dei chimici, dei fisici e dei biologi che stanno effe uando un
esperimento. «Il cuoco fa chimica intuitiva» sostiene il celebre
chef Gualtiero Marchesi, e non posso che concordare quando dice
che «La cucina è di per sé scienza, sta al cuoco farla divenire arte».
In cucina avvengono complesse trasformazioni chimiche e fisiche
e conoscere le proprietà della miosina o l’effe o del sale sulla
carne non vi trasformerà in uno chef stellato, ma di sicuro se
capiamo quello che succede nelle nostre padelle possiamo
migliorare il nostro modo di cucinare. Il fenomeno più semplice
che avviene cucinando è il trasferimento di calore, quindi
partiamo da qui.
Una legge fondamentale della natura afferma che il calore si
trasferisce spontaneamente da un corpo caldo a uno freddo, che lo
assorbirà. Possiamo osservare questo spostamento di energia solo
in modo indire o: a volte questo assorbimento si manifesta con
un aumento di temperatura che possiamo misurare col
termometro. È facile osservarlo in cucina: quando accendiamo il
fuoco so o la pentola dell’acqua questa pian piano aumenterà di
temperatura, grazie al calore che si trasferisce dalla fiamma. In
altri casi, invece, il calore viene assorbito senza che vi sia un
aumento di temperatura. In questo caso l’energia assorbita serve
per un cambiamento di fase della materia: quando scaldiamo del
ghiaccio a 0 °C per liquefarlo, sino a quando non è completamente
sciolto la temperatura rimarrà rigorosamente a 0 °C anche se
continuerà ad assorbire calore per romperne la sua stru ura
cristallina. Esa amente come l’acqua in ebollizione che, al livello
del mare, rimane sempre a 100 °C, indipendentemente dalla
regolazione del fornello. In altri casi l’energia assorbita può servire
in parte per far avvenire delle reazioni chimiche o per denaturare
le proteine, rallentando l’innalzamento della temperatura.
CONDUZIONE, CONVEZIONE E
IRRAGGIAMENTO
Esistono moltissimi modi di cucinare il cibo: in padella, al forno,
alla griglia, in una pentola d’acqua bollente, al vapore, allo spiedo e
così via. Se però si analizza il modo con cui, in ognuno di questi, il
calore viene trasferito al cibo, si scopre che i meccanismi
fondamentali di trasferimento del calore sono solo tre.
CONDUZIONE A mano a mano che, assorbendo calore, la
temperatura di un corpo aumenta, le molecole di cui è composto si
muovono sempre più velocemente, andando a sba ere le une
contro le altre sempre più frequentemente e con più energia.
Prendiamo una pentola piena d’acqua, me iamola su un fornello e
accendiamo il fuoco. Il gas incendiato raggiunge molte centinaia
di gradi e quindi può trasferire velocemente calore al materiale
della pentola. Le molecole a dire o conta o col fuoco cominciano
a vibrare sempre più velocemente urtando le molecole sovrastanti
e cedendo un po’ di energia a queste ultime. Anche queste si
me eranno a vibrare più velocemente cedendo a loro volta
energia, sino ad arrivare alle molecole della pentola a dire o
conta o con l’acqua. Questo fenomeno, in cui le molecole con più
energia la cedono, vibrando, a quelle con meno energia, si
manifesta con un innalzamento della temperatura della pentola e
si chiama conduzione. Vi sono dei materiali, come i metalli, che
conducono il calore molto facilmente e sono chiamati “buoni
condu ori”. Altri, per esempio il legno, sono dei ca ivi condu ori.
Se sono particolarmente ca ivi vengono chiamati “isolanti”:
pensate ai bicchieri usa e ge a di polistirolo in cui vi versano il
caffè bollente, che potete tranquillamente tenere in mano senza
sco arvi.
CONDUZIONE
Nella conduzione il calore si propaga per conta o dire o dal
contenitore di co ura al cibo. Sempre per conduzione l’alimento si
riscalda dalla superficie verso il centro.
CONVEZIONE Una volta che, per conduzione, il calore si è
trasferito a tu o il materiale del fondo della pentola – e sempre
per conduzione comincerà a risalire lungo le pareti − le molecole
d’acqua a dire o conta o con il fondo acquisiscono energia nella
stessa maniera: a raverso gli urti da parte delle molecole del
materiale della pentola. La temperatura dell’acqua in fondo alla
pentola quindi sarà più elevata di quella dell’acqua in superficie.
Tu avia, a differenza delle molecole di cui è composta la pentola,
che sono fisse poiché la pentola è solida e possono solo vibrare più
velocemente rimanendo sempre localizzate, in un liquido le
molecole possono muoversi liberamente: quelle che hanno
assorbito energia sul fondo possono dunque muoversi verso l’alto
e in tu e le direzioni molto più velocemente di quanto avvenga
con la conduzione, e trasferire calore al cibo immerso nel liquido.
Questo fenomeno si chiama convezione.
La stessa cosa può avvenire anche con un gas: in un forno,
specialmente se ventilato, le molecole d’aria calda trasferiscono il
calore al cibo. La ventola fa sì che l’aria si muova più velocemente
di quanto farebbe naturalmente, senza ventilazione, per
distribuire più efficacemente il calore. È per questo che se la
ventola è accesa i tempi di co ura in un forno si accorciano. In
una co ura al vapore sono invece le molecole d’acqua allo stato
gassoso che trasferiscono energia all’alimento da cuocere.
CONVEZIONE
Nella convezione il calore viene trasferito al cibo dall’acqua in
movimento (in una pentola o in una co ura al vapore) o dall’aria
(in un forno).
IRRAGGIAMENTO Nella convezione e nella conduzione il
calore si trasme e a raverso gli urti delle molecole. Esiste però
un terzo modo per scaldare un corpo: per irraggiamento,
dire amente tramite le onde ele romagnetiche. Quando
accendiamo un grill in un forno, ma anche la resistenza di un
tostapane, il metallo diventa incandescente ed eme e radiazioni
ele romagnetiche che arrivano dire amente sulla superficie del
corpo da scaldare. Le molecole del cibo assorbono dire amente le
onde energetiche e, esa amente come nei casi precedenti, si
muoveranno più velocemente. Non è necessario avere corpi
incandescenti perché avvenga l’irraggiamento: quando scaldo una
padella di ghisa senza alcun condimento, aspe ando che arrivi a
temperature sufficientemente alte per poterci cuocere una
bistecca, mi è sufficiente porre il palmo della mano a un paio di
centimetri dalla superficie per sentire quando raggiunge la giusta
temperatura. La misuro tramite l’irraggiamento. Se appoggiassi il
palmo nella padella la misurerei per conduzione, e dovrei correre
immediatamente al pronto soccorso!
Alcuni di voi, sentendo la parola “radiazione”, avranno pensato
alla radioa ività, ma non abbiate paura: è solo il nome che gli
scienziati usano per descrivere le onde ele romagnetiche di cui è
composta la luce. Non c’entra nulla con l’uranio o i materiali
radioa ivi. Quando d’estate abbiamo la pelle esposta al sole e
sentiamo il nostro corpo scaldarsi stiamo osservando proprio il
fenomeno dell’irraggiamento, e in un certo senso è come se
fossimo so o un grill. In questo caso la sorgente, molto lontana
ma molto potente, è il sole che ci riscalda e ci abbronza tramite le
onde ele romagnetiche che ci invia. Più la sorgente è lontana dal
cibo da cuocere e più debole è l’irraggiamento. Ecco perché
quando accendete il grill di un forno, magari per una doratura
finale alle vostre verdure, la distanza a cui ponete la leccarda dal
grill è importante: se è troppo vicina alla sorgente rischiate di
bruciarle, se è troppo lontana non si doreranno bene. Questo è un
aspe o che spesso viene so ovalutato nelle co ure al forno in cui
si sfru a anche il grill: se seguite una rice a che lo prevede,
verificate che sia indicata anche la distanza a cui posizionare il
cibo da cuocere.
Anche in un forno a microonde l’energia viene trasmessa al cibo
tramite irraggiamento, ma le onde emesse sono di un tipo diverso
rispe o a quelle di una resistenza riscaldata, e vengono assorbite
solo da alcune molecole, come l’acqua, e non da altre.
Se una co ura veloce in una padella caldissima sfru a quasi
unicamente il fenomeno della conduzione, altri metodi di co ura
possono trasme ere calore al cibo in più modi
contemporaneamente. Su una griglia si cuoce per irraggiamento,
con la radiazione che proviene dalla brace so ostante, per
convezione, dall’aria calda che si solleva investendo il cibo, e per
conduzione, del metallo della griglia.
IRRAGGIAMENTO
Nell’irraggiamento il calore viene trasmesso dire amente dalla
sorgente tramite la radiazione ele romagnetica. Per esempio in
un grill o in una co ura allo spiedo.
È importante ricordare che, una volta riscaldata la superficie di un
cibo, il calore si trasme e all’interno dell’alimento solido per
conduzione, indipendentemente da come la superficie del cibo è
stata scaldata: per conduzione, convezione o irraggiamento. Una
eccezione è il microonde, che riesce a scaldare dire amente anche
qualche centimetro so o la superficie.
I TEMPI DI COTTURA
Aprite un libro di cucina e cercate una rice a di carne da
preparare al forno. Quasi sicuramente le istruzioni riporteranno
la temperatura da impostare, spesso nella fascia tra i 160 °C e i 180
°C, a volte addiri ura superiori, insieme al tempo di co ura. Nel
caso di una co ura in padella le indicazioni sono anche più
approssimative: “fuoco medio” o “fuoco alto” non sono neppure
una indicazione di temperatura, ma indicano solo quanto
velocemente brucia il gas del fornello, che può essere molto
diverso da cucina a cucina. Se per alcune preparazioni queste
indicazioni di massima sono sufficienti, in altri casi possono
portare a pessimi risultati, con la carne straco a oppure ancora
cruda. Vediamo perché e come porvi rimedio.
Per portare all’ebollizione l’acqua per la pasta sapete bene che
più acqua me ete in pentola e più tempo occorrerà prima di poter
bu are gli spaghe i. Se state preparando un pentolone per un
pranzo per venti persone è meglio che accendiate i fornelli con un
po’ di anticipo. Più litri d’acqua dovete scaldare più occorrerà
tempo, come avrete magari osservato imprecando quella volta che
lo scaldabagno ele rico è rimasto spento per tu o un giorno e
non siete riusciti a farvi una doccia calda prima di uscire di casa.
Quello che vale per l’acqua vale per qualsiasi cibo: più cibo devo
cuocere e più tempo servirà. Sì, ma quanto?
I libri di cucina, volendo dare delle indicazioni, indicano i tempi
di co ura in funzione del peso del pezzo da cuocere, sia per la
carne sia per il pesce: per ogni kg si deve cuocere per tot minuti. In
realtà queste indicazioni sono molto approssimative e possono
condurre, se seguite alla le era, al disastro culinario,
trasformando uno splendido roastbeef in una costosa crosticina
abbrustolita ripiena di fibre rinsecchite.
I tempi di co ura indicati dalle rice e sono sempre da
considerarsi approssimativi e quindi poco affidabili, e i cuochi
questo lo hanno sempre saputo. Se vi capiterà di leggere dei
rice ari antichi, di qualche secolo fa o addiri ura del Medioevo o
di epoca romana, vi accorgerete che non sono indicati i tempi di
co ura: è solo da poco che si è iniziato a indicarli nelle rice e.
Bella forza, direte voi, al tempo dei Romani non c’erano certo gli
orologi! Certo, forse con una clessidra era più scomodo misurare il
tempo, ma il punto è che un pia o è pronto quando è pronto e non
è quasi mai possibile decidere in anticipo se serviranno 20 o 30
minuti per cuocere un pezzo di carne. È qui che l’esperienza del
cuoco faceva e fa ancora la differenza, nel valutare la materia
prima e nel capire quando è ora di toglierla dal fuoco.
Quando cuociamo un pezzo di carne avvengono moltissime
trasformazioni chimiche e fisiche. La temperatura si innalza ma
non stiamo semplicemente scaldando, come faremmo con l’acqua
della pasta. Durante la co ura avvengono anche delle reazioni
chimiche che modificano la stru ura delle proteine, che vengono
parzialmente denaturate e coagulate. Solo una parte del calore,
dunque, serve a riscaldare il pezzo di carne.
Il tempo necessario per innalzarne la temperatura interna della
carne, che non è un buon condu ore di calore, dipende dalla sua
forma e dallo spessore più che dal peso, oltre che da tantissimi
altri fa ori come il grasso e l’acqua contenuti e la presenza di ossa.
Il calore entra nel pezzo di carne a raverso la superficie per poi
raggiungere il centro seguendo le leggi della diffusione del calore.
Quindi due pezzi di carne dello stesso peso ma di forma, superficie
e spessore diversi cuoceranno in tempi diversi. Oltre che dalla
forma i tempi di co ura sono poi influenzati dalla temperatura
iniziale: fa differenza se il pezzo di carne è appena stato tirato
fuori dal frigorifero oppure se è stato lasciato a temperatura
ambiente per 3 ore. Può capitare quindi, seguendo le rice e, di
ritrovarsi con la carne cruda al centro, oppure straco a, di colore
grigiastro e non rosa. La soluzione? Usare un termometro e
fermare la co ura quando il centro dell’alimento ha raggiunto la
temperatura desiderata.
VOLUMI, SUPERFICI E COTTURE
Vi ho de o che non bisogna fidarsi dei tempi di co ura
dichiarati dalle rice e, ma supponiamo di averne trovata
una affidabilissima. Supponiamo che per cuocere al forno, a
una determinata temperatura, un pezzo di carne
perfe amente cubico di lato L serva un’ora esa a. Ora
immaginiamo di voler cuocere un pezzo di carne, sempre
cubico, dal peso doppio. Raddoppiando il peso dovrò
raddoppiare anche i tempi di co ura? Non
necessariamente. Per cuocerlo servirà certamente il doppio
del calore, e quindi apparentemente anche il doppio del
tempo. Il calore tu avia penetra all’interno a partire dalla
superficie e questa, in un cubo di volume doppio, è
aumentata di un fa ore 1,587 (più precisamente 22/3),
quindi serviranno meno di 2 ore (più precisamente 2/22/3 ≈
1,26 ore) perché penetrerà più velocemente. Nella maggior
parte dei casi le co ure si fermano quando il pezzo al cuore
ha raggiunto una determinata temperatura, e quindi
dobbiamo tenere conto del fa o che il calore, raddoppiando
il volume, ci me erà più tempo per raggiungere il centro, la
cui distanza dalla superficie aumenta di un fa ore 1,26 (più
precisamente 21/3). Il calcolo approssimativo (2/1,587*1,26)
dà come risultato che un cubo di peso doppio può cuocere
in 1,59 volte il tempo iniziale, quindi poco più di una volta e
mezza.
C’è da fidarsi di questa formula? Neanche per idea. Durante
la co ura in un cibo avvengono moltissime reazioni
chimiche, che lo trasformano, cambiandone anche le
proprietà. Per esempio la carne cambia la sua conducibilità
termica a seconda che sia cruda o co a. Poi, durante alcune
trasformazioni la carne assorbe calore senza aumentare di
temperatura. E che dire della superficie della carne, che
durante la co ura perde grandi quantità di acqua,
alterando quindi le sue proprietà termiche? Ma sopra u o,
quando mai avete co o un cubo perfe o di carne, o anche
un cilindro, se è per questo? Certo, il modello matematico si
può migliorare, e non è difficile trovare nella le eratura
scientifica articoli che cercano di simulare al calcolatore la
co ura di un arrosto risolvendo complicate equazioni
differenziali. Ma in una cucina tu o questo è abbastanza
irrilevante, se non per ricordarci che abbiamo bisogno di
procurarci un termometro, così non dovremo stimare con
regole più o meno empiriche il tempo necessario affinché
un pezzo di carne raggiunga internamente la temperatura
richiesta.
LA GIUSTA TEMPERATURA PER OGNI
ESIGENZA
Per millenni per capire se un pezzo abbastanza consistente di
carne arrostita fosse co o a puntino non si aveva altra scelta che
utilizzare gli accorgimenti inventati nel corso dei secoli, alcuni
ancora in uso tu ora: infilare un coltello o uno stecchino nella
carne, scrutare il colore, tastare con i polpastrelli. Ma le tecniche si
evolvono anche in cucina: l’unico metodo veramente affidabile di
misurazione del grado di co ura è il controllo della temperatura.
GRADO DI COTTURA E CONSISTENZA
Un metodo empirico per stimare il grado di co ura della carne di
bovino è quello di confrontarla, al ta o, con la durezza del
muscolo so o il pollice.
Cosa succede alla carne quando la cuociamo? Visto che state
leggendo questo libro sapete ormai che succedono un sacco di
cose. La carne che visivamente subisce i cambiamenti più drastici
in co ura è quella del bovino adulto per cui concentriamoci su
quella, limitandoci per semplicità al comportamento di tre sole
proteine: la mioglobina, che dona il colore, la miosina, il
costituente principale delle fibre muscolari, e il collagene, che le
tiene insieme. Alzando la temperatura queste proteine si
denaturano e poi coagulano, a temperature diverse.
Non c’è niente di meglio di un esperimento per vedere l’effe o di
questi fenomeni sulla co ura della carne a diverse temperature.
ESPERIMENTO
A QUANTI GRADI?
Comprate un pezzo di carne di manzo magra e con poco tessuto
conne ivo e ricavatene dei cubi di 2-3 cm di lato. L’esperimento
consiste nel cuocere i cubi a temperature diverse e osservare
come cambiano le proprietà della carne al variare della
temperatura. In particolare vogliamo esaminare il colore, la
presenza di succhi quando la carne viene tagliata e la
consistenza al tocco.
I cubi di carne verranno co i in acqua. È ovvio, quindi, che la
superficie esterna della carne non sarà simile alla crosticina
esterna di una bistecca, ma l’interno sarà assolutamente
confrontabile, poiché l’acqua non riesce a penetrare nella carne
molto velocemente.
In una pentola portate l’acqua alla temperatura desiderata,
controllata con un termometro. Infilate la sonda del secondo
termometro nella carne, cercando di posizionare la punta al
centro del cubo. Tenete ogni pezzo di carne immerso nell’acqua
sino a quando il termometro non ha raggiunto la temperatura
interna desiderata. I cuochi parlano di “temperatura al cuore”. A
quel punto tenete immersa la carne ancora per un minuto, poi
toglietela dall’acqua e asciugatela con della carta da cucina. Io
per sicurezza ho co o due cubi per ogni temperatura, nel caso
qualche cosa fosse andata storta.
Dopo averla asciugata, ponetela su di un pia o. Ripetete questa
procedura a partire dalla temperatura di 50 °C sino ad arrivare a
75 °C, aumentando di 5 gradi alla volta. Dopo aver co o tu i i
pezzi di carne tagliateli in 2, avendo cura di effe uare il taglio
perpendicolarmente alle fibre.
Ecco il risultato dell’esperimento, con l’aggiunta di un cubo di
carne cruda per poter confrontare il risultato.
50 °C
55 °C
60 °C
AL TOCCO molle
molle
morbida
SUCCHI
scorrono scorrono pochi
rosso
rosso
COLORE
rosato
chiaro
chiaro
la
la
la Mb denatura, il
PROTEINE miosina miosina collagene inizia a
denatura coagula comprimersi
blu/al
al
COTTURA
media
sangue sangue
65 °C
AL TOCCO semidura
no, carne
SUCCHI
umida
rosa
COLORE tendente al
grigio
70 °C
75 °C
dura
durissima
no, carne
no, carne secca
secca
quasi
totalmente grigio/marrone
grigio
il collagene
la Mb
PROTEINE è
coagula
compresso
media/ben
COTTURA
ben co a
co a
suola di scarpe
Da sinistra a destra: carne cruda, co a a 50, 55, 60, 65, 70 e 75 °C.
50 °C
La miosina denatura e comincia ad aggregarsi in un
principio di coagulazione. La carne comincia ad avere una
consistenza più ferma. Nonostante la mioglobina, la proteina
che dona il colore, non sia ancora stata modificata a questa
temperatura, la carne cambia aspe o e tonalità. Il motivo è che
gli aggregati di miosina diffondono in maniera diversa la luce e
la carne sembra rosso chiaro. Poiché le molecole di miosina si
legano le une alle altre l’acqua è più libera di scorrere nello
spazio che si è venuto a creare. La carne è “al sangue”. Potete
notare come la carne sia succosa.
55 °C
A questa temperatura tu a la miosina è coagulata e la
carne ha un colore rosso chiaro. Una bistecca co a a questa
temperatura è ancora molto succosa, come potete osservare
dalla foto. Quando ne masticate un boccone sentite tu i i
succhi che si liberano. Tra 50 e 55 °C la carne di manzo viene
percepita come più succosa. Il collagene non ha ancora iniziato
a contrarsi in modo apprezzabile.
60 °C
La mioglobina comincia a denaturare trasformandosi
in metamioglobina. Anche altre proteine si denaturano e l’acqua
è libera di scorrere negli spazi lasciati vuoti dalle proteine
coagulate. Questa è la temperatura alla quale il collagene
comincia a contrarsi comprimendo le fibre. L’acqua viene
espulsa, la carne diventa sempre più ferma e di colore rosato. Le
fibre contengono ancora acqua, ma i succhi scorrono molto
meno. Questo è il mio grado preferito di co ura di una bistecca.
Possiamo chiamarla “co ura media”.
65 °C
Le proteine coagulate non riescono più a tra enere
l’acqua. Il collagene, comprimendo le fibre, espelle i succhi, che
fuoriescono liberi e abbandonano la carne asciugandola. Il
pezzo di carne risulta ancora umido internamente, ma al taglio i
succhi non scorrono più. Il volume si riduce di circa un sesto. La
carne è rosa ma tende al grigio-marroncino. È la co ura mediaben co a. La carne al ta o non è più molto molle, e neppure
so o i denti, ma c’è a chi la bistecca piace così.
70 °C
La mioglobina è quasi tu a denaturata e coagulata.
L’acqua è completamente uscita dalle fibre, ormai asciu e. La
carne, quasi completamente grigiomarrone con solo delle
sfumature rosa, è “ben co a”, anche se, secondo me, è “troppo
co a”. Al ta o è dura. A 70 °C il collagene inizia lentamente a
sciogliersi, prima allentando i legami tra vari filamenti e poi
districandoli completamente. Ma occorrono ore a questa
temperatura, e prima che accada saranno fuoriusciti tu i i
succhi.
75 °C
Il disastro culinario. La carne è dura e asciu a,
praticamente immangiabile. La proverbiale “suola di scarpe”. Se
era carne da bistecca o da arrosto avete bu ato via i vostri soldi.
La carne di bovino può raggiungere queste temperature, e
anche di più, a pa o che contenga molto più collagene e grasso
del taglio che abbiamo utilizzato. E che venga co a in modo
opportuno in ambiente acquoso.
Ancora non ho trovato un ristorante in cui invece di chiedermi
“Come la vuole la carne? Al sangue, media o ben co a?” mi
chiedano: “Che temperatura interna desidera per la sua bistecca?”.
Forse prima o poi ci arriveremo. La temperatura interna, come vi
ho mostrato, fornisce una descrizione molto più accurata dello
stato della vostra bistecca rispe o alla classica triade “al sangue,
media, ben co a”. Nei Paesi anglosassoni sono messi un po’ meglio,
visto che di gradazioni ne hanno cinque: rare, medium-rare,
medium, medium-done, well done, ma sempre una grossolana
approssimazione per descrivere cosa succede in quei 20 gradi, tra
50 °C e 70 °C.
La cosa veramente importante da me ere in risalto è che le
proprietà di un pezzo di carne, almeno nelle co ure veloci,
dipendono quasi esclusivamente dalla temperatura che ha
raggiunto, e importa poco se la carne è rimasta a 55 °C per 5 minuti
o per un’ora. Questo principio è alla base di un metodo di co ura
che negli ultimi anni è diventato sempre più popolare nelle cucine
professionali, il cosidde o sous vide. Gli alimenti – non solo la
carne – vengono messi in sacche i di plastica per alimenti dove
viene aspirata l’aria – sous vide significa «so ovuoto» – per essere
poi immersi in un bagno termico a temperature controllate
accuratamente, solitamente tra 50 °C e 90 °C a seconda
dell’alimento e di ciò che si vuole o enere. Una volta raggiunta la
temperatura desiderata, l’alimento può essere lasciato nel bagno
termico anche per molte ore o in alcuni casi addiri ura giorni
prima di venire tolto per finire la rice a. Questo metodo di co ura
negli ultimi anni è stato chiamato, un po’ impropriamente,
“co ura a basse temperature”. In realtà una bistecca al sangue,
internamente, è sempre stata co a in padella a temperature
inferiori a 60 °C. Quello che fa la differenza è che ora è possibile
avere un controllo della temperatura dell’acqua di co ura a una
frazione di grado, quindi andrebbe più propriamente chiamata
“co ura a temperatura controllata”.
Se nella carne di manzo il colore è un indice della temperatura
raggiunta, vitello, maiale e pollo contengono molta meno
mioglobina, e quindi il colore non è molto utile come indicatore di
co ura: se volete cucinare del maiale o un tacchino a maggior
ragione dovreste usare un termometro. Non c’è niente di meglio di
un termometro per controllare la co ura di un arrosto, di un
roastbeef e anche, perché no, di una costata particolarmente alta.
È solamente con un controllo accurato della temperatura che si
può o enere con sicurezza, a piacimento, una carne co a al
sangue, media o ben co a. Certo, avendo una certa esperienza,
non è necessario usare un termometro per una normale bistecca:
un buon cuoco giudica la co ura dalla consistenza. Ma è
importante imparare a conoscere le temperature “giuste”
corrispondenti alla co ura interna desiderata.
Che sia preferibile controllare la temperatura interna di un cibo
invece che fidarsi del tempo di co ura suggerito non è certo una
scoperta scientifica recente ma è vecchia di quasi un secolo. Un
articolo scientifico1 del 1932 descrive uno studio effe uato
cuocendo 2.500 coscio i di agnello – scomme o che molti di voi
non hanno mai pensato che uno scienziato possa avere come
argomento di ricerca la co ura di un coscio o di agnello –
tenendo costante la temperatura del forno e quella finale interna
della carne. Il tempo necessario per raggiungere lo stesso grado di
co ura variava da 24 a 60 minuti, a dimostrazione che i tempi di
co ura indicati nelle rice e sono sempre da prendere con le pinze.
L’articolo concludeva:
«Le informazioni raccolte attraverso la cottura di migliaia di tagli di
carne, con varie caratteristiche e nelle stesse condizioni controllate di
temperatura, mostrano che il tempo di cottura per chilogrammo è così
variabile che non è sempre una guida sicura per cucinare con successo.
Il metodo veramente affidabile per aiutarci a cuocere la carne allo
stadio desiderato è il termometro per arrosti. Il termometro mostra
cosa sta accadendo al cuore della carne nel forno, e se la cottura sta
procedendo rapidamente o lentamente, suggerendoci quindi se la
temperatura del forno vada diminuita o aumentata per avere l’arrosto
cotto al momento giusto. In questi giorni di innumerevoli nuovi
dispositivi di cottura, accompagnati da affermazioni pubblicitarie
stravaganti, c’è un bisogno reale di informazioni affidabili e non
condizionate da dare al consumatore».
O ant’anni dopo la situazione non è molto cambiata e nelle
nostre case il termometro da cucina è ancora inspiegabilmente
molto meno diffuso del cavatappi. Non volete rischiare di
stracuocere la carne? Datemi re a, prima di continuare la le ura
di questo libro, se non ce l’avete, comperatevi un termometro a
sonda da utilizzare nel forno e uno da usare per pentole e padelle.
L’ANGOLO CHIMICO
LA COTTURA DEL COLLAGENE Prima della co
ura, il
collagene ha una stru ura molto ordinata, con le
fibre proteiche intrecciate a formare una sorta di
tubo. Riscaldato a 60-65 °C, la sua stru ura ordinata
viene distru a e i singoli filamenti cominciano a
contrarsi. Se il tubo fosse vuoto, senza contenere
fibre e fibrille muscolari, il collagene si accorcerebbe
fino all’80% della propria lunghezza. Nella realtà si
contrae del 20-25%. Immaginate quindi quanta
pressione possa esercitare in co ura sulle proteine
muscolari, e come sia quindi in grado di strizzare le
fibre e i fasci facendo fuoriuscire i succhi contenuti.
1 Alexander, Lucy M., Cooperative Meat Investigations Summary of Results
of Cooking Meats in Proceedings of the American Society of Animal Nutrition
(1932), pagg. 303-311.
ESPERIMENTO
TEMPERATURE DEL FORNO E DEL CIBO
Come abbiamo visto, qualsiasi alimento, con l’eccezione delle
preparazioni che prevedono l’uso del microonde, si scalda
progressivamente dalla superficie verso l’interno,
indipendentemente da come l’energia viene fornita. Quindi sino
a quando tu o l’alimento non avrà raggiunto la temperatura
dell’ambiente circostante, sia esso acqua, olio, aria o altro, la
superficie avrà una temperatura sempre superiore rispe o
all’interno. Questo ha conseguenze estremamente importanti in
cucina, specialmente quando dobbiamo cuocere cibi di grossa
pezzatura, siano essi carne, pesce o vegetali.
Supponiamo di voler preparare un roast beef, ma lo stesso
discorso vale per un arrosto o un altro pia o che richieda la
co ura in forno di un pezzo di carne abbastanza grosso. Il
termostato spesso viene regolato a una temperatura abbastanza
elevata, e sicuramente superiore sia alla temperatura di
ebollizione dell’acqua che a quella a cui vogliamo cuocere
internamente la carne. Supponiamo sia a 180 °C.
Non appena messo il nostro arrosto nel forno, già in
temperatura, le molecole nell’aria, a 180 °C, cominceranno a
colpire la superficie della carne innalzandone la temperatura.
Poiché la carne è fa a sopra u o di acqua, avvicinandosi ai 100
°C l’evaporazione sulla superficie procederà sempre più
velocemente. Più è alta la differenza di temperatura tra l’esterno
e l’interno del pezzo di carne, più sarà elevata la perdita d’acqua
negli strati superficiali.
Quando la superficie della carne avrà raggiunto circa i 100 °C
inizierà ad asciugarsi, e comincerà a formarsi la classica
crosticina. Nel fra empo, per conduzione, la temperatura
aumenterà anche all’interno, e pian piano l’acqua evaporerà
anche dagli strati so ostanti. La carne sarà quindi sempre
meno asciu a andando verso il centro, e le proteine sempre
meno denaturate, come si può verificare dal colore. L’acqua
evaporando so rae calore quindi, finché rimane acqua
all’interno del pezzo di carne, gli strati so o la superficie non
potranno superare i 100 °C – a meno che non si cuocia a
temperature molto alte – mentre gli strati più interni, se il pezzo
è molto grande, potrebbero rimanere anche per un periodo
piu osto lungo a temperatura quasi costante tra i 60 e gli 80 °C.
Questo è un effe o che gli amanti del BBQ osservano spesso
cucinando tagli piu osto grandi: il riscaldamento proveniente
dall’esterno viene controbilanciato dal raffreddamento dato
dall’evaporazione dell’acqua. La crosticina in superficie, una
volta asciu a, può invece raggiungere temperature più elevate,
anche di 140 °C.
CONSIGLIO
Per pezzi grandi da cuocere al forno
impostate la temperatura a valori più bassi
possibile, compatibilmente con la crosticina
che volete o enere. A 120 °C o errete poca
brunitura e ancora uno strato morbido,
mentre a 160 °C la crosticina sarà più
gustosa ma la carne più asciu a.
L’interno del roast beef non deve essere crudo ma non deve
neppure essere marrone grigiastro. L’ideale è che rimanga
rosato. La temperatura che deve raggiungere internamente la
carne per o enere questo risultato abbiamo visto essere tra i 50
°C e i 55 °C e non deve superare i 60 °C. Impostiamo quindi il
termometro a sonda per avvisarci quando il cuore raggiunge i
55 °C.
A che temperatura impostiamo il forno? Se immaginiamo il
pezzo di roast beef come un cilindro, per effe o delle leggi della
conduzione del calore più ci allontaniamo dal centro, rosato, più
la temperatura sarà elevata, fino a raggiungere, sulla superficie,
la temperatura massima, che dipenderà da come abbiamo
impostato il forno ma che non dovrebbe essere molto diversa da
100-120 °C. In un roast beef non ci interessa creare una crosta
marrone spessa, e vogliamo invece che la parte rosa della carne
sia più ampia possibile. Dobbiamo quindi impostare il forno a
temperature piu osto basse. Io lo regolo a 120-130 °C.
Ovviamente il tempo necessario per raggiungere i 55 °C al cuore
aumenteranno, ma in questo modo avrete solo una piccola
corona bruna nelle vostre fe e, con una bella area rosa al
centro. Prendete due pezzi uguali di carne – non
necessariamente un roast beef – e provate a cuocerli
impostando la stessa temperatura interna, 55 °C, ma con due
diverse temperature del forno: 120 °C e 180 °C. Quando il
termometro a sonda vi segnala il raggiungimento dei 55 °C
togliete la carne.
Co ura in forno a 120 °C, a sinistra, e a 180 °C, a destra.
Nel primo caso la temperatura della superficie della carne ha
raggiunto al massimo i 120 °C, nell’altro temperature molto più
elevate, così come lo strato di carne immediatamente so o la
crosticina. È evidente che l’area rosa è molto più vasta nel primo
caso.
Possiamo usare temperature ancora più basse? 110 °C o 105 °C?
Certo, solo che i tempi si allungheranno sempre più. Potremmo
anche cuocere a temperature inferiori a 100 °C, ma a questo
punto è meglio cambiare ele rodomestico: non più un forno ma
un apparecchio per co ure controllate come quello di cui vi ho
parlato prima. A enzione però: se la temperatura del forno è
troppo bassa non si formerà la crosticina asciu a e gustosa
all’esterno, che per molte rice e è cara eristica e importante. In
un roast beef non lo è, quindi possiamo regolare la temperatura
a valori più bassi di quelli che utilizzeremmo per un carré
d’agnello. In altri casi potete alzare la temperatura del forno ma
non esagerate. Vi è anche un secondo motivo per cui a volte è
preferibile usare temperature moderate nel forno: le
temperature all’interno della carne aumenteranno più
lentamente e quindi, anche se non usate un termometro, la
finestra utile per poter togliere dal forno la carne prima di
stracuocerla sarà più ampia.
INERZIA TERMICA
Siete in un’automobile che va a velocità sostenuta, sul sedile
anteriore a fianco del guidatore. Vi siete dimenticati (ahi!) di
me ere la cintura di sicurezza. Improvvisamente l’autista frena
bruscamente e voi venite sbalzati in avanti. Per un pelo non avete
sba uto la testa contro il vetro. Avete sperimentato l’inerzia: non
essendo fissati all’automobile, quando questa si è fermata
bruscamente voi avete continuato a muovervi. Se la velocità
dell’auto fosse stata solo un po’ più elevata sareste finiti in
ospedale.
Che c’entra con la cucina? Beh, una sorta di inerzia, di tipo
termico, esiste anche quando cuciniamo. Siete alle prese con un
arrosto piu osto grande, 2-3 chili. O una fiorentina importante.
Ormai sapete che i tempi di co ura non sono affidabili e quindi
avete infilato la sonda e impostato la temperatura al cuore a 60 °C
perché i vostri ospiti lo vogliono rosato ma non al sangue.
Impostate il forno a 180 °C, come dice la rice a della rivista, e
andate tranquilli sulla poltrona a leggervi un libro sulla scienza
della pasticceria. Proprio mentre siete a metà della spiegazione di
come preparare le meringhe in modo infallibile, il termometro
suona. La carne internamente ha raggiunto i 60 °C. Togliete la
teglia dal forno e, ancora con la sonda inserita, la appoggiate sul
bancone per andare a finire di leggere il capitolo sulle meringhe, la
vostra bestia nera in pasticceria. Non vi sono mai venute e siete
ansiosi di scoprire cosa sbagliavate. Il taglio dell’arrosto aspe erà.
Tornate dopo 15 minuti, dopo aver scoperto che per montare gli
albumi non si deve me ere il sale come invece facevate sempre. La
felicità di aver scoperto perché non riuscivate a preparare le
meringhe si spegne subito non appena osservate, con stupore
misto a orrore, che il termometro della sonda ora segna 70 °C.
Stupore perché non capite come possa essere successo, e orrore
perché la carne a quella temperatura risulterà asciu a e grigiomarrone. Non avete che da scusarvi in anticipo con gli ospiti.
Potete sempre sviare il discorso sulle meringhe.
È successo come con l’automobile: avete tolto l’arrosto dal forno
improvvisamente e la superficie esterna, a circa 110 °C, ha iniziato
a raffreddarsi. L’interno però ha continuato a riscaldarsi perché il
calore ha continuato, seppur più lentamente, a diffondersi dagli
strati superficiali verso il cuore.
Il raffreddamento avviene troppo lentamente per rallentare la
penetrazione del calore verso il centro, e dopo 10 minuti il cuore
ha fa o in tempo a raggiungere i 70 °C prima di iniziare a
raffreddarsi anche lui.
INERZIA TERMICA, MA NON SEMPRE
Ci sono dei casi in cui non è necessario tenere in conto l’aumento
di temperatura dovuto all’inerzia termica, perché questa avviene
solo in maniera trascurabile. Per esempio con tagli o animali che
contengono delle grosse cavità. Quando si cuoce un pollo intero, la
cavità interna aiuta a disperdere efficacemente il calore, a pa o
che non l’abbiate farcita con un ripieno. A questo proposito vi
ricordo che è una buona norma sanitaria che il ripieno sia co o in
anticipo, separatamente, per evitare proliferazioni ba eriche.
Tempi e temperature di questo esperimento immaginario sono
puramente indicativi, ma sono utili per illustrare un fenomeno
assai reale che, se non ben compreso, può rovinare tu o il lavoro
che avete fa o per cucinare al meglio la vostra carne.
Cosa si può fare per evitare questo problema? Abbiamo visto
che impostando il forno a temperature meno elevate lo strato
immediatamente so o la crosta, quello che trasme e il calore
verso il centro, raggiunge temperature più basse, e quindi scalderà
meno il cuore, innalzando meno la temperatura. Ma poiché un po’
di aumento è inevitabile, e magari non abbiamo tempo di cuocere
un arrosto di 3 kg a 130 °C, possiamo semplicemente tenerne conto,
impostando una temperatura al cuore un po’ inferiore a quella che
vogliamo davvero raggiungere. Di quanto inferiore è impossibile
dire a priori, perché dipende dal peso della carne, dalle sue
cara eristiche e dalla temperatura del forno. Per pezzi molto
grandi, che quindi ci me ono un po’ di tempo a raffreddarsi,
l’aumento di temperatura può davvero raggiungere i 10 °C, se il
forno era a 180 °C. Se il forno era a temperature più basse, oppure
se il pezzo di carne era più piccolo, può salire di circa 3-5 °C.
Ricordatevene e aggiustate di conseguenza le temperature, sia
al cuore sia del forno, delle vostre rice e preferite. In ogni caso è
preferibile mancare la temperatura desiderata di un grado o due
piu osto che superarla. Dopo qualche errore – ma speriamo di no
– vi verranno sempre perfe e.
RICETTA
IL ROAST BEEF PERFETTO
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione ci perme e di mostrare come,
cuocendo tagli di carne piu osto grossi, il controllo della
temperatura interna mediante un termometro ne
garantisca una perfe a riuscita, e come l’uso del forno a
temperature piu osto basse eviti che la parte più esterna
della carne venga co a troppo raggiungendo temperature
troppo elevate.
Il roast beef è la rice a di carne apparentemente più semplice che
esista, ma la sua esecuzione presenta alcuni punti critici che, se
non considerati a entamente, possono rovinare il pia o finale.
Questa preparazione è di origine britannica e il suo nome
significa le eralmente «carne di manzo arrostita». È però presente
anche in Italia, dove si diffuse a partire dalla prima metà
dell’O ocento. Pare che il primo a usare in italiano questo termine
sia stato Giuseppe Mazzini in uno scri o del 1837. La versione
tradizionale prevede l’uso di un pezzo di carne abbastanza grande,
dal peso di 2-3 kg, cosparso esternamente di sale e aromi. C’è chi
usa una miscela classica di pepe, salvia, rosmarino e aglio, chi
preferisce ricoprire l’esterno con della farina appena tostata in
forno mescolata a senape, chi usa il lardo e il timo. Le varianti
sono infinite, dipendono dal gusto ma non influenzano la
strategia di co ura.
Il taglio classico all’inglese è la parte anteriore della lombata, un
taglio abbastanza costoso, per cui vengono più spesso utilizzati
tagli meno costosi come la fesa, lo scamone o la noce. Qualcuno
usa anche il girello, che però è più asciu o. Può venire consumato
caldo, come un classico arrosto, e in questo caso si taglia a fe e
spesse 1-2 cm, oppure freddo, tagliato molto so ile.
L’interno del roast beef deve rimanere rosato, ma non deve
essere crudo. La temperatura che deve raggiungere internamente
la carne per o enere questo risultato è tra i 50 e i 55 °C.
INGREDIENTI
PER 6-8
PERSONE
1 lombata di almeno 2 kg
spezie e aromi
olio extravergine di oliva
vino bianco
sale
PROCEDIMENTO PER LA SALSA
1
Togliete la carne dal frigorifero almeno 2 ore prima di iniziare la
preparazione. In questo modo si ridurrà la differenza di
temperatura tra l’interno della carne e la temperatura del forno.
Passate le 2 ore, se preferite rosolare la carne nel forno,
accendetelo e impostatelo su 230 °C. Se preferite rosolare in
padella impostate il forno a 130 °C.
2
Salate e aromatizzate la superficie della carne. Non abbiate paura:
questo non farà seccare la carne come alcuni temono.
3
È meglio che il pezzo di carne non tocchi dire amente la teglia,
per evitare che la parte inferiore della carne cuocia diversamente
dal resto, sia perché si troverebbe a dire o conta o con la teglia
sia perché, durante la co ura, verrebbe a conta o con il liquido
rilasciato. Quindi, se l’avete, usate una griglia adagiata nella teglia
per sollevare la carne.
4
Inserite la sonda in modo che raggiunga il centro della carne e
impostate una temperatura tra 50 e 55 °C, a seconda che lo vogliate
più o meno al sangue.
Ricordatevi che pezzi così grandi di carne continuano a cuocere
per un po’ anche una volta tolti dal forno, quindi non vi stupite se,
terminata la co ura, la temperatura potrà salire ancora di qualche
grado. L’ideale è non superare i 55 °C, e assolutamente non arrivare
a 60 °C. La carne risulterebbe troppo co a per un roast beef.
Quanto tempo impiegherà a cuocere? Il tempo che ci vuole!
Dipende dalla temperatura iniziale del vostro pezzo di carne, dal
peso, dalla forma e da un sacco di altre cose. Non vi fidate dei
tempi di co ura riportati sulle rice e, 30 minuti ogni mezzo chilo
o indicazioni così. Con una sonda non rischiate di sbagliare.
5
Se il forno è stato riscaldato a 230 °C la procedura classica richiede
di infornare il pezzo di carne aromatizzato per una decina di
minuti. Questo serve per produrre una crosticina esterna gustosa.
In alternativa è possibile rosolare velocemente in padella la carne
con poco olio fino a quando non assume una colorazione
marroncina.
In un roast beef vogliamo che la parte rosa della carne sia più
ampia possibile, per cui dobbiamo impostare il forno a
temperature piu osto basse: 120 o 130 °C, per far sì che, quando la
temperatura al cuore avrà raggiunto i 50 o 55 °C, a seconda che vi
piaccia più o meno al sangue, quella degli strati più esterni non sia
troppo elevata. Più è bassa la temperatura che impostate nel forno
e maggiore sarà il tempo necessario per raggiungere la
temperatura desiderata al cuore, con il vantaggio che avrete solo
una piccola corona bruna nelle vostre fe e, con una bella area
rosa al centro. Temperature del forno ancora più basse sono
certamente possibili, ma i tempi si allungano sempre di più e il
forno non è lo strumento ada o per co ure a temperature
inferiori a 100 °C.
6
Se in precedenza avevate rosolato in forno a 230 °C, aprite il forno
il tempo necessario per fargli abbassare velocemente la
temperatura fino a 120-130 °C. Richiudete e continuate la co ura
fino a quando la sonda vi segnalerà il raggiungimento della
temperatura impostata.
7
Togliete la carne dal forno, copritela con alluminio per alimenti e
lasciatela riposare per almeno 15 minuti. In questo periodo i
succhi si ridistribuiranno all’interno del roast beef, reidratando in
parte gli strati più esterni.
Qualcuno a questo punto preferisce rime ere per 5 minuti la
carne nel forno riportato a 230 °C, per asciugare la crosticina
esterna. Se lo dovete consumare freddo e a fe e so ili questo
passaggio non è necessario.
8
Deglassate i residui rimasti sulla teglia con un po’ d’acqua o,
meglio, del vino bianco, e raccogliete il sugo in un recipiente.
9
Se servite il roast beef ancora caldo tagliatelo a fe e e recuperate i
liquidi che fuoriescono durante il taglio, aggiungendoli al sugo già
raccolto deglassando i fondi. Altrimenti lasciatelo raffreddare per
poterlo consumare, affe ato, anche il giorno successivo.
IL SAPORE DELLA CARNE
I miei figli non amano molto l’agnello. Anzi, lo detestano.
Quando erano bambini e lo cucinavo, dato che a me piace
molto, loro protestavano: «Papà, sa di fa oria!». Questo era
il loro modo curioso di dire che aveva un sapore diverso
dal manzo o dal pollo: più selvatico e sicuramente più
intenso. E anche se glielo me evo di nascosto nel pia o,
tagliato, alla chetichella, si accorgevano subito dall’odore
cara eristico.
Il sapore della carne, da cruda come da co a, è una
cara eristica che ogni consumatore grande o piccino valuta
a entamente. Ma perché il sapore dell’agnello è così diverso da
quello del vitello o del pollo? Dopotu o abbiamo visto che le fibre
muscolari sono formate sempre dalle stesse proteine.
Grossolanamente possiamo distinguere nel sapore della carne due
componenti. La prima, che potremmo chiamare scherzando
“carnosità”, è il sapore e l’aroma di carne generico che
contraddistingue tu i gli animali di terra. È quello che ci fa
scoprire subito con una sniffata se il vicino sta preparando una
grigliata. Una sorta di aroma e gusto di fondo su cui si innesta,
modificandolo, la seconda componente, che mi piace chiamare
“animalosità” e che cara erizza e distingue il bue dall’agnello, il
pollo dal coniglio e così via. Queste differenze si manifestano
anche da cruda, ma variano e si intensificano a mano a mano con
la co ura.
CRUDA: SOPRATTUTTO I GRASSI Può sembrare strano ma il
95% del contenuto di un pezzo di carne cruda non ha alcun
sapore. Le proteine, infa i, nel loro stato nativo, tranne rarissime
eccezioni, sono completamente insapori, così come lo è l’acqua. Il
gusto della carne cruda è dovuto solo al rimanente 5% e sappiamo
già che per la maggior parte è grasso. A essere pignoli neppure i
grassi hanno granché sapore, ma possono assorbirli molto
facilmente. Uno degli accorgimenti che è bene rispe are quando
si apre un pane o di burro è di riporlo in frigorifero nel suo
scomparto ben avvolto nella carta. Questo per rallentare
l’irrancidimento dovuto all’ossidazione dei grassi, ma anche per
evitare che le molte molecole volatili aromatiche presenti nel
frigorifero – vi ricordate di quando vi siete dimenticati di
avvolgere nella pellicola per alimenti quella mezza cipolla, lasciata
a fianco del pane o di burro aperto? – possano arrivare sulla
superficie grassa del burro ed essere assorbite. I grassi sono un
o imo solvente per moltissime molecole che non si sciolgono in
acqua e un pane o di burro non coperto agisce come una spugna
per tu i gli odori presenti nel frigorifero.
La stessa cosa avviene nel corpo di un animale: le cellule adibite
a deposito di grasso – gli adipociti – nel corso della vita possono
assorbire molecole dai gusti e aromi cara eristici e più un animale
è vecchio e più tempo hanno avuto i suoi grassi di assorbire
sapori. L’alimentazione dell’animale, quindi, insieme agli inevitabili
fa ori genetici, è responsabile di buona parte del gusto della
carne, e gli scienziati concordano nel ritenere che se nella dieta è
compresa erba o fieno la carne ha un sapore più intenso dovuto
alle numerose sostanze aromatiche presenti che si sciolgono nei
grassi, rispe o ad una alimentazione fa a prevalentemente di
mais e soia.
Come abbiamo visto, le fibre bianche usano come carburante il
glucosio immagazzinato localmente so o forma di glicogeno,
mentre le fibre rosse bruciano anche il grasso. Si capisce quindi
come mai la carne rossa, con le sue fibre più ricche di grasso, sia
più saporita della carne bianca. Anche nei succhi della carne sono
disciolte numerose molecole che hanno sapori e aromi
cara eristici, ma se masticate della carne cruda non riuscirete a
estrarne molti, nonostante siano presenti per circa il 70%. Per
riuscire nell’impresa, la carne la dobbiamo cuocere.
BOLLITA: IL SAPORE DEI SUCCHI Immergiamo un pezzo di
carne in acqua e accendiamo il fornello. Quando la temperatura
supera i 40 °C al suo interno cominciano ad avvenire delle
trasformazioni chimiche e fisiche. L’acqua, che prima era
intrappolata nelle fibre o ancorata alle proteine, pian piano si
libera sciogliendo le sostanze solubili che fuoriescono dalle cellule
sempre più danneggiate a mano a mano che la temperatura sale e
il tempo passa.
Fin tanto che la carne viene co a mantenendo le temperature
inferiori a 100 °C, il suo sapore deriva principalmente da composti
azotati derivanti dal metabolismo delle proteine, come la creatina,
la creatinina e l’acido urico accumulati nelle cellule. Se la co ura è
molto lunga, come per esempio nella preparazione di un brodo, le
proteine possono iniziare a degradarsi e liberare i sinamminoacidi
goli amminoacidi, ognuno con un sapore cara eristico. Alcuni,
come la glicina, la lisina e l’alanina, impartiscono delle note dolci.
Altri, come il triptofano e l’arginina, un gusto amarognolo, mentre
l’acido glutammico è particolarmente importante nel contribuire
al sapore di carne bollita, e non a caso il glutammato, il suo sale
sodico, è uno dei componenti principali di un estra o di carne o di
un dado, come lo è di un brodo dopo una lunga co ura.
Anche i grassi, in particolare quelli insaturi, in piccole dosi
contribuiscono al sapore e all’aroma della carne co a iniziando a
trasformarsi e a degradarsi in molti altri composti che, se
annusati puri, rivelano gli aromi più disparati. L’ossidazione dei
grassi in grande quantità però forma dei composti dall’odore non
troppo gradevole, di rancido, come avrete sicuramente notato
annusando un pezzo di burro lasciato nel frigorifero troppo a
lungo, nonostante fosse ben chiuso. Questo è un problema che a
volte si può presentare con animali i cui grassi hanno un
contenuto troppo elevato di acidi grassi insaturi provenienti da
una alimentazione a base di erba o fieno. La carne co a può allora
presentare delle note che i panel di assaggiatori professionisti
descrivono come “di fegato”.
In generale comunque sapori e aromi della carne co a a basse
temperature sono piu osto blandi. Le cose cambiano
drasticamente se invece me iamo la carne in forno o in padella e
la arrostiamo.
ARROSTITA: LA REAZIONE DI MAILLARD Che cos’hanno in
comune il caffè, il cacao, una torta ben dorata, la birra, il pane e
una bistecca? Se ci pensate, sono tu i cibi che da crudi hanno
poco sapore, oppure sono sgradevoli come il caffè o il cacao, ma
una volta co i – la tostatura di cacao, caffè e orzo è a tu i gli
effe i una co ura – assumono aromi e sapori meravigliosamente
complessi. Succede a tu i quei cibi che sviluppano una
colorazione più scura se esposti ad alte temperature, anche alla
carne.
Quando le temperature superano di un bel po’ la temperatura di
ebollizione dell’acqua, in un forno o in padella per esempio, la
carne sviluppa aromi, colori e sapori che prima non possedeva. I
grassi presenti si sciolgono velocemente e cominciano a ossidarsi
in presenza di ossigeno e questi nuovi composti possono
contribuire al sapore complessivo. Ma i sapori che si creano a
temperature elevate dipendono sopra u o dalle proteine e dagli
zuccheri. La responsabile è una reazione chimica diventata
famosa anche presso cuochi e gastronomi: la reazione di Maillard,
la più importante di tu a la cucina.
L’ANGOLO CHIMICO
REAZIONE O REAZIONI? Si parla di reazione di Maillard,
al singolare, ma in realtà si dovrebbe usare il plurale:
reazioni di Maillard, perché avvengono centinaia di
reazioni diverse a seconda del tipo di zucchero e di
amminoacido coinvolto, del pH e della temperatura.
Nonostante sia passato un secolo dalla scoperta di
queste reazioni, molte delle sostanze prodo e non
sono ancora state identificate chimicamente.
Se cuocendo un cibo questo “imbrunisce”, quasi sempre è opera di
questa reazione che avviene velocemente ad alte temperature,
solitamente superiori ai 140 °C. È necessario che siano presenti
amminoacidi e alcuni tipi di zuccheri. Le proteine, composte da
amminoacidi, compaiono in quasi tu i i cibi, vegetali compresi,
perché servono a qualsiasi organismo vivente, e così gli zuccheri,
quindi non ci stupisce che queste reazioni di brunimento siano
così diffuse.
LO SAPEVATE CHE?
Prima della scoperta della reazione di
Maillard si pensava che la carne
contenesse una sostanza, chiamata
osmazoma, che le donava il sapore. Più
un brodo veniva ristre o, più scuro
diventava, e più questa misteriosa
sostanza si concentrava rivelando il suo
colore bruno e donando sempre più
sapore. In realtà ora sappiamo che non
esiste nessun osmazoma nella carne e
che il colore bruno è dovuto ai prodo i
della reazione di Maillard e alla
degradazione delle proteine.
IL “GUSTO DI CARNE ARROSTITA”
Louis-Camille Maillard non era un cuoco e nemmeno un chimico
interessato al cibo. Era invece un medico interessato al
metabolismo cellulare e studiò le reazioni fra gli aminoacidi, i
ma oncini che costituiscono le proteine, e gli zuccheri presenti
nelle cellule. In cucina queste reazioni sono estremamente
importanti per creare sapori. Ho scri o “creare” perché le molecole
responsabili del sapore di una buona fiorentina co a alla
perfezione non esistono nella carne prima della co ura. È la
reazione di Maillard che forma diverse centinaia di tipi di piccole
molecole odorose, responsabili di molte delizie culinarie. I de agli
di questa reazione non sono ancora noti perfe amente,
sopra u o perché, a seconda della temperatura a cui avviene la
reazione e del tipo di zuccheri e di amminoacidi coinvolti, si
formano composti differenti che impartiscono gusti diversi al
cibo. Questa enorme variabilità è sfru ata inconsapevolmente dai
cuochi per o enere pia i con gusti e aromi differenti.
L’ANGOLO CHIMICO
UNA MOLECOLA DAL SAPORE DI CARNE Una molecola in
particolare è associata al gusto di carne arrostita, ed è
il bis(2-metil-3-furil)-disolfuro. Non vi stupirà
apprendere che è una sostanza usata anche
nell’industria alimentare per creare il “gusto di carne”
in alcuni prodo i. Le reazioni di Maillard che
avvengono cuocendo un pezzo di carne generano,
però, centinaia di molecole diverse, che forniscono un
gusto e un aroma molto più complessi di quelli che
può fornire una singola molecola.
Come ormai sapete, la carne contiene solo tracce di zuccheri in
quantità diverse a seconda della tipologia: in quella di manzo gli
zuccheri sono sufficienti per far avvenire la reazione, altre carni
invece ne contengono meno. In questi casi, gli zuccheri si possono
aggiungere dire amente o indire amente, per esempio con una
marinata: il vino è molto zuccherino, come pure il succo di limone.
Nell’anatra all’arancia, la funzione dell’arancia è anche quella di
fornire lo zucchero perché avvenga la reazione di Maillard. Oppure
pensate all’uso del miele per glassare alcune carni o alla salsa
barbecue con cui si spennellano le costine in co ura. Non tu i gli
zuccheri hanno voglia di reagire con gli amminoacidi: solamente gli
zuccheri che i chimici chiamano “riducenti” (una sostanza riducente
è l’opposto di una sostanza ossidante). Il caro vecchio zucchero
comune, il saccarosio, non fa parte della categoria mentre glucosio e
fru osio, presenti nel miele e nella fru a, sono riducenti e possono
reagire nella reazione di Maillard.
L’ANGOLO CHIMICO
REAZIONE DI MAILLARD O DECOMPOSIZIONE DELLA
MIOGLOBINA? Gli scienziati hanno stabilito che nella
carne di bovino la reazione di Maillard avviene
principalmente tra il ribosio, uno zucchero presente
negli acidi nucleici, e la cisteina, anche se i de agli non
sono ancora stati chiariti e qualcuno ipotizza che una
parte dei composti gustosi prodo i dalla co ura della
carne rossa di manzo non derivi affa o dalla reazione
di Maillard, ma dalla decomposizione della
mioblogina, la proteina di cui la carne rossa è ricca.
LA REAZIONE DI MAILLARD IN AZIONE
La reazione di Maillard non è specifica della carne. Può avvenire
anche nei vegetali e in alcuni casi persino in ambiente acquoso e a
temperature inferiori ai 100 °C: quando si riduce un brodo
facendolo bollire molto a lungo questo diventa più scuro anche
grazie a queste reazioni. Anche lo sciroppo d’acero diventa scuro
durante l’ebollizione e così il dulce de leche, la tipica crema
sudamericana fa a con il la e. Nella maggior parte dei casi però,
quando parliamo di co ura della carne, una condizione necessaria
perché la reazione avvenga velocemente è che la temperatura
raggiunga almeno i 140 °C. Un pezzo di carne messo in acqua a
bollire non diventerà mai bruno.
CONSIGLIO
Se salate la bistecca molto prima della co ura,
per insaporirla, ricordatevi di asciugare
l’acqua sulla superficie prima di me erla in
padella. L’umidità ritarda il brunimento di
Maillard.
Pensate a una bistecca co a in padella: il brunimento può
avvenire solo sulla superficie della carne, dato che internamente è
sempre presente dell’acqua che le impedisce di superare i 100 °C.
Perché la reazione avvenga, però, la superficie della padella deve
essere sufficientemente calda. Un errore comune, cuocendo una
bistecca in padella, è di me erla a cuocere quando la temperatura
è ancora troppo bassa. Aggiungendo il pezzo di carne la
temperatura scende ulteriormente, e invece di una bistecca ci
ritroviamo con la proverbiale poco appetibile suola di scarpe.
Un altro fa ore che influenza moltissimo la velocità della
reazione di Maillard è il pH. In ambiente acido, a pH inferiore a 7,
la reazione è rallentata mentre in ambiente basico o alcalino, a pH
superiore a 7, la reazione è velocizzata. Spruzzare del succo di
limone sulla carne da me ere in padella rallenterà la sua velocità
di brunimento, mentre un pizzico di bicarbonato la velocizzerà. La
reazione di Maillard della carne di bovino adulto non ha bisogno
di essere velocizzata, ma per carni povere sia di grassi che di
sapore, come un file o di maiale o un pe o di pollo, può essere un
trucco che vi invito a esplorare nonostante il bicarbonato, al di
fuori della pasticceria, non sia considerato un ingrediente in
cucina.
pH E REAZIONE DI MAILLARD
Le sostanze acide sfavoriscono la reazione di Maillard, mentre
quelle alcaline la favoriscono
ESPERIMENTO
LA CIPOLLA DI MAILLARD
La reazione di Maillard avviene anche nei vegetali, a pa o
ovviamente che si creino le condizioni opportune.
Ricapitoliamole: una di queste è che siano presenti zuccheri
riducenti e proteine, un’altra è che vi siano temperature
abbastanza alte – non che la reazione di Maillard non possa
avvenire a temperature più basse, come già de o, ma il tempo
con cui ha luogo in questo caso si può misurare in giorni o
addiri ura mesi, non in minuti.
Un ortaggio che perme e di osservare molto bene la reazione di
Maillard in azione è la cipolla, il che non ci stupisce essendo un
vegetale molto ricco di zuccheri. Spesso si sente dire che la
cipolla “caramella” se co a per un tempo sufficiente: perde il
gusto pungente e diventa più dolce e gustosa. La
caramellizzazione in realtà dal punto di vista chimico è una
reazione di brunimento che avviene negli zuccheri a
temperature elevate, spesso superiori ai 160 °C, senza alcun
ausilio di proteine. La preparazione del caramello è il prototipo
delle reazioni di caramellizzazione.
L’ANGOLO CHIMICO
SOSTANZE ACIDE E ALCALINE IN CUCINA La maggior
parte degli alimenti e delle sostanze che si usano
in cucina sono acidi. Due rare eccezioni sono il
bicarbonato di sodio e l’albume. In casa possiamo
avere altre sostanze alcaline, come l’ammoniaca o
la soda caustica, ma, salvo rarissimi casi, non si
usano per preparare cibi.
Tornando alla nostra cipolla, le trasformazioni che subisce sono
almeno in parte un effe o della reazione di Maillard. Spesso i
prodo i di queste due reazioni distinte vengono confusi e nel
mondo gastronomico si parla genericamente di
“caramellizzazione” anche se in realtà in azione c’è quasi sempre
la reazione di Maillard.
1
Tritate finemente la cipolla, dividetela in 3 mucchie i e
depositateli in una pentola antiaderente. Unite un cucchiaino di
olio di semi a ogni mucchie o.
2
A un mucchie o (in alto a destra nelle foto) aggiungete un
cucchiaino di aceto per abbassare il pH. A un altro mucchie o
(in alto a sinistra nelle foto) aggiungete una punta di cucchiaino
di bicarbonato di sodio per alzare il pH. Non serve eseguire
misurazioni precise, perché lo scopo è solo di illustrare il
fenomeno. Non aggiungete nulla al terzo mucchie o (in basso
nelle foto) che fungerà da controllo.
3
Accendete il fuoco a fiamma media, rigirando i tre gruppi con
3 spatole diverse per minimizzare la contaminazione.
4
Dopo 10 minuti osservate il doppio effe o del bicarbonato: il
colore ambrato è notevolmente più intenso che negli altri due
mucchi, segno che la reazione di Maillard procede più
velocemente. In più notate un effe o non legato alla reazione di
Maillard: il rammollimento della cipolla, analogo a quanto
accade quando si aggiunge il bicarbonato a fagioli o altri legumi.
La cipolla con l’aceto invece mostra un grado di brunimento
molto basso, a causa dell’effe o ritardante dell’acidità. La cipolla
di controllo ha un brunimento un po’ più elevato di quella
acidificata.
5
Dopo altri 10 minuti la cipolla al bicarbonato è rido a quasi a
una pasta, molto scura. Anche la cipolla all’aceto ha subito un
po’ di reazione di Maillard, ma in misura molto minore mentre la
cipolla di controllo è più bruna.
6
E il sapore? Beh, la cipolla alcalina è marcatamente più dolce
e saporita, oltre a essere diventata una crema che quasi non sa
più di cipolla. Se aggiungete molto bicarbonato l’effe o sarà
velocissimo, ma rimarrà un retrogusto non molto gradevole.
Ricordatevelo, se volete anche mangiare il risultato
dell’esperimento.
L’ANGOLO CHIMICO
EST MODUS IN REBUS Tra i composti che la reazione di
Maillard produce, ve ne sono di potenzialmente
tossici. Quasi in ogni cibo troviamo sostanze
benefiche e altre potenzialmente tossiche o
cancerogene e il nostro organismo cerca di
eliminare quelle dannose e assorbire quelle utili. È
impossibile non assumere molecole che, in gran
quantità, possono avere effe i negativi; per questo
è importantissimo seguire una dieta bilanciata,
ricca di fru a e verdura cruda e co a, con poca
carne rossa e insaccati ed evitare di mangiare
troppo. Assumere carne tu i i giorni, non è
sicuramente una buona idea, reazione di Maillard
o meno.
RICETTA
LA BISTECCA
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come un bistecca di carne
tenera e povera di tessuto conne ivo debba essere co a
velocemente ad alte temperature per innescare la reazione
di Maillard all’esterno e mantenere allo stesso tempo una
temperatura inferiore a 60 °C al suo interno.
Cosa c’è di più semplice da preparare di una bistecca? Sembra
facile, no? Prendete la carne, la cuocete in padella e poi la servite.
Se fosse così facile non verrebbero serviti giornalmente, nelle case
degli italiani, nelle mense e a volte anche al ristorante, pezzi di
carne che assomigliano più a un bollito o a una suola di scarpe che
non a una succulenta, tenera e saporita bistecca. Certo, nei
ristoranti specializzati la carne non è co a in padella come siamo
quasi sempre costre i a fare a casa. E non c’è dubbio che il sapore
e la consistenza di una fiorentina co a alla brace siano
inarrivabili a casa propria. Ma non è impossibile preparare o ime
bistecche anche nella propria cucina. Basta capire
scientificamente cosa può andare storto e prevenirlo.
INGREDIENTI
1 entrecôte alta 2-3 cm
olio extravergine di oliva
sale grosso
Quando si dice bistecca a molti, troppi, viene subito in mente il
file o. Questo è il muscolo più tenero dell’animale ma è meno
saporito di altri tagli come il controfile o o lo scamone, sebbene
siano un po’ meno teneri. Non a caso nella celebrata Fiorentina, da
una parte dell’osso c’è il piccolo file o, ma dall’altra c’è il più grande
controfile o, più saporito. Per le bistecche io preferisco le costate,
con l’osso, chiamate entrecôte se disossate. Qualsiasi sia la vostra
scelta, se potete scegliete una bistecca marezzata, con piccole
venature di grasso inframmezzate al muscolo. Risulterà più
morbida dopo la co ura. L’errore più grande che potete fare
acquistando delle bistecche è di preferire quelle senza grasso
intramuscolare. Fidatevi.
La carne deve essere di spessore uniforme, altrimenti cuocerà in
modo disomogeneo. E che non sia troppo bassa, altrimenti non è
più una bistecca ma una fe ina, che richiede un tra amento un
po’ diverso e co ure rapidissime.
PROCEDIMENTO
1
Se la carne è già tenera la co ura serve più che altro a distruggere
i microrganismi presenti e a svilupparne il gusto sulla superficie.
Asciugatela ben bene con della carta assorbente da cucina. La
superficie della bistecca deve essere ben asciu a perché, come
abbiamo visto, l’acqua è nemica delle reazioni di Maillard. Se
volete, salate a piacere entrambi i lati della bistecca. Se avete
sentito che questo non si deve fare perché altrimenti la carne
diventa secca e dura, sappiate che non è vero. La co ura è troppo
veloce perché i fenomeni di osmosi possano estrarre i succhi dalla
carne. Se la salate un’ora prima, come si fa in molte Steak House
americane che di bistecche se ne intendono, il sale riuscirà a
penetrare un po’ so o la superficie migliorando il sapore della
bistecca e mantenendola anche succosa.
2
Se la vostra bistecca è sufficientemente grassa non è necessario
aggiungere olio. Se invece è un taglio un po’ magro, potete
spalmare per bene con le mani un filo di olio su entrambi i lati
della carne. L’olio serve per trasferire velocemente e in modo
uniforme il calore, per conduzione, dalla padella alla carne, e non
contribuisce dire amente al sapore. Cuocendo a fuoco dire o
sulla brace non è necessario. E il burro? No, sarebbe meglio non
usare il burro per queste bistecche. Non può essere scaldato alle
temperature necessarie senza che cominci a bruciare. Per lo stesso
motivo l’olio extravergine di oliva non è molto ada o. Nonostante
quanto spesso si sente dire, l’olio extravergine può avere un basso
punto di fumo, specialmente se non è a bassa acidità, e si degrada
a temperature più basse di altri oli. In più, è un peccato
distruggere il suo sapore scaldandolo ad alte temperature dopo
che è stato fa o tu o il possibile nel frantoio per mantenere le
temperature so o i 27 °C. Molto meglio l’olio di oliva, che ha un
punto di fumo più alto, o anche altri oli vegetali ad alto punto di
fumo.
3
Prendete la padella di metallo che favorisce le reazioni di Maillard,
mentre nelle padelle antiaderenti l’imbrunimento è molto più
difficile. La ghisa è perfe a, ma se non ce l’avete l’acciaio va
benissimo. Cominciate a scaldare la padella vuota a fuoco medioalto. Se la padella è di buona qualità, spessa e pesante per
distribuire bene il calore e mantenerlo a lungo, potreste anche
me erci un paio di minuti per riscaldarla bene. Potete anche
aggiungere un filo d’olio dire amente in padella, invece che oliare
la carne, ma fate a enzione: se iniziate a scaldare così poco olio a
freddo, in alcuni punti potrebbe bruciare. Molto meglio portare in
temperatura e poi, poco prima di aggiungere la bistecca, versare
un filo d’olio.
4
Quando la padella è molto calda potete adagiarvi le bistecche.
A enzione a non affollarla per due motivi: rischiate di abbassare
troppo la temperatura e di non lasciare spazio a sufficienza per far
evaporare l’acqua, con il risultato che comincerà a raccogliersi sul
fondo, abbassando ulteriormente la temperatura a 100 °C. La
padella deve sempre essere sufficientemente calda da vaporizzare
quasi istantaneamente i succhi che fuoriescono dalla carne,
altrimenti o errete delle orride bistecche bollite, grigie perché le
reazioni di Maillard non sono avvenute, asciu e perché le
proteine della carne sono coagulate strizzando fuori i succhi, e
dure perché, stracuocendo, le fibre si sono contra e e accorciate.
La carne tenera deve essere co a il più velocemente possibile ad
alta temperatura in modo che l’interno non superi i 60 °C,
temperatura alla quale il collagene inizia a contrarsi velocemente.
5
Avete adagiato le bistecche, la carne sfrigola, l’olio schizza e si
sviluppa anche un po’ di fumo. Ebbene sì, cucinare bene spesso
implica sporcare e affumicare un po’ la cucina. A questo punto
occorre sangue freddo: i cuochi alle prime armi – anch’io facevo
così un tempo – temono che la carne si possa a accare alla padella
e cercano di muovere continuamente le bistecche per evitarlo. È
proprio ciò che deve succedere! Lasciate che si a acchi e
allontanatevi senza muovere la carne. Questo favorirà le reazioni
di Maillard. Vedrete che dopo 1-2 minuti la carne si staccherà da
sola dalla padella, ma non vi azzardate a girarla fino a quando,
sbirciando so o un lembo dopo averlo sollevato leggermente, non
vedrete il cara eristico colore bruno. Tenete il fuoco so o
controllo: la temperatura deve essere sempre abbastanza alta, ma
non eccessiva, perché a temperature prossime ai 180 °C
cominciano a formarsi anche composti bruciacchiati, tossici oltre
che poco appetitosi. Se la bistecca è molto alta, dovrete aspe are
anche alcuni minuti prima di girarla. Insomma, lasciate che la
reazione di Maillard faccia il suo corso.
6
Cuocete fino a raggiungere la co ura interna desiderata: al sangue
o media, tra 50 °C e 60 °C. Come dite? La volete ben co a? È un
vero peccato cuocere così tanto una bistecca. La farete diventare
dura e secca. Soldi bu ati, a mio parere. Pensate che in alcune
Steak House si rifiutano di cuocere così le bistecche, anche se il
cliente protesta. Internamente la carne deve rimanere umida e
rosa e non superare i 60 °C.
7
Finita la co ura, adagiate la vostra bistecca su un pia o, copritela
con alluminio per alimenti e aspe ate almeno un paio di minuti
prima di mangiarla: in questo modo darete modo ai succhi interni
di ridistribuirsi e reidratare le zone esterne rimaste più asciu e.
Infa i, se tagliate in due una bistecca appena co a uscirà parte
del liquido accumulato all’interno.
8
Pensate a quello che è successo durante la co ura: la superficie
della carne è a conta o con il metallo caldissimo, i succhi che
fuoriescono vengono immediatamente vaporizzati… no, non vi è
nessuna “sigillatura” che impedisca ai succhi di uscire. Quindi a
fine co ura la parte esterna della bistecca, quella più vicina alla
crosta, è più disidratata. All’interno, dove la temperatura è più
bassa, i succhi non sono più intrappolati nelle fibre. Lasciare
riposare la bistecca per qualche minuto dà il tempo ai liquidi di
redistribuirsi verso le zone più disidratate e, tagliando la bistecca,
ne fuoriusciranno di meno.
9
Da qualche tempo è diventato di moda, nella co ura delle
Fiorentine, lasciare le bistecche sopra la brace per alcuni minuti
appoggiate sull’osso. È una procedura puramente scenografica dal
punto di vista della co ura, perché in quella posizione, schermata
dall’osso, la temperatura interna della carne non aumenta più, ma
può servire per dare il tempo ai succhi di ridistribuirsi.
10
Dopo aver co o le bistecche guardate il fondo della vostra padella
di metallo. Vedete quei grumi di colore marroncino? Sono i fondi. I
prodo i della reazione di Maillard. Gusto allo stato puro. Se ne
avete usata una antiaderente non sarete così fortunati. Non vi
azzardate neppure a bu are dire amente la padella in
lavastoviglie o nel lavandino. Potete invece utilizzare un liquido
per deglassare quel ben di Dio. Vediamo come: eliminate l’eccesso
di grassi e oli avendo cura di non ge are le particelle o il liquido
bruno. Se la padella è ancora calda potete semplicemente
aggiungere un po’ di vino, ma anche acqua o birra o succhi, a
seconda dei gusti. Sperimentate! Raschiate il fondo con una
spatolina per aiutare le particelle a disciogliersi. Se necessario,
riaccendete il fuoco per concentrare il liquido. Potete poi versarlo
dire amente sulla carne, oppure utilizzarlo per farne una salsa.
LO SAPEVATE CHE?
Il nome bistecca deriva dall’inglese beef
steak: bistecca di manzo.
TRE PROCEDURE POCO ORTODOSSE
Nella procedura standard di co ura di una bistecca di altezza
media, dopo aver depositato la carne si aspe a fino a quando la
superficie a dire o conta o con il metallo, o esposta alla brace, è
brunita. A questo punto si gira per cuocere l’altra faccia e infine,
per un fa ore sopra u o estetico, tenendola con una pinza da
cucina si me e velocemente la bistecca in verticale per sco are e
brunire il bordo. Lo svantaggio di girare la bistecca una volta sola
è che il calore, oltre a brunire la superficie innescando la reazione
di Maillard, dopo un po’ penetra anche negli strati so ostanti e la
temperatura può superare i 60 °C anche per alcuni millimetri so o
la superficie.
Una procedura poco ortodossa ma efficace per evitare ciò
consiste nel girare la bistecca ogni trenta secondi, dopo un iniziale
brunimento superficiale. In questo modo il calore accumulato su
un lato ha modo di disperdersi un po’ quando la bistecca viene
girata. Le temperature, pur sufficienti per far avvenire la reazione
di Maillard, sono più controllate perché le superfici non si
scalderanno né si raffredderanno troppo, la carne resterà rosa
anche negli strati vicini alla superficie e cuocerà anche più
velocemente.
Se la bistecca è molto alta, più di 3 cm, sia con la procedura
tradizionale sia con quella poco ortodossa c’è sempre il rischio che
possa bruciare esternamente prima di cuocere all’interno al grado
desiderato. Una soluzione poco diffusa in Italia, ma sicuramente
con una base scientifica, è finire la co ura al forno. L’idea è di dare
alla carne prima una passata in padella, diciamo 2-3 minuti per
lato, in modo che avvenga la reazione di Maillard. Formata la
crosticina marrone si trasferisce la padella in un forno
preriscaldato a 250 °C. Ovviamente la padella non deve avere un
manico di plastica o di legno. Dopo 2-3 minuti si gira la bistecca, e
dopo altri 2-3 minuti si toglie dal forno. In questo modo
perme iamo al calore del forno, più basso e più uniforme, di
cuocere l’interno della bistecca, lasciandola succosa, senza correre
il rischio di bruciare l’esterno. Il tempo da trascorrere in forno
aumenta con l’aumentare dello spessore della bistecca. Ce l’avete
un termometro per controllare ogni tanto la temperatura al
cuore? Ricordate di inserirlo dal bordo, parallelo alle due facce
della bistecca.
Questi metodi di co ura si sono diffusi nella convinzione errata
che un riscaldamento iniziale della carne potesse sigillare i succhi
al suo interno. Questo non è purtroppo vero, anzi, gli esperimenti
controllati mostrano come sia meglio, dal punto di vista
gastronomico, fare l’esa o contrario, sempre parlando di tagli
piu osto spessi: prima portare la carne alla temperatura interna
desiderata e solo alla fine rosolare brevemente esternamente la
carne con un calore molto intenso. Si potrebbe tentare di seguire
tale procedura me endo la bistecca in forno a temperature
inferiori ai 120 °C prima di passarla in padella, ma con l’avvento dei
moderni metodi di co ura a temperatura controllata, con un
bagno termico, è molto più facile. Si cuoce la carne a temperatura
controllata, tra i 50 °C e i 55 °C solitamente, in un sacche o
so ovuoto, e quando si è pronti la si toglie dal sacche o, la si
asciuga e si sco ano molto velocemente i due lati in una padella a
temperatura molto elevata. Con questo metodo, che 93 alcuni
esperti considerano il miglior modo per cucinare una bistecca, è
praticamente impossibile stracuocerla e si può regolare
precisamente la temperatura interna desiderata. Non solo al cuore
ma in tu i gli strati interni.
CHE FARE SE…
SE LA
BISTECCA…
… è dura
… è grigia
… è secca
PERCHÉ È
COSA SI PUÒ FARE?
SUCCESSO?
L’avete co a
troppo.
Non è un taglio
Cuocetela di meno.
ada o per una
Scegliete un taglio
bistecca, c’è
diverso.
troppo tessuto
Cambiate macellaio
conne ivo.
La carne è di
ca iva qualità.
È stata co a a
Aumentate la
temperature
temperatura della
troppo basse. Le
padella. Aspe ate di
reazioni di
più prima di adagiare
Maillard non sono
la carne.
avvenute.
Non cuocete troppe
Probabilmente si
bistecche
è accumulata
contemporaneamente.
dell’acqua nella
Asciugatela prima
padella.
della co ura.
La carne era
Toglietela un’ora
appena stata tolta
prima dal frigorifero.
dal frigorifero.
È stata co a
troppo. La carne
deve rimanere
Cuocete per meno
succosa e
tempo.
rossa/rosa.
Usate carne non
Era stata
congelata.
congelata in
precedenza.
CHE FARE SE…
PERCHÉ È
COSA SI PUÒ
SUCCESSO?
FARE?
È stata co a
Cuocete più a
… è cruda
troppo poco.
lungo.
Non l’avrete mica
… ha perso molti punzecchiata con
Non ci provate
succhi
una forche a,
più!
vero?
Scegliete un
taglio con più
C’è poco grasso grasso.
per veicolare i
Non usate il
… è poco saporita sapori.
file o, ma un taglio
È un taglio poco più saporito e
saporito
meno costoso,
anche se un po’
meno tenero.
Temperatura
troppo alta: la
Usate una
parte esterna è
è bruciata
temperatura più
bruciata prima che
all’esterno e cruda
bassa.
l’interno potesse
all’interno
Fate la seconda
cuocere.
co ura in forno.
Carne troppo
alta.
Abbassate la
Temperatura
temperatura.
troppo alta.
è bruciata
Cambiate
Ca iva padella.
all’esterno
padella, che sia più
Troppo poco
spessa.
grasso.
Me ete più olio.
SE LA BISTECCA…
LA CONSISTENZA DELLA CARNE
Poter mangiare carne tenera, prodo a da allevamenti
destinati appositamente, a prezzi contenuti è un privilegio
molto recente. Una volta non era così.
L’allevamento non era quasi mai finalizzato alla macellazione:
questo valeva non solo per animali come il cavallo e l’asino, ma
anche per la maggior parte dei bovini e del pollame. Servivano per
lavorare nei campi, produrre la e o uova, muovere macine e così
via. Con l’esclusione dei maiali, destinati sopra u o alla
produzione di salumi e insaccati, bovini, equini e pollame
fornivano carne solamente alla fine della loro vita, diciamo così,
lavorativa. E quindi erano saporitissimi ma anche durissimi. Solo
ricchi e nobili potevano perme ersi di mangiare carne di animali
allevati appositamente per questo scopo. La rinomata razza
bovina Chianina era allevata e utilizzata per la possente
muscolatura, non certo per fornire bistecche, che erano, di fa o,
un so oprodo o fruibile solo dopo anni di lavoro.
Ora la carne bovina proviene raramente da animali con più di
due anni di età. Nel caso del maiale non si supera l’anno e nel caso
dei polli l’età si misura in se imane. Possiamo quindi perme erci
di scegliere la carne della consistenza più ada a agli usi che ne
vogliamo fare. È dunque il caso di soffermarci un po’ sui fa ori
che influenzano la consistenza delle nostre bistecche e dei nostri
stufati.
LE DIVERSE COMPONENTI DELLA
DUREZZA
Le sensazioni ta ili e di resistenza meccanica che proviamo
quando mastichiamo un pezzo di carne sono il risultato dire o
della sua stru ura gerarchica a fibre: l’unità fondamentale,
abbiamo visto, è come un filo ricoperto da una guaina, composto a
sua volta da vari filamenti e da altre componenti come l’acqua e i
grassi. Quando mastichiamo un boccone i nostri denti devono
rompere sia la guaina – il tessuto conne ivo – sia i fili interni – le
proteine delle fibrille. Se entrambi sono molto so ili, e
possibilmente già indeboliti o spezzati, la carne risulterà tenera.
Abbiamo visto che l’utilizzo rende il muscolo più fibroso, ricco di
tessuto conne ivo e sostanze saporite. Quindi, come regola
generale, gli animali più giovani sono più teneri, ma meno saporiti
degli animali più vecchi. In più, gli animali di allevamento quasi
sempre non fanno lo stesso esercizio degli animali allo stato
selvatico, come i cervi, i caprioli o i cinghiali. È per questo che
questi ultimi sono spesso più duri ma saporiti. E non a caso, in
montagna, la polenta si mangia con il cervo o il capriolo, mentre la
bistecca per i bambini spesso la si prepara con carne di vitello.
Tenera, ma in quanto a sapore…
Allo stesso modo, in uno stesso animale avremo muscoli più
utilizzati e quindi più duri e saporiti di altri meno utilizzati.
Pensate, per esempio, al pe o di pollo e alle sovracosce: qual è la
parte più saporita? E quella più tenera?
La tenerezza di un muscolo – prima e dopo la co ura – dipende
da vari fa ori che si combinano in maniera complessa e ancora
non del tu o compresa. Ne possiamo identificare almeno tre: il
tessuto conne ivo, le fibre e il grasso. Abbiamo visto che le
proteine di un muscolo sono stru urate sia nelle fibre, con
l’actina, la miosina e le altre proteine stru urali, sia nel tessuto
conne ivo, composto sopra u o da collagene. Il grasso
inframezzato alle fibre aiuta a separarle durante la co ura. Quindi
la tenerezza della carne dipende primariamente da quanto è facile
rompere le fibre e il tessuto conne ivo che le circonda e dalla
quantità di grasso presente.
IL TESSUTO CONNETTIVO L’effe o del tessuto conne ivo
sulla tenerezza di un muscolo è anche chiamato “effe o di fondo”
perché, in una co ura breve che non superi internamente i 60 °C,
il suo effe o non è eliminabile non essendoci il tempo per
scioglierlo e una volta superati i 60 °C la sua contrazione renderà
ancora più dura la carne. È necessario raggiungere temperature
superiori a 70 °C per scioglierlo, ma la velocità con cui avviene
questo processo dipende anche dall’età dell’animale perché nel
corso della vita fibre di collagene adiacenti possono legarsi
chimicamente rendendo ancora più duro il muscolo. La carne del
vitello per esempio è ricca di collagene ma questo è facilmente
solubile: a 70 °C se ne scioglie il 42% contro solo il 2% di un bovino
di 10 anni di età.
Studi recenti hanno cercato di stabilire con precisione una
relazione tra il contenuto di collagene di un taglio di carne e la sua
durezza, ma non si è ancora arrivati a determinare tu i i
parametri in gioco. Pare non essere tanto il collagene in sé a
influenzare la durezza della carne, ma piu osto come è
stru urato all’interno del tessuto conne ivo, il grado di
interconnessione tra filamenti di collagene adiacenti, lo spessore
del perimisio e molti altri parametri. Comunque, una buona
regola pratica da seguire è che più collagene è presente e meno
tenera sarà la carne.
LE FIBRE Più facilmente riusciamo a spezzarla con i denti e
più tenera sarà la carne. Nelle ore immediatamente successive alla
morte i muscoli si contraggono e la miosina si lega all’actina
formando l’actomiosina, facendo aumentare di spessore le fibre
rendendole più difficili da rompere. Un muscolo contra o è più
duro di uno rilassato e quindi le carcasse degli animali vengono
appese dopo l’abba imento per far sì che il peso contrasti in
qualche modo l’accorciamento di alcuni muscoli. Si può facilitare
la masticazione anche rompendo preventivamente le fibre in
pezzi più piccoli e vedremo tra poco alcuni metodi per far ciò.
IL GRASSO Anche il grasso partecipa a costruire la tenerezza
totale di un muscolo: più grasso intramuscolare è presente e più
sarà facile, durante la masticazione, separare le fibre. In co ura il
grasso si scioglie lubrificando i fasci muscolari, aumentando
quindi la tenerezza percepita dall’assaggiatore.
DIFFERENTE TENEREZZA DEI MUSCOLI
La tenerezza di un taglio di carne è un fa ore importante da
considerare nella scelta della rice a che prepareremo. Un bovino
ha svariate centinaia di muscoli, ma solo alcuni di questi vengono
separati e venduti come tagli di carne ben identificati. In altri casi
i tagli che acquistiamo contengono più muscoli assieme o gruppi
muscolari, la cui tenerezza può anche essere differente.
Poiché il consumatore è alla continua ricerca di tagli teneri, i
ricercatori si sono messi al lavoro per valutare la tenerezza dei
singoli muscoli in modo obie ivo, considerando anche quelli che
normalmente non vengono separati. Sono stati sviluppati test con
cui valutare le cara eristiche meccaniche di un pezzo di carne, da
affiancare al giudizio di un gruppo di assaggiatori esperti.
Curiosamente non sempre i risultati dei test meccanici coincidono
con il giudizio degli assaggiatori, mostrando come la tenerezza,
così come la succosità, sia una cara eristica difficilmente
riducibile a un singolo fa ore misurabile con una macchina e che,
alla fine, il test più sensibile è ancora quello dell’assaggio.
Uno studio dell’Università del Nebraska ha raccolto e catalogato
decine di ricerche pubblicate nella le eratura scientifica
riuscendo a classificare in ordine di tenerezza una quarantina di
muscoli. Sul podio della tenerezza, come era prevedibile, sale il
muscolo psoas maggiore, conosciuto anche come file o, ma anche
altri muscoli già molto apprezzati per la tenerezza e il sapore,
come il lunghissimo del torace e il lunghissimo del dorso, muscoli
usati per produrre costate, entrecôte e roast beef. Poche sorprese
anche verso il centro e la coda della classifica, dove troviamo sia
muscoli del gluteo e della coscia comunemente fa i a fe ine o
bistecche, come la fesa e lo scamone, saporiti ma non
particolarmente teneri, sia muscoli del collo o del pe o, come la
punta di pe o, che sono infa i più spesso o macinati oppure
utilizzati per co ure lunghe in modo da sciogliere il tessuto
conne ivo. La classifica, però, riserva alcune sorprese.
LA SCOPERTA DI UNA NUOVA BISTECCA
Il famoso gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin, autore
de La fisiologia del gusto, diceva che: «La scoperta di un pia o
nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una
nuova stella». Sebbene non condivida il confronto con le scoperte
astronomiche, è sicuramente vero che ogni nuovo modo di
preparare il cibo ci arricchisce culturalmente. Rice e nuove
vengono create ogni giorno, ma è molto più raro che venga
inventato, o forse sarebbe meglio dire scoperto, un nuovo taglio di
carne da bistecca.
Una delle scoperte sorprendenti più recenti nel campo della
scienza della carne è che il muscolo infraspinato è uno dei più
teneri del bovino. È addiri ura il secondo più tenero dopo il file o,
sia secondo le prove automatiche con apparecchiature apposite,
sia in fase di assaggio. La cosa sorprendente è che questo muscolo
appartiene alla spalla, nel quarto anteriore: una zona nota per
tagli saporiti ma non esa amente teneri. Questo particolare
muscolo, però, non è granché so oposto a sforzi durante la vita
dell’animale e risulta tenero, saporito e succulento, perfe o per
preparare una bistecca da cuocere in padella o alla griglia. Questa
nuova bistecca, chiamata negli Stati Uniti Flat iron steak, è stata
lanciata agli inizi del 2000 in varie catene di ristoranti e ora ha un
buon successo commerciale, dato che costa molto meno di un
file o. Questo muscolo è sempre stato venduto non separato dai
suoi vicini meno teneri, in un taglio da lunghe co ure in umido,
oppure macinato. C’è voluta una ricerca congiunta delle
Università del Nebraska e della Florida, finanziate
dall’associazione americana dei produ ori di carne, per misurare
la tenerezza dei singoli muscoli e delle loro porzioni e suggerire
che quel muscolo si poteva separare e usare per preparare
bistecche.
Da noi in Italia la Flat iron steak non è ancora diffusa:
l’infraspinato è venduto nel cappello del prete. L’avrete visto
sicuramente sui banconi della macelleria, perché è
contraddistinto da una linea di tessuto conne ivo proprio a metà
del muscolo. Per questo motivo da noi è sempre stato un classico
pezzo da brasare o stufare. Ma se tagliate longitudinalmente il
muscolo, come hanno fa o i ricercatori, per separare la fascia
centrale di tessuto conne ivo, o errete 2 bistecche.
Potete chiedere al vostro macellaio di eseguire il taglio
eliminando tu o il tessuto conne ivo, oppure potete provarci voi.
Digitando “flat iron steak” in un motore di ricerca potete trovare
vari video tutorial che spiegano esa amente come fare. Io l’ho
provato ed effe ivamente è un taglio tenero e gustoso, con una
consistenza e un sapore un po’ diversi da quelli dei tagli più noti
da bistecca.
ESPERIMENTO
LA FLAT IRON STEAK
1
Prendete il cappello del prete. Vedete la lamina di tessuto
conne ivo centrale? Ci indica dove dobbiamo tagliare per
o enere due bistecche. Prima però dobbiamo eliminare il
tessuto conne ivo esterno.
2
Ora che l’abbiamo pulito esternamente possiamo tagliarlo in
due usando il tessuto conne ivo centrale come guida,
esa amente come si fa quando con un coltello da disosso si
separa la pellicola bianca esterna dal muscolo.
3
Ed ecco la bistecca. Salatela, aspe ate un’ore a, asciugatela e
poi me etela in padella.
È
È possibile che le centinaia di muscoli di un bovino nascondano
altri tagli da bistecca ancora da scoprire? Pare proprio di sì.
Nella classifica, un muscolo della scapola, il so oscapolare,
risulta anch’esso molto tenero. A differenza del caso precedente,
però, non è facile da isolare, e quindi da cucinare separatamente
dal resto. Forse per questo nessuno si era mai accorto delle sue
qualità e a nessun macellaio era mai venuto in mente di
separarlo.
A scovare un modo per tagliare quel gruppo muscolare e isolare
il muscolo so oscapolare ci ha pensato uno scienziato, Antonio
Mata, che già in passato aveva trovato un muscolo tenero, il
grande rotondo, lanciando anche in quel caso una nuova
bistecca. Dal so oscapolare Mata ha creato la Vegas strip steak,
annunciata alla stampa nel 2011. Ovviamente non possiamo
parlare di un’invenzione: è una scoperta di qualche cosa che
esiste già, il muscolo so oscapolare. Sembra un de aglio
superfluo, ma è importante, perché non si può breve are una
cosa che già esiste. Mata sta quindi cercando di breve are il
metodo di taglio per “fabbricare” la nuova bistecca, estraendo il
muscolo so oscapolare dal gruppo muscolare a cui appartiene.
È improbabile che il breve o (Method of obtain a steak from
subscapularis and product obtained by such method US
20140287133 A1) venga concesso, perché uno dei requisiti per la
breve abilità di una invenzione è che non sia ovvia.
Probabilmente, sapendo che un certo muscolo è molto tenero,
un buon macellaio è in grado di separarlo senza seguire le
istruzioni di Mata riportate nel breve o. In ogni caso possiamo
solo ringraziare questi scienziati che si occupano di carne e
augurar loro buona fortuna in quella che sembra una sorta di
caccia al tesoro: scovare tra le molte centinaia di muscoli di un
animale quelli più ada i a determinate rice e.
INTENERIRE LA CARNE
L’uomo cuoce la carne probabilmente da quando ha scoperto il
fuoco. E abbiamo visto come la temperatura possa avere un effe o
notevolissimo sulla consistenza. Ma esistono anche rice e e
preparazioni, praticamente in ogni cultura, che non prevedono
co ura per la carne: a volte è sufficiente tra arla con ingredienti
particolari, per esempio degli acidi, che la trasformano
parzialmente. Più spesso, però, questo tipo di tra amento è usato
per pesci e molluschi, che si consumano crudi con limone, come
per le ostriche, o aromi, come richiede il ceviche, una rice a tipica
dell’America Latina nella quale la marinatura è a base di succo di
limone o lime, cipolla e peperoncino.
In altri casi, la carne dell’animale si mangia cruda senza
marinatura, come per esempio nel sushi e nel sashimi, tanto di
moda oggi. Questo tipo di rice e è molto più raro con i mammiferi
ma se vi ricordate la scena del banche o del film Indiana Jones e
il tempio malede o in cui viene servito del cervello di scimmia,
beh, sappiate che esistono anche quelle. E anche il cervello di
delfino pare fosse una specialità per ricchissimi del Se ecento.
Il motivo per cui questo tipo di consumo è più diffuso per i pesci
è pratico: le loro fibre muscolari contengono pochissimo tessuto
conne ivo, poiché i muscoli non devono sostenere alcun peso. In
più hanno una stru ura diversa da quella degli animali di terra,
con fibre molto corte. Se è possibile mangiare un trancio di file o
di tonno crudo senza gran difficoltà, nel caso della carne dei
mammiferi la presenza delle fibre muscolari, ricoperte di tessuto
conne ivo, rende necessario qualche tra amento. Ma anche
limitandoci agli animali la cui carne è protagonista di questo libro
troviamo comunque rice e in cui i muscoli vengono consumati
crudi.
STRATEGIE FISICHE DI AMMORBIDIMENTO
Che la vogliate consumare cruda oppure co a, esistono vari
metodi per intenerire la carne, sia di tipo fisico, sia di tipo chimico.
Esaminiamoli brevemente, iniziando da quelli fisici.
Prenderla a martellate
La violenza fisica a volte funziona. Prendere a martellate un pezzo
di carne serve a renderlo più morbido perché spezza le fibre
muscolari e il tessuto conne ivo. È probabilmente uno dei più
antichi metodi usati per ammorbidire la carne. Si narra che i
cowboy, per ammorbidirla prima di cucinarla, me essero la carne
so o la sella. Se sia vero o meno non lo so, ma che sia una
strategia efficace è fuori discussione.
Potremmo certamente utilizzare lo stesso martello che usiamo
per piantare i chiodi, ma è più efficiente utilizzare un pestacarne,
uno degli a rezzi da cucina che meno ha subito variazioni nel
tempo. Lo strumento perme e, distribuendo la forza del colpo su
una superficie più grande, di ammorbidire la carne più
uniformemente, evitando anche il rischio di bucarla. Maggiore è il
diametro, meglio potete regolare la forza del colpo. Per tagli
particolarmente delicati, se si vuole distendere la carne senza
rovinarla, è possibile usare anche il fondo di una padella pesante,
magari di ghisa, come se fosse un ba icarne, avendo cura di
proteggere la carne con un foglio di pellicola per alimenti.
Alcuni ba icarne hanno delle punte per danneggiare
ulteriormente le fibre. Sono il residuo di tempi passati, quando si
era costre i a rompere violentemente le fibre della carne
durissima di animali molto vecchi. Oggi, però, il loro effe o è
troppo distru ivo: rischiate di trovarvi la bistecca piena di buchi.
Il ba icarne può servire anche per uniformare lo spessore di un
taglio, in modo che cuocia in modo più uniforme. Il pe o di pollo
non affe ato, per esempio, ha una forma che richiede una
ba itura leggera per o enere uno spessore regolare e poter essere
poi co o al forno, alla griglia o in padella.
Macinarla
Macinando la carne riusciamo a spezzare sia le fibre muscolari sia
il tessuto conne ivo, rendendola più morbida. Questo vale per
preparazioni co e e crude. La tartare e l’hamburger seguono
questo principio: le fibre muscolari rido e a piccoli pezzi risultano
più tenere. Più si macina la carne e più si riduce la lunghezza delle
fibre. Ovviamente c’è un limite alla capacità di ammorbidimento:
non possiamo pretendere di prendere un taglio molto ricco di
tessuto conne ivo e preparare una o ima tartare. È necessario, se
vogliamo consumarla cruda, utilizzare tagli con poco collagene.
La carne macinata richiede precauzioni di tipo igienicosanitario superiori rispe o ai tagli interi, ed è facile capire perché.
Sulla superficie di un pezzo di carne vi sono sempre dei ba eri. Se
siamo sfortunati, alcuni di questi possono anche essere patogeni.
Fortunatamente, la co ura in padella o al forno nella maggior
parte dei casi elimina il rischio di intossicazioni o mala ie, dato
che la superficie esterna raggiunge temperature superiori ai 100
°C, uccidendo immediatamente ogni microrganismo. L’interno
della carne, nelle co ure rapide a co ura al sangue o media, non
viene solitamente portato a temperature sufficienti a uccidere i
microrganismi patogeni, ma consumando carne di bovino
proveniente da un animale sano i rischi sono molto rido i. Sono
superiori invece se si consuma pollame o maiale non ben co i.
LO SAPEVATE CHE?
Ricordatevi che mangiando un
hamburger con l’interno ancora rosa
avete una probabilità, piccola ma non
nulla, di contrarre qualche mala ia.
Salmonella, Listeria, Escherichia coli…
la lista di ba eri patogeni, anche
mortali, che possiamo assumere col
cibo poco co o è molto lunga.
La carne macinata richiede precauzioni di tipo igienico-sanitario
superiori rispe o ai tagli interi, ed è facile capire perché. Sulla
superficie di un pezzo di carne vi sono sempre dei ba eri. Se
siamo sfortunati, alcuni di questi possono anche essere patogeni.
Fortunatamente, la co ura in padella o al forno nella maggior
parte dei casi elimina il rischio di intossicazioni o mala ie, dato
che la superficie esterna raggiunge temperature superiori ai 100
°C, uccidendo immediatamente ogni microrganismo. L’interno
della carne, nelle co ure rapide a co ura al sangue o media, non
viene solitamente portato a temperature sufficienti a uccidere i
microrganismi patogeni, ma consumando carne di bovino
proveniente da un animale sano i rischi sono molto rido i. Sono
superiori invece se si consuma pollame o maiale non ben co i.
I rischi maggiori, comunque, arrivano dalla superficie esterna
della carne e la macinazione li amplifica: macinando un pezzo di
carne stiamo trasportando i ba eri presenti sulla superficie
all’interno, dove possono proliferare facilmente, specialmente se il
macinato è stato preparato ore o giorni prima e non è stato
refrigerato a dovere. L’interno di un hamburger non potrà mai
raggiungere le temperature superficiali necessarie alla
sanificazione ed è quindi necessario cuocerlo a temperature
interne più alte rispe o a quanto faremmo per un taglio intero. Lo
stesso discorso vale anche per polpe e, polpe oni e ripieni vari.
Per questo motivo gli hamburger nei ristoranti sono co i a
temperature solitamente considerate inacce abili da un
buongustaio. Ovviamente, se andate dal macellaio, scegliete un
pezzo di carne proveniente da un allevamento controllato per
legge da un veterinario, ve lo fate macinare, preparate e cuocete
voi l’hamburger in giornata, i rischi di contaminazione saranno
rido i quasi a zero e potrete anche scegliere una co ura meno
drastica che il classico “ben co o” a 75 °C.
Se volete, potete macinare a casa il vostro pezzo di carne anche
senza avere un tritacarne: è sufficiente utilizzare un robot da
cucina, avendo l’accortezza di inserire pochi cubi di carne alla
volta, di 2-3 cm di spessore, ben raffreddati in freezer per qualche
decina di minuti in modo tale che la carne, senza essere congelata,
diventi sufficientemente dura al ta o. In questo modo, lavorando
a impulsi, le lame taglieranno la carne in piccoli pezzi, altrimenti
rischiate di o enere una pappe a informe e carne stracciata.
Potete macinare la carne fino alla granulometria desiderata, a
seconda della rice a che volete preparare.
LO SAPEVATE CHE?
Nella grande distribuzione possiamo
facilmente trovare la carne di bovino
già macinata e confezionata. Spesso
riporta le denominazioni “da sugo”,
“scelta” e “sceltissima”. Questa
classificazione si basa unicamente sul
contenuto di grasso: più grassa quella
“da sugo”, meno grassa quella “scelta” e
ancora meno la “sceltissima”.
La carne nella confezione può anche provenire da tagli diversi.
Solitamente la macinata da sugo proviene dal quarto anteriore ed
è anche più ricca di tessuto conne ivo, per esempio dal cappello
del prete o dal gere o. La “scelta” e la “sceltissima” invece
provengono di solito dal quarto posteriore, con tagli meno grassi e
meno ricchi di tessuto conne ivo, come la noce o la so ofesa.
Tagliarla
Tagliare la carne nel modo corre o è quasi altre anto importante
del metodo di co ura prescelto. A volte si trovano pezzi di carne
preconfezionati tagliati malissimo: bistecche tagliate lungo le
fibre e non contro le fibre. Oppure alte un centimetro da un lato e
2 dall’altro. In questo modo potete scegliere se ritrovarvi con
un’estremità cruda o con l’altra semicarbonizzata. Ma anche il
taglio che effe uiamo ogni volta che abbiamo nel pia o una
bistecca o un pezzo d’arrosto, è altre anto importante. Al Lo
sapevate che? Nella grande distribuzione possiamo facilmente
trovare la carne di bovino già macinata e confezionata. Spesso
riporta le denominazioni “da sugo”, “scelta” e “sceltissima”. Questa
classificazione si basa unicamente sul contenuto di grasso: più
grassa quella “da sugo”, meno grassa quella “scelta” e ancora meno
la “sceltissima”. La carne nella confezione può anche provenire da
tagli diversi. Solitamente la macinata da sugo proviene dal quarto
anteriore ed è anche più ricca di tessuto conne ivo, per esempio
dal cappello del prete o dal gere o. La “scelta” e la “sceltissima”
invece provengono di solito dal quarto posteriore, con tagli meno
grassi e meno ricchi di tessuto conne ivo, come la noce o la
so ofesa. Al fine di percepire più morbida la carne che
mastichiamo dobbiamo rendere le fibre più corte possibili. Ciò
significa che la carne dovrebbe essere tagliata con il coltello
tenuto perpendicolare alle fibre. Se tagliate lungo le fibre rischiate
di ritrovarvi in bocca un pezzo gommoso. Cercate di osservare la
direzione dei fasci muscolari della carne che avete cucinato, per
capire il modo migliore di tagliarla. A volte, anche per carne già
abbastanza morbida, è consigliabile tagliare le fibre posizionando
il coltello non in verticale sulla carne ma inclinato, in modo da
accorciare ulteriormente le fibre che porterete in bocca.
Ricordatevene la prossima volta che preparerete una tagliata.
TAGLIO INCLINATO (PER UNA TAGLIATA)
Tra are bene l’animale
Iniziamo ora a esaminare alcune strategie di ammorbidimento
che sfru ano, esplicitamente o meno, delle reazioni chimiche. La
prima di queste riguarda il benessere dell’animale: come è stato
tra ato e che cosa ha fa o nelle ore immediatamente precedenti
al suo abba imento, un fa ore importantissimo per il sapore e la
consistenza della carne. Vediamo perché.
La morte di un essere vivente non coincide esa amente con la
cessazione dei processi vitali delle cellule di cui è composto.
Sappiate che nel vostro frigorifero in questo momento ci sono
moltissime cellule vive che svolgono le loro normali funzioni
biochimiche. Sono però quasi esclusivamente cellule vegetali, a
meno che non abbiate in frigorifero anche del pesce appena
pescato. Le cellule animali continuano a vivere per un po’ dopo la
È
morte della bestia, ma non così tanto come quelle dei vegetali. È
questo il motivo per cui alcune tipologie di fru a e verdura, come
patate e mele, possono essere immagazzinate a temperatura e
atmosfera controllate anche per sei mesi o più, mentre dopo pochi
giorni carne e pesce cominciano a puzzare e a deteriorarsi.
Le cellule dei muscoli, a differenza di quelle dei tessuti vegetali,
sono continuamente irrorate di ossigeno. Quando l’animale
muore, l’ossigeno cessa di arrivare e le cellule consumano
velocemente, per il loro metabolismo, tu o quello immagazzinato
nella mioglobina. Ecco perché la carne, con il tempo, diventa di un
rosso scuro: se ricordate è il colore della mioglobina senza
ossigeno.
Per continuare a funzionare, a questo punto, le cellule iniziano a
bruciare glucosio producendo, in assenza di ossigeno, acido la ico,
che non può più essere eliminato. L’acido la ico abbassa il pH
delle cellule da 7 a circa 5,8 e inizia ad a accare le proteine. Più
glucosio è rimasto nelle cellule, più acido la ico sarà prodo o e
più tenera e saporita risulterà la carne.
Ma quanto ne è rimasto nei muscoli? Dipende. Se la bestia
prima di avviarsi al macello era riposata, con i muscoli ancora
ricchi di ossigeno e di glucosio, so o forma di glicogeno, la carne
sarà più morbida.
Se invece l’animale è stato a digiuno, oppure ha faticato, o si è
impaurito e si è stressato, o è stato so oposto a temperature
estreme, i muscoli saranno poveri di glucosio, la quantità di acido
la ico prodo o non sarà quella o imale e la carne raggiungerà
pH troppo bassi oppure troppo alti. Il risultato? Perdita di qualità
e carne meno tenera.
Più che un tra amento per ammorbidire la carne, quindi,
questo è un modo per ridurne l’indurimento.
IL RIGOR MORTIS
Quando l’animale muore, nei muscoli si innesca una
complessa serie di cambiamenti biochimici e biofisici. I
muscoli continuano per un po’ il loro metabolismo ma, in
assenza di ossigeno, le proteine delle fibrille non vengono
più tenute separate e si legano irreversibilmente in quello
che viene chiamato rigor mortis. Durante questo periodo i
muscoli si contraggono e, accorciandosi, aumentano la
durezza della carne. Questo fenomeno dipende da molti
fa ori, tra cui la temperatura a cui viene lasciato l’animale.
L’accorciamento muscolare è minimo a orno ai 15 °C, ma
per evitare la proliferazione ba erica, le carni vengono
tenute a temperature molto basse, causando un
considerevole accorciamento delle fibre muscolari.
Frollare
Quando ero bambino e accompagnavo la mamma o la nonna dal
macellaio, la visita mi lasciava sempre perplesso per via di tu a
quella carne appesa a un gancio, a volte interi quarti o mezzene di
animale, con una serie di timbri blu. Sia nella cella frigorifera, in
cui cercavo sempre di sbirciare, sia, a volte, dietro il bancone. Non
capivo a che servisse appendere la carne e lasciarla così per giorni
prima di venderla. Sicuramente non era un bel vedere per un
bambino e poi, non andava a male?
Quello che allora non sapevo è che la carne ha bisogno di
maturare un po’ dopo la macellazione prima di essere consumata
e che per secoli è stata fa a maturare così, esposta all’aria in un
luogo fresco o addiri ura freddo. È il modo più semplice per
ammorbidirla dopo la morte dell’animale. Questa strategia si
chiama frollatura ed è quello che faceva il macellaio che osservavo
perplesso da bambino. Prima di essere venduta, la carne veniva
lasciata a riposo per un certo periodo, a volte solo per pochi giorni,
a volte più a lungo, e questo aiutava a intenerire i muscoli più duri.
L’ANGOLO CHIMICO
LE CALPAINE E LA CATEPSINA Alla morte dell’animale si
a iva un gruppo di enzimi naturalmente presenti, le
calpaine, che iniziano ad a accare le fibre muscolari.
Le proteine delle miofibrille vengono ro e poco alla
volta, ridando tenerezza al muscolo irrigidito dal
rigor mortis. Purtroppo le calpaine non agiscono sul
collagene; possono però ridurre il numero di legami
tra fibre di collagene adiacenti, facilitando un po’ la
fase di co ura. Le calpaine, una volta a ivate, si
autodistruggono e scompaiono dalla carne dopo due
se imane.
Un enzima molto più stabile, che rimane nella carne più a lungo, è
la catepsina, in grado di rompere sia il collagene sia l’actina e la
miosina. Il suo ruolo durante la frollatura, però, non è ancora stato
ben chiarito.
Entrambe le famiglie di enzimi si denaturano e quindi perdono di
efficacia a temperature superiori a 50 °C.
Una delle conseguenze immediate della frollatura all’aria è
l’evaporazione di una parte dell’acqua contenuta. La carne quindi
perde di peso e i sapori si concentrano. Se la frollatura si limitasse
a far evaporare un po’ d’acqua, però, non sarebbe così necessaria.
In realtà durante questo periodo di riposo entrano in azione
alcuni enzimi presenti nella carne, specialmente le calpaine e le
catepsine, che rompono le proteine delle miofibrille in pezzi più
piccoli, intenerendo il muscolo e producendo amminoacidi liberi
che contribuiscono al sapore. Il tessuto conne ivo, invece, non
viene quasi toccato. Altri enzimi, poi, iniziano a degradare i
trigliceridi in acidi grassi liberi, sviluppando altro sapore.
LO SAPEVATE CHE?
La carne di bovino può essere frollata
per migliorare il sapore e la
consistenza. Quella del maiale e
dell’agnello invece non ne ha bisogno,
perché deriva da animali giovani,
spesso con meno di un anno di vita.
Spesso mi capita, cucinando tagli preconfezionati meno pregiati
del file o, di trovare che la carne sia troppo dura. Come mai? La
frollatura è molto efficace, perché gli enzimi agiscono dall’interno,
e non solo sulla superficie, ma la velocità con cui questo fenomeno
avviene dipende dalla temperatura. A 2 °C, in una cella frigorifera,
gli enzimi ci me ono se imane per intenerire la carne. Purtroppo
però, sempre più spesso, per accorciare i tempi di
commercializzazione e ridurre i costi, la frollatura viene effe uata
per tempi brevi o non viene effe uata affa o. Dal momento in cui
l’animale è macellato a quello in cui la carne è venduta al
supermercato potrebbero essere passati solo pochi giorni, giusto il
tempo che serve per il trasporto dal macello ai grandi centri di
smistamento e poi al punto di vendita al de aglio. Il tu o a
discapito, a mio parere, del sapore e della tenerezza.
Frollatura a secco o dry ageing
Al giorno d’oggi la carne frollata all’aria per varie se imane,
tecnica de a all’americana dry ageing, ha dei costi tali che questa
lavorazione è riservata quasi esclusivamente alla ristorazione.
Pensate che negli Stati Uniti alcuni ristoranti specializzati in
bistecche eseguono personalmente la frollatura in bella vista, in
celle trasparenti a temperatura controllata. I clienti possono
scegliere dire amente il pezzo che desiderano sia cucinato loro.
Durante la frollatura la carne è illuminata da luce ultraviole a per
evitare una proliferazione ba erica indesiderata.
Frollare a secco è più un’arte che una scienza, e determinare il
numero di giorni di frollatura ha più a che fare con un rito voodoo
che con un calcolo scientifico. Ci sono Steak House che frollano da
14 fino a 120 giorni! I pochi studi scientifici effe uati concordano
nel ritenere che una se imana di frollatura non sia sufficiente per
sviluppare al meglio il gusto della carne e che due se imane di
maturazione portino a carne notevolmente migliorata. Perché
allora qualcuno prosegue la frollatura per mesi? La ragione
principale di una lunga frollatura a secco non è rendere più tenera
la carne ma intensificarne e cambiarne il sapore. La carne subisce
delle modificazioni e produce sostanze che non sono presenti
nella carne non frollata.
La temperatura di frollatura è critica: la carne non deve
congelare, perché in questo caso l’a ività degli enzimi coinvolti
cesserebbe. A temperatura ambiente, invece, gli enzimi
lavorerebbero molto meglio, ma la carne a raverserebbe
velocemente il so ile confine tra il frollato e il putrefa o. Quindi
la temperatura di frollatura è di solito tenuta a 2 °C. Anche
l’umidità dell’aria gioca un ruolo importante: troppo alta favorisce
la crescita di microrganismi sulla superficie, troppo bassa rischia
di seccare troppo la carne. Normalmente l’umidità viene
mantenuta a orno all’80%.
LA FROLLATURA UMIDA
Nella frollatura a secco la carne perde di peso grazie
all’evaporazione dell’acqua, con ovvie conseguenze sul
prezzo. In più, alla fine della frollatura la superficie è
diventata una crosta marrone che deve essere eliminata,
riducendo ulteriormente la quantità di merce vendibile.
Negli anni Sessanta si cominciarono a studiare dei metodi
alternativi di frollatura. In particolare gli studi scientifici si
focalizzarono sulla maturazione della carne messa so o
vuoto in sacche i di plastica. Con questo metodo, chiamato
“frollatura umida”, la carne aveva meno problemi di
proliferazione ba erica e, cosa importante dal punto di
vista commerciale, la perdita di peso si riduceva,
diminuendo i costi. Negli anni O anta questo modo di
maturare la carne prese il sopravvento, grazie anche al fa o
che la carne so ovuoto poteva essere commercializzata con
più facilità sui mercati internazionali che non le carcasse
sezionate in quarti o mezzene.
ESPERIMENTO
FROLLATURA A SECCO FAI DA TE
Vi potrà sembrare bizzarro, ma in un’epoca in cui si riscopre il
piacere di fare le cose in casa, a volte anche solo per
divertimento, accanto a coloro che fabbricano saponi e
dentifrici, preparano confe ure, distillano acquavite e
producono birra, ci sono anche persone che provano a frollare
la carne. In realtà è molto semplice, visto che non c’è nulla di
particolare da fare, anche se io sono abbastanza sce ico sul
risultato rispe o ai rischi che si corrono. È fondamentale,
infa i, essere perfe amente certi di rispe are le norme
igieniche, visto che stiamo parlando di carne cruda, terreno di
coltura ada o per ba eri e microrganismi di ogni tipo. Per
evitare una proliferazione ba erica la carne va tenuta all’aria a
0-3 °C, con un’umidità a orno all’80%. In teoria, quindi, il
frigorifero di casa ha la temperatura ada a, specialmente nella
parte più bassa, la più fredda. È però un ambiente troppo secco
e quindi, per mantenere la carne un po’ più umida, qualcuno
suggerisce di avvolgere bene il pezzo di carne con della garza
spessa, in modo che l’aria possa passare ma la carne non sia
esposta dire amente all’aria. Questo dovrebbe anche mitigare
l’odore di carne frollata – che, badate bene, non è carne che sta
marcendo, ma ha comunque un odore piu osto intenso – nel
vostro frigorifero.
Un frigorifero che apriamo continuamente oppure uno un po’
vecchio o, però, potrebbe avere una temperatura interna
superiore ai 4 °C, e in questo caso i ba eri comincerebbero a
proliferare. Se accade, ve ne accorgerete subito dall’odore
sgradevole che si diffonderà nel vostro ele rodomestico
preferito. Quindi, se avete intenzione di provare, procuratevi un
termometro da frigorifero e cercate di non aprire troppo spesso
la porta. Ovviamente sarebbe meglio evitare totalmente la
presenza di altri cibi anche se, mi rendo conto, è difficile, a meno
che non si abbiano due frigoriferi in casa. Anche il ristagno di
liquidi eventualmente persi dal pezzo di carne deve essere
evitato a tu i i costi. È opportuno quindi, nel caso un giorno
vogliate davvero cimentarvi – io, ripeto, ve lo sconsiglio –
sollevare la carne con una griglia metallica dalla teglia su cui
l’avete adagiata.
Inutile dirvi che non stiamo parlando di una fe ina di carne, ma
solitamente di un pezzo impegnativo, magari una fiorentina da
1,5 kg o un controfile o da 3 kg. Quanto tempo potete far durare
l’esperimento? Farlo per meno di 2 giorni non vale la pena,
mentre con 3 o 4 giorni dovreste già vedere qualche differenza
rispe o alla carne non frollata. Con più di 4 giorni, a mio parere,
i rischi di proliferazione ba erica aumentano troppo e il gioco
non vale la candela. Ovviamente, se prima del termine
cominciate a sentire odori ammoniacali, puzza di putrefazione o
altri odori sgradevoli interrompete immediatamente il vostro
esperimento, bu ate via tu o e disinfe ate il frigorifero.
Prima di cucinare il pezzo dovrete, con un coltello, togliete tu a
la parte superficiale. Inutile dire che non potrete certo o enere
gli stessi risultati di un ristorante che ha nel menu bistecche
frollate a secco per più di tre se imane, dato che, come ormai
sapete, una frollatura inferiore a 7 giorni modifica poco sapore e
consistenza della carne.
Il mio consiglio? Spenderete meglio i vostri soldi andando a
mangiare una bistecca frollata da chi lo fa di mestiere. Frollare
la carne è un’a ività per professionisti, impossibile da replicare
a casa.
Precuocere
Abbiamo visto come nella carne siano già presenti degli enzimi
che possono, almeno in parte, ammorbidirla. Ci potremmo
chiedere se sia possibile in qualche modo sfru are la loro azione
anche nelle nostre cucine. La risposta è… forse. Il problema è che
non possiamo sapere se e quanti enzimi sono rimasti a ivi nella
carne che acquistiamo dopo i tra amenti che ha subito. Ma se
sono ancora presenti le calpaine e la catepsina è possibile, almeno
in teoria, me erli al lavoro per intenerire la carne, mantenendola
a temperature di 40-45 °C per alcune ore. La carne non viene co a,
perché a queste temperature collagene e fibre rimangono in gran
parte inta i, ma gli enzimi, ammesso che siano ancora a ivi,
possono svolgere la loro funzione di ammorbidimento.
In una cucina professionale è possibile effe uare un
pretra amento della carne, scaldandola per varie ore a 40-45 °C, in
un sacche o so ovuoto, per poi procedere alla fase di co ura vera
e propria. A casa è comunque possibile sfru are l’a ività di quegli
enzimi, come accade in alcune rice e che sfru ano il forno,
portando molto lentamente pezzi di carne abbastanza grandi alla
temperatura di co ura. Finché la temperatura interna rimane
inferiore a 50 °C, gli enzimi residui continueranno ad agire,
intenerendo la carne.
Marinare
Le marinate sono liquidi o salse contenenti sempre un ingrediente
acido, come yogurt, aceto, vino, succo di limone o di altri fru i, in
cui la carne è tenuta immersa, in frigorifero, per un tempo che va
da un’ora a più giorni.
Lo scopo principale della marinatura è quello di aromatizzare la
carne ed è per questo che è efficace sopra u o quando i pezzi
hanno grandi superfici a cui far aderire gli aromi. Nelle marinate,
infa i, spesso sono aggiunte anche erbe aromatiche e spezie che,
durante il periodo di marinatura, insaporiranno la superficie della
carne arricchendone il gusto. Questo effe o è particolarmente
apprezzato per carni dal sapore più blando, come il pe o di pollo o
alcuni tagli del maiale. Purtroppo l’effe o aromatizzante si limita
alla superficie poiché la penetrazione in profondità di una
marinata è molto lenta, a causa della grandezza delle molecole
coinvolte. E procede per diffusione tanto più lentamente quanto
più è bassa la temperatura. Una marinatura nel vino di un pezzo
di carne tenuto in frigorifero per una no e può penetrare solo di
qualche millimetro. Perché, allora, molte rice e prescrivono di
lasciar marinare la carne anche per 48 ore? La giustificazione che
viene spesso addo a è che le marinate inteneriscono la carne. In
effe i gli acidi sono in grado di denaturare alcune proteine, e così
possono fare l’alcol e altre sostanze. L’effe o è visibile anche a
occhio nudo: forse avrete notato che quando spruzzate un po’ di
succo di limone sulla carne cruda questa diventa più chiara. Ma
ha un effe o anche sulla morbidezza della carne?
CONSIGLIO
Ge ate sempre il liquido di una marinata, non
riutilizzatelo mai a crudo. È un rice acolo di
microrganismi, visto che vi è rimasta immersa
della carne cruda. Se volete utilizzare la
marinata anche per condire la carne,
preparatene di più e tenetene un po’ da parte.
In questo modo quella che porterete in tavola
non sarà contaminata.
Consultando la le eratura scientifica si trovano vari studi sul
presunto effe o di ammorbidimento della carne da parte delle
marinate, ma i risultati sono contrastanti: in alcuni casi sembra
esserci un piccolo effe o, in altri l’effe o è talmente elevato da
rendere la carne una poltiglia immangiabile, in altri ancora non si
è notato alcun effe o. Alcuni studi riportano anche un aumento
della succosità, mentre altri dichiarano di o enere carne più
asciu a. In realtà, leggendo bene gli studi si scopre che spesso non
sono comparabili: c’è chi studia l’effe o su muscoli già
relativamente teneri, come la lombata, e chi sui durissimi muscoli
del collo. Chi per marinare usa il vino e chi il succo d’ananas.
Alcuni di questi studi, poi, non hanno un reale impa o in cucina:
chi mai cuocerebbe un muscolo tenero e da co ure asciu e come
la lombata a 80 °C per 90 minuti o porterebbe una bistecca
internamente a 75 °C?
LO SAPEVATE CHE?
Gli acidi denaturano le proteine e
danno una parvenza di “co ura”, ma in
realtà manca un effe o fondamentale:
la sanificazione che deriva dalle alte
temperature. Non basta immergere la
carne, o il pesce, nel limone per
uccidere tu i i ba eri e i parassiti
eventualmente presenti. Il consumo di
carne o pesci crudi, anche se marinati,
espone sempre a un rischio sanitario.
Su una cosa, però, tu i concordano: anche quando è presente,
l’effe o di ammorbidimento è solamente superficiale, sopra u o
per la carne di bovino, mentre nella carne di pollo la marinata può
penetrare un po’ di più. Quindi, se volete cucinare a co ura veloce
un taglio tenero e pregiato, che non ha bisogno di essere
ammorbidito, e volete solo aromatizzare la carne, è perfe amente
inutile lasciarla marinare per più di un’ora: anche una decina di
minuti possono bastare.
Mi raccomando, la carne immersa nella marinata va sempre
tenuta in frigorifero per evitare proliferazioni ba eriche. C’è chi,
per aumentarne l’effe o, inie a la marinata dire amente nel
pezzo di carne con una siringa, ma non è ancora una pratica
diffusa a livello casalingo.
Per cercare di dipanare un po’ la confusione sul presunto effe o
di ammorbidimento, comunque sempre superficiale, su tagli più
duri, è opportuno suddividere le marinate in categorie diverse a
seconda degli ingredienti che contengono. Questo perché alcune
sostanze possono ammorbidire solo il tessuto conne ivo, altre
solo le proteine delle fibrille, oppure entrambi.
MARINATE SEMPLICI Sono le più diffuse, specialmente nella
cucina italiana. La base acida è spesso il limone o il vino, più
raramente l’aceto diluito. Gli aromi possono variare, ma sono
ininfluenti per la tenerezza della carne e così pure l’eventuale olio
che a volte si aggiunge: non penetrerà nella carne, anche se
contribuirà all’insaporimento superficiale.
Una lunga marinatura nel vino è spesso richiesta da rice e di
brasati, straco i e stufati. L’acidità del vino, dovuta al suo
contenuto di acido malico, citrico e tartarico, è solitamente
inferiore a quella dell’aceto, che contiene acido acetico in
soluzione al 5-7%, solitamente, e a quella del succo di limone, con il
suo acido citrico. Praticamente tu i gli studi concordano nel
ritenere il vino, per i tempi di marinatura tipicamente
raccomandati nelle rice e, quasi ininfluente sulla durezza della
carne. Sia perché, come de o, la marinatura ha comunque un
effe o superficiale, sia perché il suo pH non è abbastanza basso.
Uno dei meccanismi possibili, anche se ancora non certo, per cui
una marinata acida può ammorbidire il collagene è che esso in
co ura si scioglie più facilmente quando è a pH 3-4. Il vino non è
sufficientemente acido, mentre l’aceto pare funzionare molto
meglio: uno studio riporta uno scioglimento del 65% del collagene,
in co ura a 80 °C dopo una marinata, rispe o al 17% o enuto con
del vino rosso. Anche le prove meccaniche per misurare la durezza
della carne confermano che una marinata in aceto è più efficace di
una nel vino rosso.
Non è solo una questione di acidità, però. Le cose sono più
complicate e ancora non chiarite del tu o. Sempre lo stesso
studio, utilizzando del succo di lime a pH 2,5, o iene un
ammorbidimento peggiore di quello o enuto con l’aceto,
nonostante il pH inferiore o forse proprio a causa di questo. Forse
esiste un intervallo di pH o imale, oppure, come ipotizzano altri,
c’è anche un effe o combinato del pH sull’enzima catepsina, che
degrada anche le miofibrille. In a esa di ulteriori studi ricordate
dunque che se avete un pezzo di carne da intenerire davvero,
usare il vino è inutile. Bevetelo e usate l’aceto.
MARINATE CON LATTICINI Avete mai mangiato un pollo
tandoori in un ristorante indiano? Io lo adoro. I pezzi di pollo,
prima di essere arrostiti, sono fa i marinare nello yogurt
arricchito di spezie che donano il cara eristico rosso acceso. È la
marinatura a rendere morbida e mantenere succosa la carne.
Marinature a base di la e cagliato o fermentato, come yogurt,
kefir, la icello e panna acida, sono comuni in molte cucine del
mondo, anche se non in quella italiana. Eppure tu i gli studi
concordano nel ritenerle efficaci. L’acidità blanda data dall’acido
la ico è potenziata dall’effe o dovuto agli ioni calcio contenuti in
questi prodo i. Ci sono indizi che il calcio a ivi l’enzima catepsina
– ormai una nostra vecchia conoscenza – che agisce
principalmente sulle proteine delle miofibrille. In più, l’acido
la ico perme e alla carne di assorbire acqua rendendo la carne
dopo la co ura più succosa. Ecco perché questo tipo di marinate
sono spesso usate per pollo e maiale, che sono sempre a rischio di
asciugarsi troppo.
MARINATE ENZIMATICHE Così come alcuni enzimi già
presenti nella carne possono a accare le proteine e intenerire la
carne, si è scoperto che esistono enzimi di origine vegetale con
proprietà analoghe. Avete mai le o a entamente l’etiche a della
confezione dei fogli di gelatina, la cosidde a “colla di pesce”? Si
usa comunemente per preparare alcuni dessert, come la panna
co a o gli aspic dolci o, semplicemente, le gelatine di fru a.
Tu avia, come ricorda la confezione, non è possibile preparare
gelatine con alcuni tipi di fru a fresca, come l’ananas e il kiwi.
Questo perché la gelatina, ormai lo sapete, è costituita da
tropocollagene e, una volta sciolta a caldo in acqua e lasciata
raffreddare, è in grado di formare un reticolo tridimensionale che
intrappola l’acqua, donando a un liquido acquoso una consistenza
semisolida. Alcuni fru i, come ananas, kiwi, papaia e fichi, e
persino gli asparagi e lo zenzero, contengono degli enzimi –
chiamati proteasi o enzimi proteolitici – che sono in grado di
rompere le proteine. Questi enzimi rompono i filamenti di
gelatina in tanti frammenti non più capaci di creare una stru ura
tridimensionale stabile.
Lo stesso avviene per il collagene che avvolge i fasci muscolari.
Ecco quindi che le marinate a base di ananas, kiwi o papaia
possono ammorbidire la carne sciogliendo parzialmente il tessuto
conne ivo. L’uso degli enzimi proteolitici contenuti nella papaia,
nell’ananas o in altri vegetali ha però uno svantaggio: questi
enzimi sono poco a ivi a temperatura ambiente e si me ono a
lavorare velocemente solo quando la temperatura si innalza. Per
esempio, la papaina contenuta nella papaia è a iva tra 50 e 80 °C,
temperature raggiunte solo in fase di co ura, quando è difficile
controllare l’a ività dell’enzima e si corre il rischio di o enere una
pappe a informe o delle grandi disomogeneità di consistenza nel
pezzo di carne che si sta cucinando. Per questo motivo gli enzimi
proteolitici sono scarsamente utilizzati nella cucina tradizionale,
se non per carni eccezionalmente dure.
PAPAINA BROMELINA FICINA
(PAPAIA) (ANANAS)
(FICO)
TEMPERATURA
65-75 °C
OTTIMALE
pH OTTIMALE
4–6
ATTIVITÀ
SULLE
eccellente
MIOFIBRILLE
ATTIVITÀ SUL
eccellente
COLLAGENE
50-70 °C
60-70 °C
5–6
7
moderata
moderata
eccellente
moderata
MARINATE SALATE L’obie ivo di una marinatura acida è
quello di denaturare parzialmente le proteine in superficie
perme endo al liquido aromatico di penetrare un po’ nella carne.
Come vedremo nel prossimo capitolo, la presenza del sale
perme e all’acqua di penetrare più in profondità nelle fibre.
Quindi, se volete amplificare l’effe o di una marinata dei tre tipi
già visti, aggiungete del sale.
ESPERIMENTO
ENZIMI MANGIAPROTEINE
Vi propongo un semplice esperimento da fare in casa per vedere
con i vostri occhi l’effe o degli enzimi proteolitici contenuti in
kiwi, papaia e ananas. Usate i fogli di gelatina secondo le
istruzioni della confezione per gelificare un bicchiere d’acqua.
Usate un bicchiere di plastica per facilitare l’uscita della
gelatina una volta solidificata. Ponete la gelatina, a temperatura
ambiente, su un pia o e depositateci sopra una fe a di kiwi
fresco appena tagliato. L’enzima proteolitico del kiwi,
l’actinidina, a conta o con la gelatina pian piano comincerà a
distruggere il reticolo tridimensionale del collagene. Nel giro di
mezza giornata vedrete la gelatina dissolversi in una pozza
d’acqua so o i vostri occhi. Per questo motivo se volete
preparare una gelatina a partire da ananas o kiwi freschi dovete
prima disa ivare quegli enzimi, per esempio scaldando il succo
che volete gelificare. L’enzima portato a temperature superiori a
80 °C viene denaturato, perde le sue proprietà e si può quindi
procedere alla gelificazione.
Inizio dell’esperimento. [FOTO 1]; Dopo 12 ore a temperatura ambiente. [FOTO 2]; Dopo
24 ore. [FOTO 3]
Gli enzimi proteolitici possono avere un effe o drammatico su
un pezzo di carne, come potete osservare con un altro
esperimento. Questa volta prendete un paio di fe e di ananas
fresco, non in la ina, i cui enzimi proteolitici hanno un’azione
più forte di quelli del kiwi. Se avete già in casa una papaia da
sacrificare al posto dell’ananas va ancora meglio. Riducete la
fru a in poltiglia con un frullatore e spargetela su di una
bistecca, ovviamente cruda, adagiata su un pia o [FOTO 1].
L’enzima dell’ananas, la bromelina, agisce più velocemente se
portato a temperature superiori a 40 °C, quindi vi consiglio di
intiepidire il forno e lasciarvi dentro a riposare la bistecca con
l’ananas per qualche ora. Alla fine dell’esperimento potrete
constatare come la carne si sfaldi anche toccandola,
le eralmente, con un grissino, poiché il collagene che avvolgeva
come una guaina le fibre dei fasci è stato completamente
degradato dagli enzimi [FOTO 2].
Il più potente enzima proteolitico scoperto finora, sfru ato
anche commercialmente, è stato trovato nella papaia, la
papaina. Questo enzima agisce a caldo ed è venduto puro in
soluzione, pronto per essere inie ato in pezzi di carne di
animali particolarmente duri, come il toro o il bisonte. Siringato
dire amente nelle carni può, se lasciato agire a temperature
superiori ai 50 °C, ammorbidire notevolmente anche muscoli
durissimi.
Negli ultimi anni si sono scoperti enzimi proteolitici anche in
altri fru i, come i fichi, e in altri vegetali, come gli asparagi e lo
zenzero. Le loro proprietà non sono ancora perfe amente note
ma potete cimentarvi in qualche esperimento preparando degli
estra i da utilizzare per marinare la carne, stando a enti a non
distruggere l’enzima portandolo a temperature troppo elevate. È
interessante notare come molte rice e tradizionali di carne e di
pesce dei Paesi tropicali utilizzino l’ananas e la papaia come
ingredienti. Quando Cortes incontrò i nativi messicani osservò
che erano usi ammorbidire la carne avvolgendola nelle foglie di
papaia, anch’esse contenenti l’enzima. E nell’antica Roma i fichi
erano spesso utilizzati nei pia i di carne. Forse in modo
inconsapevole nell’antichità avevano già scoperto l’effe o degli
enzimi proteolitici.
RICETTA
HAMBURGER
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come la macinazione di un
pezzo di carne grassa e ricca di tessuto conne ivo cambi
significativamente la sua consistenza e la renda ada a a
una co ura veloce e asciu a.
Quando ero bambino non esistevano gli hamburger. Non in Italia,
almeno. Anche se ogni tanto in qualche telefilm americano
facevano capolino, né io né i miei amici avevamo mai chiamato
così delle polpe e di carne macinata a forma di disco volante,
co e su una piastra o in padella. Quelle per noi erano le “svizzere”.
Mi piacevano molto. Mia mamma e mia nonna le acquistavano dal
macellaio e le cucinavano in padella ma, a differenza di quello che
vedevo nei telefilm americani, non le me evo in un panino con
insalata, maionese, pomodoro e un sacco di altre cose: le mangiavo
nel pia o con qualche contorno.
Dalle mie parti soltanto da qualche vecchio macellaio trovo
ancora i cartellini sui banconi con scri o “svizzere”, ma più spesso
ormai al supermercato vedo i dischi di carne macinata – le pa ies,
così vengono chiamate – con la scri a “hamburger”, già
confezionati. A volte persino aromatizzati. Alcuni sono di qualità
acce abile, qualcuno è buono, molti sono pessimi. La stessa cosa
si può dire anche di quelli acquistati dal macellaio e il motivo è
semplice: spesso vengono macinati pezzi di carne avanzati quel
giorno o il giorno precedente da tagli più grandi. Magari la fine di
un file o o di fesa, scamone, girello, punta di pe o e così via. In
genere non è possibile sapere con che tagli di carne siano stati
preparati e che contenuto di grassi abbiano.
Gli hamburger devono essere preparati con carne piu osto
grassa, a orno al 20%. Nella carne macinata le fibre sono state
parzialmente spezzate, quindi in co ura perde più acqua di un
taglio intero. L’hamburger rischia dunque di essere molto asciu o,
specialmente se ben co o. Ecco perché è meglio che la carne con
cui viene preparato sia abbastanza grassa: per lubrificare e
controbilanciare la perdita d’acqua.
La carne del quarto posteriore è solitamente più saporita di
quella del quarto anteriore, ma è anche più magra. Ecco perché
non è una buona idea usare della carne macinata preconfezionata
denominata “scelta” o “sceltissima”: l’hamburger risulterebbe
troppo magro. La carne macinata proveniente dal quarto
anteriore, come la punta di pe o o il reale, è da preferire. Oppure
potete mescolare due tagli, in modo da apportare sapore con il
quarto posteriore e grasso col quarto anteriore.
INGREDIENTI
PER 4
HAMBURGER
1/2 kg di carne
sale
PROCEDIMENTO
1
Se decidete di macinare voi la carne cercate di non sminuzzarla né
troppo né troppo poco. Una trita troppo grossolana può essere
ada a per un ragù ma in bocca, in un hamburger, non avrà la
consistenza ada a. D’altra parte, macinare troppo finemente
porta a una stru ura troppo compa a della polpe a di carne,
senza lasciare spazi vuoti al suo interno. La granulometria ideale è
quella che perme e alla carne di rimanere coesa durante la
co ura, senza sbriciolarsi, ma lascia comunque un po’ di spazio tra
i vari pezze ini. Quando i succhi della carne cominceranno a
fuoriuscire in co ura, rimarranno nelle cavità lasciate dalla giusta
macinazione, mantenendo succoso l’hamburger.
2
Su un vassoio me ete la carne macinata. Non aggiungete sale. La
carne trita al ta o risulta più appiccicosa di un pezzo di carne
intero. Durante la macinazione, infa i, vengono liberate alcune
proteine che danno al macinato questa cara eristica. La loro
funzione è preziosa, perché ci perme e di costruire e tenere
insieme l’hamburger senza usare altri ingredienti, come le uova,
usate invece in polpe e e polpe oni. Il sale scioglie le proteine
nell’acqua liberata dalla macinazione, quindi aggiungerlo alla
carne macinata prima della co ura porta a un aumento di
collosità e, alla fine, a un’eccessiva compa ezza dell’hamburger.
3
Con le mani dividete delicatamente la carne in qua ro parti,
senza schiacciare, e per ognuna cercate di o enere un disco alto
1,5-2 cm, non di più. Lavorate delicatamente e velocemente, senza
pressare troppo. L’interno non deve essere denso. Non
preoccupatevi se le prime volte non vi vengono dei dischi perfe i.
Cercate di lavorare poco la carne per evitare di compa arla
troppo.
4
Meglio un hamburger dalla forma un po’ sgraziata, ma succoso,
che un disco perfe o ma troppo compa o. Poiché in co ura
l’hamburger può restringersi e gonfiarsi un po’ al centro, potete
scavare con il pollice una piccola fosse a al centro in modo che,
dopo la co ura, l’hamburger risulti quasi pia o. Me ete le
polpe e o enute in frigorifero per un’ora: il grasso diventerà più
duro e manterranno più facilmente la stru ura in co ura.
5
Quando decidete di cuocerle, togliete le polpe e dal frigorifero.
Non è necessario aspe are che arrivino a temperatura ambiente.
Ora potete salarle sulla superficie. Scaldate una padella o una
piastra; la temperatura deve essere sufficientemente alta da
vaporizzare velocemente, ma non istantaneamente, una goccia
d’acqua. Una padella di ghisa è l’ideale, anche se non può sostituire
la griglia.
6
Depositate uno o più polpe e sulla padella. Niente olio. Non
preoccupatevi: il grasso della carne impedirà che si a acchi. Avete
preso della carne macinata grassa, vero?
7
Non vi azzardate a schiacciare con una spatola l’hamburger. Sì, lo
so che avete visto spesso chi lo fa, ed è anche scenografico sentire
quei sibili e quel vapore che si solleva, ma facendolo bu ereste
solo via tanti saporiti succhi.
8
Cuocete 4 minuti per lato. Il tempo dipende ovviamente dallo
spessore della vostra polpe a e da quanto la volete cuocere al
centro, se la volete rosata oppure no.
9
Togliete l’hamburger dalla padella e lasciatelo riposare per un
minuto o 2 prima di me erlo nel panino preparato con quello che
vi piace. Se siete a corto di idee e non volete affogarlo nel ketchup,
provate la rice a seguente, di Virginia Gaspardo (La Viz).
HAMBURGER CON MELANZANE E RICOTTA SALATA
INGREDIENTI 1/2 kg di carne
1 melanzana media
100 g di rico a salata in 1 pezzo
3 cucchiai di maionese
2 cucchiaini di harissa
olio extravergine di oliva
prezzemolo
sale grosso
pane a fe e con la crosta croccante
PROCEDIMENTO
Una volta preparati gli hamburger per la co ura, tagliate a
dadini piccolissimi una melanzana, salvando solo 8 fe e
intere e so ili, con cui preparerete delle chips. Le fe ine
tagliatele dalla parte più stre a della melanzana.
Cospargete la melanzana di sale e me ete il tu o a
sgocciolate in uno scolapasta. Tagliate a dischi o a scaglie
grosse la rico a salata e tenetela a disposizione. In una
ciotola, lavorate al cucchiaio la maionese con l’harissa. A
questo punto asciugate molto bene le melanzane e me ete
a scaldare una padella con un po’ di olio. Versatevi i cube i
di melanzane, un po’ per volta, e spadellate. Appena
prendono colore toglieteli dal fuoco e teneteli al caldo su un
pia o. Terminati i cube i nella stessa padella aumentate il
volume dell’olio e friggete le fe ine di melanzana.
Diventeranno croccanti e dorate. Asciugatele leggermente
usando della carta assorbente da cucina. Dopo aver co o la
carne è ora di comporre il panino: fate scaldare leggermente
il pane e spalmatevi sopra la crema di maionese e harissa.
Me ete poi l’hamburger, le melanzane a cube i, la rico a
salata e un filo di olio. Completate il pia o con le chips di
melanzana e del prezzemolo.
LA SUCCOSITÀ
Se masticate un pezzo di carne cruda a temperatura
ambiente non riuscirete a far uscire molti succhi. E questo
perché l’acqua contenuta – ricordatevi che è il primo
componente – è in gran parte intrappolata nelle fibre
oppure stre amente legata alle proteine. A mano a mano
che la temperatura aumenta, superati i 60 °C il collagene si
contrae e i succhi vengono rilasciati, fino a essere persi
completamente quando si superano i 75 °C.
Esiste quindi una temperatura o imale che dona alla carne la
succosità massima: l’acqua è appena stata liberata dai suoi legami
con le proteine e le fibre ma non è ancora fuoriuscita
completamente, e aspe a solo il nostro morso. Per la carne bovina
questa temperatura è intorno ai 50-55 °C, corrispondenti alla
co ura al sangue.
La temperatura interna di 60 °C, grado più grado meno, fa
quindi da spartiacque. Fino a 60 °C la carne si mantiene succosa,
ma ha la durezza o la tenerezza conferite dalla stru ura del
muscolo da cui proviene, con il suo contenuto di collagene ancora
È
inta o. È quindi necessario, per co ure che non superano queste
temperature, usare tagli teneri e abbastanza poveri di tessuto
conne ivo. Si tra a di co ure abbastanza brevi e a calore intenso,
volte più che altro a brunire l’esterno della carne.
Se le temperature superano i 65-70 °C, l’acqua inesorabilmente
esce dalla carne. È quindi un peccato usare tagli teneri. Se i tagli,
invece, sono duri possiamo solo usare co ure lente, a temperature
superiori a 70 °C, per sciogliere il collagene e ridare un po’ di
morbidezza; non potremo però far rientrare i succhi persi.
Ogni taglio di carne quindi, con le sue cara eristiche, deve
essere co o con le tecniche più appropriate. Non esiste un metodo
di co ura universale proprio perché i tagli di carne sono così
diversi gli uni dagli altri e ogni co ura è comunque un
compromesso tra l’esigenza di tra enere i succhi e quella di
sciogliere il collagene. Che sia però il miglior compromesso.
IL RIPOSO DELLA CARNE
Il vostro arrosto è pronto. La temperatura interna è quella
desiderata, la crosticina sembra proprio bella asciu a e croccante.
Lo togliete dal forno e lo posizionate sul tagliere per affe arlo e
servirlo. Fermatevi un a imo, però, prima di affondare il coltello.
Pensateci: prima della co ura l’acqua dei muscoli era intrappolata
nelle fibrille. Durante la co ura la forma di questi filamenti si è
alterata, accorciandosi. Una parte dell’acqua si è staccata dalle
proteine ed è ora libera di scorrere nello spazio creato dalla
coagulazione delle proteine delle fibre. Ormai sappiamo che più la
temperatura è alta e più i succhi vengono liberati. Poiché gli strati
immediatamente so o la crosta hanno una temperatura più alta
rispe o al cuore, avranno anche perso più acqua.
Data la vicinanza con la crosta, asciu a e a temperature
superiori ai 100 °C, l’acqua lasciata libera sarà parzialmente
evaporata. Se ora fate a fe e la carne, tu a quell’acqua rilasciata
ma ancora contenuta tra le fibre sarà libera di sfuggire, formando
una pozzanghera di succhi sul tagliere o nel pia o. Se vi capita,
dovete assolutamente raccogliere il liquido e me erlo sopra le
fe e nel pia o da portata con cui servirete l’arrosto: verrà
parzialmente riassorbito.
Per limitare questo inconveniente basta far riposare la carne
dopo la co ura, per lasciare il tempo ai succhi liberati in
precedenza di essere parzialmente riassorbiti. Se il pezzo di carne
è particolarmente grande però, ricordatevi che durante il riposo la
temperatura al cuore continuerà a salire, quindi meglio togliere
l’arrosto dal forno quando ha raggiunto 3-5 °C in meno della
temperatura desiderata al centro.
I succhi si ridistribuiscono dal cuore verso la superficie. Questo
significa che, con il passare del tempo, la crosticina potrà
ammorbidirsi e non essere più bella croccante, specialmente se si
copre l’arrosto con un foglio di alluminio per ridurre la dispersione
di calore, tra enendo però anche il vapore. In alcuni arrosti a mio
parere la crosticina può anche diventare un po’ morbida, quindi
possiamo far riposare la carne 10-15 minuti. C’è chi suggerisce
anche mezz’ora, ma francamente mi sembra sin troppo: il
riassorbimento dei liquidi avviene prevalentemente nei primi 10
minuti.
Lo stesso fenomeno si presenta quando cuciniamo una bella
bistecca. Aspe iamo o la mangiamo subito? Una bistecca ha una
superficie maggiore, a parità di volume, di un arrosto e la
crosticina secondo me è fondamentale per l’esperienza
gastronomica, quindi preferisco non correre il rischio di
ammorbidirla aspe ando troppo, specialmente se è chiusa in un
foglio di alluminio. Un paio di minuti, per una bistecca piu osto
alta, possono bastare. A meno di preparare una tagliata, quando
mangiate una bistecca non la affe ate completamente, ma
iniziate tagliando un pezzo della parte esterna. Mentre ve la
gustate e la tagliate, via via i succhi hanno il tempo di
ridistribuirsi. Se ne escono un po’, con la forche a e un pezzo di
carne infilzato potete recuperarli. Con più di 5 minuti di riposo
rischiate di avere la superficie della bistecca tiepida. Se invece
cucinate una fe ina di meno di un centimetro non ha senso
aspe are neanche un minuto. E se avanzano succhi nel pia o, non
c’è niente di meglio della scarpe a.
MITI CULINARI
Se prendete in mano un libro di cucina o una rivista specializzata,
se ascoltate una trasmissione a tema gastronomico o leggete un
sito web a tema culinario, vi sarete accorti che spesso le rice e
vengono accompagnate da consigli, trucchi e accorgimenti tecnici
vari. Alcuni sono veri, altri sono falsi, altri sono palesemente
assurdi: credete davvero che me ere un turacciolo di sughero
nell’acqua di co ura serva ad ammorbidire un polpo? O che la
maionese impazzisca solo perché la cuoca ha le mestruazioni?
Nonostante la falsità, alcuni di questi consigli continuano a
sopravvivere, trascri i da rice a a rice a, copiati e ricopiati senza
spirito critico. Cucinare è un’a ività principalmente pratica,
“sperimentale” direi. Sarebbe lecito quindi pensare che con gli anni
i ca ivi consigli siano spariti da soli, eliminati dalla pratica
quotidiana dei cuochi. Così non è invece. Uno dei motivi del
persistere di quelli che io chiamo “miti culinari” è probabilmente
l’a itudine che generalmente si ha verso le rice e: si cerca di
replicarle alla le era senza chiedersi il perché delle cose.
Sopra u o in un Paese come l’Italia che ha il culto, forse un poco
ossessivo, della propria tradizione gastronomica.
Il modo migliore per verificare se un consiglio funziona
veramente è cucinare due pia i, uno seguendo la rice a alla
le era, l’altro tralasciando il consiglio “sospe o”, per poi misurarne
le cara eristiche finali, anche con un confronto in cieco se
necessario, cioè facendoli assaggiare a qualcuno che non sa nulla
di come avete preparato i due pia i. Questo però non viene quasi
mai fa o, e i miti persistono. In altri casi il mito sopravvive perché
in realtà è ininfluente ai fini della preparazione. Pensate al
turacciolo citato sopra: se, per esempio, la sua aggiunta rendesse
molto amaro il polpo, questo consiglio non sarebbe sopravvissuto
a lungo. Invece è semplicemente ininfluente e molti aggiungono il
turacciolo perché “tanto male non fa”. Una superstizione
inconscia, insomma.
Così come ho fa o nel libro La scienza della pasticceria
(Gribaudo, 2015), dove ho mostrato per esempio come il vecchio
consiglio della nonna di aggiungere il sale per montare gli albumi
è addiri ura deleterio per la stabilità delle meringhe, anche in
questo libro ho deciso di sfatare alcuni miti culinari che
riguardano la carne, nella speranza di riuscire a eradicarne
almeno qualcuno e a convincervi che, nonostante le indicazioni
della tradizione, le rice e devono sempre essere guardate con
occhio critico e scientifico, chiedendosi il perché di una
prescrizione e senza avere paura di cambiarle se si scopre un
errore.
SIGILLARE LA CARNE PREVIENE LA PERDITA DEI
SUCCHI?
Cominciamo con un mito che, ironia della sorte, ha origine proprio
dal suggerimento di un famoso scienziato. Avrete sicuramente
sentito dire che sigillare la carne previene la perdita dei suoi
succhi. Per sigillatura si intende una rosolatura o sco atura veloce
della superficie esterna di un pezzo di carne, per poi continuare la
co ura a temperature più basse, sia in padella che nel forno, alla
brace o in pentola. L’idea di fondo è che la sigillatura produca una
crosticina che, in qualche modo, riesce a tenere imprigionati i
succhi della carne durante la co ura.
FALSO La sigillatura della carne non previene la perdita dei
succhi che, come ormai sapete, dipende solamente dalla
temperatura raggiunta internamente. È interessante però
rintracciare l’origine di questa idea, apparentemente sensata
perché si rifà alla tecnica di cauterizzazione delle ferite. Sebbene
non fosse stato il primo a enunciarla, fu un chimico molto famoso,
Justus von Liebig, a sostenerla nel 1847 e a diffonderla in tu o il
mondo utilizzando argomentazioni e ipotesi scientifiche.
Scienziato versatile e capace, Liebig a un certo punto della sua
carriera decise di occuparsi delle piante e degli animali,
studiandone la chimica. Fu il primo a concepire l’importanza
dell’azoto e dei sali minerali nella crescita delle piante, ge ando
così le basi della moderna agricoltura basata sui fertilizzanti
chimici. I suoi studi sulla carne lo portarono a inventare un
processo per produrre il noto “estra o di carne Liebig” che lo rese
famoso ben oltre la cerchia degli scienziati. Ancora oggi potete
trovare nei supermercati essenzialmente lo stesso prodo o con lo
stesso nome. Nel 1847 pubblicò il libro Chemische Untersuchung
uber das Fleisch und seine Zubereitung zum Nahrungsmi el
(Indagine chimica sulla carne e sulla sua preparazione), un
riassunto delle sue ricerche sulla chimica della carne. Fu in quel
libro che, tra le altre cose, enunciò la teoria che la superficie della
carne, esposta ad alte temperature, si potesse sigillare, impedendo
successivamente ai succhi di cuocere. Liebig fece probabilmente
una estrapolazione troppo audace a partire dalle proprietà
dell’albume. Quando si scalda il bianco d’uovo questo, da
trasparente semiliquido, diventa bianco, semisolido e
impermeabile all’acqua. All’epoca l’albume era considerato il
prototipo delle cosidde e “sostanze albuminoidi”, che ora noi
chiamiamo proteine, ma non si sapeva nulla né della loro
stru ura né delle loro differenti proprietà.
La grande fama di cui godeva Liebig fece immediatamente
acce are questa teoria anche dai cuochi che nei decenni
successivi cambiarono alcuni modi tradizionali di cucinare la
carne per incorporare ciò che sembrava essere una verità
scientifica inconfutabile. Auguste Escoffier, il famoso chef
francese, addiri ura citò Liebig nel suo libro Le Guide Culinarie
del 1903.
L’errore di Liebig, abbastanza grave per uno scienziato, fu quello
di non aver so oposto le sue idee a una verifica sperimentale. In
fondo, non sarebbe stato molto difficile: bastavano due padelle,
due bistecche, una bilancia e un termometro. Fa o sta che il mito
della sigillatura cominciò a diffondersi e ancora oggi viene
insegnato nelle scuole di cucina.
Molti si stupiscono, e qualche chef si infastidisce pure, per
l’interesse che recentemente chimici e fisici hanno mostrato verso
la buona cucina. Sembra una cosa quasi sacrilega per chi è
abituato ad associare la cucina più all’arte che alle molecole. Una
tardiva invasione di campo. Costoro sbagliano: gli scienziati si
sono sempre interessati al cibo. Pensate a Pasteur, o a Benjamin
Thompson, o a Liebig stesso. Esistono riviste scientifiche dedicate
alla chimica degli alimenti fondate quasi un secolo fa. E ogni mese
vengono pubblicati centinaia di articoli scientifici dedicati ad
aspe i diversi dell’alimentazione e della gastronomia, casalinga,
professionale e industriale. Il problema, semmai, è che questi due
mondi, i cuochi da una parte e gli scienziati dall’altra, non si
parlano quasi mai. Anzi, spesso si ignorano, a parte qualche
eccezione.
Agli inizi del Novecento il ministero dell’agricoltura americano
lanciò un programma di studi, tramite le sue stazioni scientifiche,
per avvicinare scienziati e cuochi, sia casalinghi sia professionisti.
Il proge o1, chiamato “Studio dei fa ori che influenzano la qualità
e l’appetibilità della carne”, prevedeva uno studio scientifico
accurato dei vari fa ori che vanno a incidere sulla qualità della
carne che finisce nei nostri pia i. Lo studio prevedeva varie fasi:
dall’analisi dei mangimi a quello dei metodi di macellazione fino
alla, importantissima, analisi dei metodi di co ura dei vari tipi di
carne. Gli scienziati si sono preoccupati di confrontare il gusto
della carne co a in modi diversi e a temperature diverse. Negli
ultimi anni è diventato alla moda cuocere alcuni pezzi di carne a
basse temperature per molte ore. Nulla di nuovo, veniva già
suggerito nel 1932. Dopo tu o la tecnica era stata inventata da
Benjamin Thompson, il Conte Rumford, alla fine del Se ecento!
Gli scienziati misero particolare cura nel redigere protocolli molto
precisi per poter confrontare in modo accurato carni di animali
diversi e giungere a conclusioni generali sui principi fondamentali
delle co ure, in modo da poter sviluppare metodi applicabili
anche a livello casalingo.
Vi starete chiedendo perché vi racconto tu o questo. Non
dovevamo parlare della sigillatura della carne? Ci arrivo. Ecco il
paragrafo chiave: «All’inizio di questo proge o venne acce ato il
principio di sigillare l’arrosto all’inizio della co ura nel forno
caldissimo. Era un’idea prevalente, da lungo tempo, che solamente
con la sigillatura i succhi potessero essere tra enuti durante la
co ura. Alcuni anni or sono tu avia, la stazione del Missouri
dimostrò come la perdita dei succhi, per la carne di manzo,
addiri ura aumentava a causa dall’alta temperatura usata nella
sigillatura. Recentemente questo dipartimento ha confermato
questa scoperta anche per la carne di maiale e di agnello».
Insomma, già nel 1932 l’idea di Liebig era stata fa a a pezzi. Gli
esperimenti controllati avevano mostrato che l’ipotesi del famoso
scienziato era sbagliata. Ciononostante, il mito della sigillatura
sopravvive tu ’ora nelle cucine di mezzo mondo. Nel corso dei
decenni successivi altri scienziati verificarono con misure precise
che la perdita di succhi dalla carne dipende solamente dalla
temperatura raggiunta internamente e che non c’è sigillatura che
tenga.
Anche recentemente, lo scri ore Harold McGee, autore del libro
On Food and Cooking: The Science and Lore of the Kitchen
(Scribner, novembre 2004), senza dubbio la “Bibbia” della scienza
in cucina, ha descri o un suo esperimento casalingo, che mostra
come la sigillatura faccia in realtà perdere più succhi. E più è alta
la temperatura, più la carne liquidi perde.
Come mai questo mito è sopravvissuto fino a oggi? Sicuramente
perché so oporre la carne ad alte temperature, come abbiamo già
visto nel capitolo dedicato alla reazione di Maillard, produce molte
molecole gustose. E quindi, gastronomicamente parlando, il
consiglio è un successo. Ma per il motivo sbagliato, ed è
importante, cucinando, capire esa amente il significato di tu e le
azioni che si compiono. Ricordatevi: la succosità interna della
carne dipende solamente dalla temperatura raggiunta e non dalla
presunta sigillatura esterna.
LA PAROLA AI GIURATI Non vi fidate delle misurazioni
ase iche degli scienziati? Bene, allora lasciamo spazio all’accusa,
seguendo le prove che chiunque può raccogliere me endo una
bistecca in una padella rovente.
«Vostro onore, vorrei sottoporre all’attenzione della corte la prima
prova: una bistecca appena adagiata sulla padella. Sentite il sibilo?
Vedete il vapore che si sviluppa furioso? Ricordo ai signori giurati che
la bistecca è stata accuratamente asciugata prima di porla nella
padella. Da dove viene allora il vapore? Dai succhi interni! Vapore che
continua a svilupparsi anche dopo che la famosa crosticina si è formata.
Osservate ora la seconda prova: abbiamo girato la bistecca, e il lato
superiore mostra una deliziosa crosticina marrone. Ma guardate
meglio: vedete come i succhi dopo un po’ affiorino in superficie? E
questo fatto, signori della giuria, è ben noto ai cuochi, perché quando i
succhi affiorano, è un segno che internamente la cottura è al sangue.
Come potete, signori cuochi, credere al mito della sigillatura della
carne e contemporaneamente aspettare che i succhi affiorino per
indicare la cottura? Se la carne venisse veramente sigillata i succhi non
affiorerebbero mai! Sottopongo ora all’attenzione della corte la terza
prova: una bistecca cotta. È stata lasciata riposare nel piatto per
qualche minuto. Vedete come il fondo del piatto si è riempito di gustosi
succhi rosso-bruni? Ma non doveva essere sigillata? Come hanno fatto a
passare la supposta impenetrabile crosticina? E ora una prova
schiacciante: guardate nella padella. Li vedete, i fondi? Quei grumi
appiccicaticci che l’abile cuoco sa deglassare con vino o altri liquidi. Da
dove sono arrivati quei residui? Ma dai succhi, ovviamente! A contatto
con la padella rovente l’acqua è evaporata, sibilando, e i residui non
volatili sono rimasti attaccati al metallo.
Da ultimo, signori della giuria, ricordate che durante la cottura il
vapore non ha mai smesso di svilupparsi, nonostante la presunta
capacità della sigillatura di bloccare ermeticamente i succhi all’interno.
Che cos’è questo vapore, se non succo che viene vaporizzato? Signori
giurati, la mia arringa è terminata. Credo che a questo punto non
possiate più avere dubbi. La condanna deve essere chiara e netta. La
verità, scientifica e gastronomica, deve prevalere sempre.»
La giuria si ritira per decidere.
«In piedi! La giuria, dopo aver valutato sia le prove scientifiche, sia
quelle gastronomiche, dichiara il mito sotto accusa, “sigillare la carne
riduce la perdita di succhi”, falso.
La pena comminata è l’oblio dalle cucine. Che il cuoco sappia sempre
cosa sta accadendo nella sua padella. Concede tuttavia le attenuanti
generiche poiché, seppur per il motivo sbagliato, questo procedimento
è quasi sempre di beneficio in cucina. Scompaia dunque il mito dalle
cucine, ma non l’esposizione della carne alle alte temperature, che
grazie alla reazione di Maillard rende la carne molto più appetitosa.»
Insomma, rosoliamo pure la carne, è cosa buona e giusta, ma
poiché questo non impedisce ai succhi di uscire sme iamo di
usare il termine “sigillare”.
1 Alexander, Lucy M., Cooperative Meat Investigations Summary of Results
of Cooking Meats in Proceedings of the American Society of Animal Nutrition
(1932), pagg. 303-311.
ESPERIMENTO
COSA SUCCEDE SE SALIAMO LA BISTECCA
Salate le bistecche prima di cucinarle? Sto parlando di fe e di
carne alte almeno un centimetro, non delle classiche fe ine che
devono essere appena sco ate in padella. Se non lo fate, forse è
perché temete che il sale possa estrarre i succhi della carne e
renderla asciu a, trasformando una costata succulenta in una
suola di scarpe.
La salatura della carne è un metodo di conservazione la cui
origine si perde nella no e dei tempi. Già i Sumeri 5.000 anni fa
usavano il sale per conservare carni e pesci, e il sale del Mar
Morto veniva usato 3.500 anni fa con questo scopo dalle
popolazioni locali. In epoca Romana l’uso della carne salata,
appreso dai Greci, era comune.
Ora, con lo sviluppo di altri metodi di conservazione meno
invasivi come la refrigerazione o la conservazione so o vuoto,
la salatura è un processo usato quasi solo per conservare e dare
sapore ai salumi. È però un metodo utile per alterare le
proprietà della carne prima della co ura.
La salatura, effe ivamente, oltre che per inibire la
proliferazione ba erica e per insaporire, viene usata nella
preparazione dei salumi anche per estrarre l’acqua, che evapora
più facilmente dopo essere stata trasportata in superficie dal
sale. Un prosciu o può perdere il 4% del peso nelle prime 2
se imane di salagione e anche il 10% nei 3 mesi successivi.
Stiamo quindi parlando di un processo che avviene molto
lentamente: servono se imane o addiri ura mesi e una
quantità notevole di sale distribuito sulla superficie. Di sicuro il
tempo che intercorre tra la salatura e la co ura di una bistecca
non è sufficiente a disidratare la carne. Il sale, però, ha un effe o
sulla succosità e sul gusto della bistecca che vale la pena
conoscere.
Spargiamo del sale su entrambe le superfici di una bella
bistecca, magari una costata o un controfile o [FOTO 1]. Esistono
vari sali in commercio, tu i ovviamente composti da cloruro di
sodio, che però differiscono per la forma dei cristalli. Per salare
la carne io preferisco usare sale con una stru ura a scaglie,
come il fior di sale o il sale di Maldon, per avere, a parità di peso,
una maggior superficie a conta o con la carne. Il sale grosso
non va bene perché si scioglie troppo lentamente, mentre il sale
fino ha i cristalli troppo piccoli. Il sale integrale in commercio ha
spesso una granulometria intermedia e può fare al caso vostro
se non trovate quello a scaglie. Cosa succede quando spargiamo
il sale sulla carne? Dopo 5 minuti di conta o con la superficie il
sale comincia a estrarre l’acqua, per osmosi. Questo è l’effe o,
visibile anche a occhio nudo, temuto da molti cuochi che per
questo motivo non salano mai la carne prima di cuocerla [FOTO
2].
Se ora, con la superficie umida, me ete la bistecca in padella,
non riuscirete a o enere quella bella crosticina asciu a e
croccante perché l’acqua, evaporando, abbasserà la temperatura
riducendo l’effe o della reazione di Maillard.
Tu avia questa è solo la prima parte della storia. Lasciamo
passare qualche decina di minuti e il sale, sciogliendosi, inizierà
a denaturare le proteine delle fibre, che saranno dunque meno
legate tra loro [ FOTO 3 ]. Sapete che le fibre muscolari sono
formate principalmente da actina e miosina, e quest’ultima è
solubile in acqua molto salata. Dopo un po’ di tempo, negli spazi
che si sono creati tra le fibrille, dentro le fibre, grazie alla
denaturazione delle proteine e allo scioglimento della miosina,
l’acqua salata sarà in parte riassorbita, causando un’ulteriore
denaturazione delle fibre più in profondità [ FOTO 4 ]. Per una
bistecca alta un centimetro servono almeno 30-40 minuti
perché si compia questo processo. Quando cuocerete la carne,
gli ioni sodio e cloro penetrati tra le fibre proteggeranno un po’
le proteine dalla coagulazione e dalla conseguente perdita di
acqua. In più, le proteine disciolte riusciranno meglio a
tra enere i succhi. Quindi, contrariamente a quanto si pensa, la
bistecca salata prima della co ura non sarà affa o più secca di
una non salata, a pa o di salare con buon anticipo la carne. Il
sapore della carne, poiché il sale è penetrato in profondità e non
si trova solo sulla superficie, verrà amplificato in co ura. L’unico
accorgimento da seguire è asciugare bene la bistecca,
eliminando tu a l’acqua superficiale, prima di me erla in
padella. Non temete: l’acqua persa con la salatura è trascurabile
rispe o a quella che esce in co ura, e non influenza il sapore.
Dopo tu o, l’acqua non è saporita: il gusto di una bistecca viene
dalle proteine e dal grasso. Se non avete tempo di aspe are
un’ora per l’effe o del sale, cuocete immediatamente dopo aver
salato la carne, senza lasciare il tempo alla superficie di
inumidirsi.
L’EFFETTO DEL SALE
Se, come abbiamo visto, il sale contribuisce a ridurre le perdite dei
succhi presenti nella carne, è anche possibile sfru are la sua
azione addiri ura per aumentare la quantità di acqua contenuta
nelle fibre. Solo una piccola parte dell’acqua della carne è
immobilizzata e legata alle proteine delle fibrille. La maggior parte
è abbastanza libera di muoversi nello spazio tra l’actina e la
miosina. Quindi qualsiasi cosa riesca ad aumentare la distanza tra
le proteine delle fibrille può creare spazio per aumentare il
contenuto di acqua della carne in modo che, dopo la co ura, ne
rimanga una quantità tale da mantenere la carne succosa.
Le due sostanze che più si usano nell’industria alimentare per
o enere questo effe o sono il cloruro di sodio e i fosfati. Questi
ultimi, però, si utilizzano quasi esclusivamente in alcuni prodo i
industriali come i prosciu i o gli arrosti co i e non hanno un
utilizzo in cucina, per cui ci concentreremo solo sull’effe o del
sale.
DRY RUB
Il significato le erale è «massaggio a secco». I dry rub sono
costituiti da una miscela di sale, spezie e aromi da applicare
a secco “massaggiando” la carne almeno un’ora prima di
cuocerla, solitamente alla griglia, al BBQ o al forno. Gli
aromi daranno sapore alla crosticina esterna mentre il sale
penetrerà un po’ all’interno, insaporendo la carne e
contribuendo a mantenerla succosa.
LE SALAMOIE (BRINE)
Quand’è l’ultima volta che avete assaggiato un pe o di tacchino
arrosto che non fosse troppo asciu o? E che dire della carne di
maiale? Negli ultimi decenni il mercato ha richiesto carne sempre
più magra e il miglioramento genetico ha risposto producendo
maiali con carne sempre meno grassa. Il risultato è che cuocendo
un pezzo di lonza al forno o un file o si corre sempre il rischio di
o enere una pietanza stopposa, asciu a e non certo succulenta.
Come sapete, il grasso, sciogliendosi in co ura, lubrifica i fasci
muscolari e mitiga la sensazione di asciu ezza tipica di tagli
magri e poveri di tessuto conne ivo, come appunto un file o di
maiale o un pe o di pollo o di tacchino.
Per ovviare a questo problema, negli Stati Uniti, dove la
preparazione del tacchino al forno è di rigore nel giorno del
Ringraziamento – anche se, diciamolo, la carne di tacchino non è
granché, ma la tradizione è la tradizione –, da un po’ di anni si sta
diffondendo una tecnica chiamata brining, tradizionalmente
usata nei Paesi scandinavi ma poco conosciuta altrove,
specialmente in Italia. L’idea di base è semplice: poiché durante la
co ura la carne perde inevitabilmente succhi, possiamo cercare di
far penetrare acqua nelle fibre muscolari prima della co ura per
controbilanciare l’effe o. Per far ciò si immerge completamente la
carne in una salamoia, cioè un bagno di acqua salata. La
percentuale di cloruro di sodio in acqua è solitamente tra il 3 e il
10%. È importante, per evitare proliferazioni ba eriche, che il
bagno di acqua sia molto freddo e venga tenuto in frigorifero a
temperature non superiori a 4 °C.
Se immergiamo in acqua salata dei pezzi di melanzana l’acqua
uscirà, facendoli raggrinzire. Questo effe o può essere desiderato
prima di una fri ura, per evitare che successivamente le
melanzane, con la loro stru ura spugnosa, assorbano troppo olio.
L’acqua, insieme a un po’ di sostanze aromatiche, esce dalle cellule
della melanzana per osmosi. Come mai, allora, se immergiamo
della carne di pollo o di un altro animale in una soluzione di sale
l’acqua entra nell’alimento invece di uscire?
La concentrazione di cloruro di sodio all’esterno della carne
immersa in salamoia è superiore a quella interna e, a raverso un
meccanismo di diffusione, gli ioni cloro e gli ioni sodio che
compongono il sale da cucina penetrano all’interno delle fibre
muscolari. Una salamoia al 3%, con una salinità simile all’acqua di
mare, è in grado di denaturare parzialmente le proteine che
supportano le fibre muscolari. Non ci accade quando facciamo il
bagno d’estate solo perché siamo prote i dalla pelle e i nostri
muscoli non sono stati tagliati esponendo le fibre.
La velocità di diffusione del sale nella carne dipende da molti
fa ori: dalla concentrazione, dal tipo di animale, dalla
temperatura, dalla presenza di grasso, eccetera. È comunque un
processo lento, a volte di pochi millimetri all’ora. Se ricordate, la
maggior parte dell’acqua contenuta nella carne è immagazzinata
tra le proteine delle fibrille. Il sale, penetrando nella carne, allarga
lo spazio tra le molecole di miosina e actina, e così facendo crea lo
spazio per far entrare altra acqua; il processo si ripete, lentamente,
sempre più in profondità. A concentrazioni tra il 5 e il 10%, il sale
denatura e scioglie parzialmente anche alcune proteine delle fibre,
tra cui la miosina. Le proteine denaturate legano l’acqua più di
quanto non facciano nella loro forma nativa, ma sopra u o, una
volta scaldate, formano un gel che intrappola l’acqua e non la fa
sfuggire, esa amente come succede all’albume man mano che
cuoce. Come risultato finale, la carne sarà più succosa.
L’ANGOLO CHIMICO
LA CONCENTRAZIONE DEL SALE Esperimenti sulla carne
di bovino mostrano come questa riesca ad assorbire
acqua finché la concentrazione di sale rimane
inferiore al 2%. Tra il 3 e il 5% le fibre tendono invece
a espellere l’acqua contenuta, per poi assorbirla
rapidamente quando la concentrazione di sale è
compresa tra il 5% e il 10%.
La diffusione del sale e dell’acqua è un fenomeno lento, quindi con
un tra amento in salamoia di poche ore, solo gli strati esterni,
quelli che subiscono maggiormente la disidratazione durante la
co ura ad alte temperature, risulteranno idratati. Durante la
co ura una parte dell’acqua intrappolata nelle fibre fuoriuscirà
comunque, ma ne rimarrà a sufficienza per mantenere la carne
succosa.
Se volete cimentarvi con il brining ma non volete provare a
cucinare un intero tacchino, come fanno negli Stati Uniti,
lasciandolo immerso anche più giorni, potete provare con un
file o di maiale o un pe o di pollo intero. Prendete un contenitore
sufficientemente grande da contenere il pezzo di carne e
riempitelo di acqua molto fredda. Potete raffreddarla meglio
sciogliendovi dei cube i di ghiaccio. Aggiungete 50 g di sale per
ogni litro d’acqua. Immergete la carne e riponete in frigorifero.
Dopo circa un paio d’ore – ma più rimane immersa e più l’acqua
salata penetra in profondità – togliete la carne, asciugatela e
cucinatela al forno o in padella con la vostra rice a preferita: la
troverete più succosa. Ovviamente non dovete più salarla.
C’è però una controindicazione: la carne può risultate troppo
salata per il palato di alcuni. È necessario quindi non eccedere con
il sale e trovare un giusto compromesso. Anche negli Stati Uniti c’è
chi adora questa tecnica e chi preferisce non utilizzarla. Ci si
potrebbe chiedere se usare il sale sia proprio necessario: non è
sufficiente immergere la carne in acqua pura? Gli esperimenti
mostrano che la carne assorbe anche acqua non salata, anche se
in misura minore. L’acqua però entra nelle fibre senza alterarne la
stru ura e quindi durante la co ura fuoriesce completamente.
Per capire se questa tecnica fa al caso vostro o se preferite della
carne più asciu a ma meno salata, non vi resta che provare con
una salamoia standard, al 5% (50 g di sale per litro d’acqua) e
aumentare fino a un massimo del 10% (100 g di sale per litro
d’acqua) le volte successive.
Le salamoie sono più efficaci per carni povere di grassi da
cuocere a temperature interne relativamente alte. Sono l’ideale
per il pe o di pollo o di tacchino e per alcuni tagli del maiale come
lombo o file o, dove non è infrequente raggiungere, anche per
motivi sanitari, temperature di 70 °C, con una notevole perdita di
succhi. Non sono ada e, invece, il manzo o l’agnello, normalmente
co e a temperature più basse e dotate di una maggior quantità di
grasso. Pollo, tacchino e maiale, inoltre, assorbono acqua più
efficacemente di quanto faccia quella di manzo.
Alla salamoia a volte vengono aggiunti zuccheri e aromi. Poiché
le loro molecole sono molto più grandi degli ioni sodio e cloro
presenti nel sale, penetreranno nella carne molto poco, rimanendo
in superficie. Durante la co ura ad alta temperatura
contribuiranno però a creare il sapore gustoso della crosta.
CONSIGLIO
L’acqua della salamoia non deve essere calda,
per evitare fenomeni di proliferazione
ba erica. Il sale da cucina si scioglie bene
anche in acqua fredda, ma ci me e un po’ di
tempo in più.
RICETTA
IL FILETTO DI MAIALE ARROSTO
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come l’immersione in una
salamoia per alcune ore di un taglio di carne
particolarmente povero di grassi e tessuto conne ivo, come
il file o di maiale, lo idrati abbastanza da poterlo cuocere
arrosto senza che diventi eccessivamente asciu o.
Non solo vitello, vitellone o manzo! È bene ricordarsi, e non solo in
periodi di crisi economica, che esistono altri tipi di carne oltre a
quella bovina. Per esempio, quella suina. Il maiale lo associamo
immediatamente ai salumi, ma questo animale offre anche tagli a
buon mercato da cucinare in padella o al forno, per co ure lente o
veloci. Oltre alle classiche costine, da cucinare al forno, in padella
o in umido, i tagli che più comunemente si trovano al
supermercato o dal macellaio sono la lonza, l’arista, lo stinco, le
braciole e il file o. Quest’ultimo è un taglio decisamente
so outilizzato, nonostante sia morbido e a buon mercato, forse
perché il rischio di o enere della carne asciu a e stopposa è
molto alto, a meno di non usare alcuni accorgimenti.
Prima di cucinarlo dobbiamo conoscere, come per le altre carni,
la temperatura da raggiungere internamente. Ma, come per il
pollo, tra ando di maiale è opportuno fare prima qualche
considerazione sanitaria.
LA TRICHINELLOSI
Consumando carne di maiale cruda o poco co a si corre il rischio
di contrarre la trichinellosi, in passato chiamata trichinosi. Questa
mala ia infe iva è causata da un parassita che si localizza
inizialmente nell’intestino per poi trasferirsi nei muscoli. L’uomo
la può contrarre esclusivamente per via alimentare, a raverso il
consumo di carne cruda o poco co a contenente le larve di questo
parassita. In Italia il veicolo di trasmissione è tipicamente la carne
di maiale o di cinghiale.
Cosa possiamo fare per proteggerci da questo parassita?
Purtroppo le classiche tecniche di conservazione dei salumi –
salagione, affumicatura e conservazione so ’olio o stru o – non
sono efficaci, mentre lo è il congelamento a –30 °C per una
se imana. Ma non è una temperatura raggiungibile in un
congelatore casalingo. Diffidate quindi dei salumi “fai da te”
o enuti da carne di animali di provenienza sconosciuta. Per le
preparazioni casalinghe l’unica via praticabile è la co ura a
temperature appropriate: è sufficiente cuocere al cuore a 65 °C e
mantenere la temperatura per almeno un minuto perché le larve
vengano ina ivate o uccise. Nei moderni allevamenti, grazie
anche ai controlli veterinari periodici, la presenza di questo
parassita è per fortuna molto rara. Pure l’Unione Europea
concorda che la presenza del parassita negli allevamenti
industriali sia ormai sporadica. I rischi, però, sono maggiori se si
consuma la carne di maiali non controllati o, ancora peggio, di
cinghiali selvatici. In Sardegna, per esempio, nel 2005 se e
persone hanno contra o questa mala ia mangiando salsicce
preparate con la carne di un animale allevato allo stato brado e
macellato clandestinamente. Nonostante l’immaginario popolare
ritenga gli animali selvatici sani e forti, purtroppo è vero il
contrario: è molto più facile contrarre mala ie anche gravi da
selvaggina e animali allevati allo stato brado che non hanno
subito i necessari controlli veterinari.
Questo dal punto di vista sanitario. E se consideriamo quello
gastronomico? A 65 °C la carne di maiale è ancora rosa e succosa,
mentre a 70 °C può essere ancora leggermente rosata, ha perso
molti liquidi ma non è ancora completamente asciu a come
capita invece alla carne di bovino. A temperature superiori ai 70 °C
la carne diventa asciu a e ben poco appetibile, perché il file o è
un taglio estremamente povero di grassi e di collagene. È per
questo che molte rice e di maiale prevedono, dopo la co ura e
prima del servizio, il taglio e la successiva reidratazione parziale
delle fe e con una salsa o un fondo di co ura. Io personalmente
non apprezzo il maiale molto rosato quindi, sebbene già a 65 °C sia
completamente sicuro, lo cucino a circa 70 °C; voi fate come
preferite.
Quella che segue, più che una rice a, è una “prerice a”: la
spiegazione di come andrebbe tra ato il file o di maiale prima di
impiegarlo nei vostri arrosti preferiti, per evitare che diventi
asciu o e stopposo.
INGREDIENTI
1 file o di maiale
1 cipolla
1/2 l di birra
semi di cumino
olio extravergine di oliva
150 g di sale
pepe
PROCEDIMENTO
1
Per prima cosa dovrete togliere con un coltello affilato e appuntito
tu o il tessuto conne ivo che avvolge il file o. È principalmente
reticolina che non si scioglie in co ura. La procedura è molto
semplice: infilate la punta di un coltello da disosso
immediatamente so o la pellicola bianca e, facendovi strada con
la lama, fate sbucare il coltello un paio di centimetri oltre il taglio
d’entrata.
2
Inclinando la lama leggermente verso l’alto tagliate la striscia di
tessuto conne ivo fino all’uscita del coltello. Prendete poi il capo
della striscia e, tenendolo sempre teso, asportate anche il resto
nell’altra direzione. Alla fine avrete un file o ripulito dal tessuto
conne ivo esterno.
3
Il file o di maiale, insieme al pe o di pollo intero, è uno dei tagli
che più può beneficiare della tecnica del brining, l’immersione
prolungata in una salamoia. Preparate una soluzione con 2 l di
acqua fredda – io utilizzo acqua raffreddata in frigorifero – e il
sale. Usate quello fino per velocizzare lo scioglimento. Immergete
il file o nella salamoia, chiudete il contenitore e riponete in
frigorifero. Tenetelo immerso per 4 ore. Se a fine rice a lo
troverete troppo salato per i vostri gusti, la volta successiva
preparate una salamoia al 5%, con solo 100 g di sale per 2 l d’acqua.
4
Togliete il maiale dalla salamoia e asciugatelo ben bene con carta
assorbente da cucina: l’umidità è nemica della reazione di
Maillard. Ora dobbiamo occuparci del classico problema del file o
di maiale: la forma. Il file o ha una delle due estremità più
asso igliata: questo significa che durante la co ura la
temperatura interna non sarà omogenea; alla fine, il vostro file o
potrebbe essere straco o da una parte e quasi crudo dall’altra. Per
evitare questo è preferibile legare il pezzo di carne ripiegando su
se stessa l’estremità in modo tale da o enere un cilindro più o
meno uniforme.
5
Cospargete di pepe e oliate a piacere il file o, ma niente sale: è già
dentro la carne grazie alla salamoia. Ora la carne è pronta per la
rosolatura esterna e, successivamente, per la rice a che più vi
piace. Se decidete di rosolarlo nel forno potete usare il grill,
posizionando il file o in alto dentro una teglia di alluminio usa e
ge a dai bordi alti, quelle che si usano per le lasagne o le
melanzane alla parmigiana. L’alluminio per alimenti aiuterà a
rifle ere parte della radiazione infrarossa verso la carne,
velocizzando la rosolatura esterna. Quando è rosolato toglietelo
dal forno. Come al solito, quando usate il grill, non allontanatevi
per nessun motivo. Vi confesso che, dopo aver bruciato una volta
del pollo, con conseguente puzzo di bruciato sparso per tu a la
cucina, controllo compulsivamente il forno ogni volta che uso il
grill. Un’alternativa più semplice e meno rischiosa, di sicuro più
classica, è la rosolatura in padella.
6
Che abbiate rosolato il file o al grill oppure in padella, se volete
continuare la co ura al forno, magari mentre in padella preparate
delle patate arrosto, impostate la temperatura a 150-160 °C, inserite
un termometro a sonda al centro del file o e cuocete fino ad
arrivare a 65-68 °C, a seconda che lo preferiate più o meno rosato.
Servitelo tagliandolo a fe e e versandoci sopra la vostra salsa
preferita. Un grande classico della cucina tedesca, in cui la carne
di maiale è molto usata, è la salsa di mele. Se invece preferite
continuare la co ura sul fornello, potete preparare un arrosto
morto. Si chiamano così quelle rice e in cui, dopo una rosolatura
iniziale, la co ura avviene in ambiente umido. Un po’ come un
brasato, ma in questo caso non vi è collagene da sciogliere e la
co ura avviene in un recipiente aperto.
7
Dopo aver rosolato il file o, tenetelo in caldo mentre fate
soffriggere una cipolla tagliata fine. Il maiale viene spesso
cucinato con il cumino oppure con i semi di finocchio. Se vi
piacciono, aggiungetene un po’ alla cipolla che soffrigge. Ancora
una volta, niente sale. Non sappiamo quanto ne ha assorbito in
precedenza il maiale e, nel caso manchi, possiamo sempre
aggiungerlo alla fine. Quando la cipolla è diventata dorata
aggiungete la birra. È contemporaneamente acida, amara e dolce e
si sposa benissimo con la carne di maiale.
8
Depositate il file o, con il termometro inserito, e cuocete a fuoco
basso. Ogni tanto giratelo. Quando avrà raggiunto i 65-68 °C potete
toglierlo dalla casseruola e me erlo su un tagliere. La temperatura
interna continuerà a salire ancora per un po’, raggiungendo i 70-71
°C.
9
Mentre aspe ate che la carne si raffreddi un po’ per poterla
affe are, passate la cipolla nella pentola per preparare una salsa.
A fine co ura le carni arrostite possono assorbire dei liquidi,
rimpiazzando parzialmente quelli persi. Affe ate, ricoprite di
salsa e servite.
COTTURE ASCIUTTE
Pensate a quante rice e esistono per la carne: arrosti,
brasati, spiedini, lessi, fri i, grigliate e così via. È possibile
escogitare vari modi per classificare in categorie diverse
tu e queste preparazioni. Potremmo per esempio
suddividerle in base al tipo di carne utilizzata: il maiale
separato dal vitellone e dal pollo; oppure in base al metodo
di co ura: al forno, bollite o in padella. Sono criteri spesso
seguiti nei libri di cucina con titoli come 100 rice e con il
pollo, o Le migliori rice e da cucinare in padella. Questo
però non è un libro di rice e e preferisco usare criteri più
scientifici per classificare le co ure: in base alle
temperature che si raggiungono e alla presenza o meno di
acqua. Il motivo è semplice ed è stato già ripetuto più volte:
per sciogliere il collagene servono un ambiente umido,
temperature non troppo elevate e tempi lunghi. In assenza
di acqua abbiamo quindi co ure più ada e a tagli teneri,
esposti per tempi non troppo lunghi ad alte temperature,
superiori a 100 °C: il regno della reazione di Maillard.
Vediamo le principali.
ALLA GRIGLIA
Come suggerisce il nome, il cibo in una grigliata viene depositato
su una griglia metallica e riscaldato da so o a calore dire o,
solitamente da brace o legna. Alzi la mano chi non è mai stato
invitato a qualche grigliata in compagnia e ha dovuto mangiare
delle costine bruciate fuori e ancora crude dentro. Il
riscaldamento per irraggiamento dire o dalla brace, per
conduzione dal metallo della griglia e per convezione dell’aria che
si innalza dalla fonte di calore è molto veloce perciò si rischia, se
non si è cauti, di bruciare il cibo esternamente. La co ura a
riscaldamento dire o, quindi, è più ada a a cibi di piccole
dimensioni o so ili che cuociono velocemente, come il pesce,
oppure a carni che resistono meglio alle alte temperature, come il
pollo, o a carne abbastanza grassa, come gli hamburger.
La co ura alla griglia è la co ura asciu a per eccellenza, poiché
la carbonella non produce acqua durante la combustione e
l’umidità che si sviluppa dal cibo si disperde nell’ambiente. Infa i,
la carbonella è o enuta facendo bruciare il legno in carenza di
ossigeno, o enendo carbonio quasi puro che brucia
completamente, trasformandosi in anidride carbonica senza
lasciare residui. In questo modo le reazioni di Maillard vanno alla
grande e la crosta superficiale rimane croccante e asciu a. I
bricche i, invece, molto popolari per la loro comodità e durata,
contengono anche altre sostanze che servono a legare la polvere e,
se non di buona qualità, possono produrre odori durante la
combustione.
Esistono libri interi dedicati alla griglia e al barbecue perché ci
sono moltissime variabili da tenere in considerazione ancora
prima di posizionare la carne: il tipo di apparecchio, il materiale da
combustione, la disposizione del cibo sulla griglia e rispe o al
calore, il coperchio chiuso o aperto e così via. Non possiamo
addentrarci in quella che è una vera e propria disciplina culinaria
a sé, della quale si tengono addiri ura delle competizioni
internazionali in cui grillmaster di tu e le nazioni si sfidano a
colpi di hamburger e costate.
L’errore che più comunemente si comme e quando si cucina
alla griglia è quello di collocare il cibo quando ci sono ancora
fiamme libere, che verranno alimentate dal grasso che cola dalla
carne o dal pesce. Ricordate che, oltre a non avere un sapore
gradevole, il cibo bruciato è da evitare perché contiene sostanze
cancerogene. Se usate la classica carbonella me ete la carne solo
quando le braci hanno pochissima o nessuna fiamma e sono
ricoperte da una polvere bianca.
Un altro errore molto comune consiste nel posizionare il cibo in
modo errato rispe o alla fonte di calore e cuocere a fuoco dire o
pezzi che invece necessitano di co ure più lunghe a temperature
più basse. Vuoi perché sono pezzi grandi – un coscio o di agnello,
per esempio – o perché necessitano di tempi lunghi per sciogliere
il collagene. Le costine sono un o imo esempio di preparazione
che molti griller alle prime armi sbagliano a cuocere.
A meno di dover cuocere una bistecca o un hamburger, non è
sempre necessario me ere la carne dire amente sopra la brace.
Esistono varie tecniche di disposizione delle braci o dei bricche i
che perme ono di cuocere il cibo più lentamente, in maniera
indire a, che non possiamo approfondire qui. Ve l’ho de o che
imparare a usare la griglia e il barbecue è più difficile che imparare
a usare un forno e non a caso esistono corsi che insegnano a
padroneggiare questo metodo di co ura. Se non avete il tempo di
frequentarne uno o di leggere un libro specialistico provate
semplicemente a spostare la brace a destra e a sinistra del cibo,
posto in mezzo. Se il vostro barbecue ha un coperchio potete
posizionare il combustibile da un lato e il pezzo di carne dall’altro:
chiudendo parzialmente o totalmente il coperchio l’aria calda, per
convezione, cuocerà il cibo.
ALLO SPIEDO
Poiché il calore, durante la co ura, penetra all’interno di un
alimento a partire dalla superficie, un modo ovvio per ridurre i
tempi di co ura di un grande pezzo di carne è quello di tagliarlo in
pezzi più piccoli. Ovviamente non è de o che questo sia
desiderabile, gastronomicamente parlando: per definizione, in uno
spezzatino la carne è tagliata a pezze i, ma non potremmo certo
preparare un roast beef in questa maniera. Nei casi in cui è
possibile e desiderabile farlo, la co ura avviene in un tempo più
breve perché il calore impiega meno tempo, per conduzione, a
raggiungere il centro dei piccoli pezzi. Avendo aumentato il
rapporto superficie/volume della carne dividendola in pezzi più
piccoli, possiamo sfru are la maggiore superficie o enuta e
marinare la carne prima di cuocerla. Una marinatura agisce
principalmente sulla superficie apportando sapore e in più aiuta a
proteggere dalla disidratazione durante la co ura, a spese, però,
della reazione di Maillard.
È possibile velocizzare ulteriormente la co ura facendo
penetrare il calore dire amente al centro del cibo. È quello che
succede quando infilziamo dei cube i di carne con degli spiedini
di metallo, buon condu ore di calore. In questo modo la carne si
scalda sia dalla superficie che dal centro, riducendo i tempi di
co ura.
Il legno, materiale spesso usato per gli spiedini già pronti da
cuocere che troviamo sui banchi del supermercato, è un ca ivo
condu ore, quindi non perme e al calore di diffondersi dal
centro. In più, sulla griglia, rischia di infiammarsi o carbonizzarsi.
Si usa più spesso per cuocere pezzi molti piccoli o pia i,
sopra u o di pollo. Oppure per cibi che devono cuocere per tempi
brevissimi, come i gambere i. Se usate gli spiedini di legno e
volete evitare che brucino immergeteli in acqua prima di infilzare
il cibo. Ricordate però che se i pezzi di carne sono grossi rischiate
di avere la carne bruciacchiata fuori ma cruda internamente.
Diffidate, inoltre, degli spiedini preconfezionati che potete
comperare al supermercato con pollo, salsiccia, zucchine, peperoni
e altro tu o insieme. Non c’è niente di peggio dell’addentare
contemporaneamente un bel pezze ino di carne di agnello co o a
puntino assieme a una zucchina ancora cruda e a un pomodoro
ormai completamente squagliato di cui è rimasta solo la buccia.
Abbrustolita, per di più. Scegliete combinazioni di carne, pesce, e
verdure che abbiano tempi di co ura simili. Per esempio la carne
di agnello fa a a piccoli tocchi di un paio di centimetri cuoce bene
con cipolle e peperoni. Ancora meglio, preparate degli spiedini
monoverdura: le cipolline da sole, le zucchine e così via, in modo
da poter regolare singolarmente la co ura di ogni spiedino
durante la grigliata. Tanto, nella maggior parte dei casi, toglierete
carne e verdure dai rispe ivi spiedini prima di mangiarli.
Una volta scelte le carni e le verdure più ada e, possiamo
passare alla co ura. Gli spiedini si devono arrostire: dopo tu o
sono nati per essere fa i alla brace, sebbene si possano cucinare
anche al forno o in padella, con risultati inferiori. Poiché gli aromi
e i sapori di carne arrostita si sviluppano solo sulla superficie, se
compa iamo troppo lo spiedino e non lasciamo spazio tra un
cubo e l’altro abbiamo il vantaggio di non seccare troppo la carne
al prezzo, però, di ridurre la superficie esposta e quindi il sapore.
Bisogna trovare un compromesso: distanziate un po’ i pezzi tra di
loro, specialmente se non sono troppo piccoli. E continuate a
girarli, per evitare che brucino da una parte mentre l’altra è ancora
cruda.
Se aumentiamo le dimensioni dei pezzi di carne da cuocere,
passiamo dallo spiedino allo spiedo. Quando sono in vacanza in
montagna, d’estate, il rito irrinunciabile del martedì è andare al
mercato se imanale. Fino a quando mia nonna Lucia è stata in
vita era lei che si assumeva il compito di fare la fila, prenotare e
poi ritirare un pollo allo spiedo, insieme a una dose abbondante di
verdure pastellate, patatine, mozzarelle fri e, olive all’ascolana e
È
anelli di cipolla fri i. È il bancone più popolare del mercato
probabilmente proprio grazie al pollo. Ora l’onere della fila me
l’accollo io, anche per conquistare una sorta di diri o morale di
prelazione verso la pelle arrostita del pollo: chi fa la fila sceglie per
primo!
Un pollo allo spiedo durante la co ura continua a ruotare, in
modo che il grasso che si scioglie continui a scivolare sulla carne
proteggendola e trasme endo il calore in modo più uniforme. La
superficie rimane esposta al calore intenso solo per pochi secondi,
per poi raffreddarsi, perme endo così di controllare anche la
co ura interna.
Una variante verticale dello spiedo è il kebab o kebap, tipico
della cucina turca e ormai diffusissimo anche da noi. Il principio
di funzionamento è simile. In questo caso è la forma conica della
montagna di carne a favorire lo scivolamento del grasso che si
scioglie.
O enere lo stesso risultato nel forno di casa è impossibile.
Nonostante molti forni casalinghi siano dotati di spiedo, potete
scordarvi di o enere un pollo dalla pelle gustosa croccante come
quello del banco del mio mercato, perché nel forno l’umidità non
ha modo di fuggire.
ARROSTO
Col termine “arrostire” si intende normalmente cuocere qualcosa
ad alte temperature in ambiente asciu o. Si può arrostire del cibo
in padella oppure infilzandolo su uno spiedo ed esponendolo al
fuoco. Anzi, prima della diffusione dei forni, gli arrosti erano
proprio preparati così. Ai giorni nostri, però, l’ambiente di co ura
più comune è il forno.
ARROSTIRE AL FORNO
La co ura al forno, anche se abbastanza asciu a, non si
avvicinerà mai alla co ura alla griglia. Nei forni ele rici si
accumula il vapore che fuoriesce dal cibo, per non parlare poi del
forno a gas che produce con la combustione vapore d’acqua. È per
questo che è molto difficile, se non impossibile, ricreare nel forno
pia i pensati per la griglia o lo spiedo. Una soluzione
parzialmente acce abile, se disponibile, è usare il grill, ma solo per
un passaggio finale della carne, poiché è molto difficile regolare
bene il calore intenso emesso dalla resistenza: una distrazione e vi
ritrovate tu o bruciato. In ogni caso, la crosticina sarà diversa da
quella della grigliata.
CONSIGLIO
In un forno ventilato la trasmissione del
calore è più veloce, quindi il cibo cuoce più
rapidamente e l’acqua evapora più
velocemente dalla superficie. Se questo è un
effe o indesiderato nella vostra preparazione,
riducete di 10-15 °C la temperatura del forno
per rallentare l’evaporazione.
Una cara eristica che hanno tu i gli arrosti è di essere
abbastanza grandi. Non si cucina un arrosto per una persona o
due, a meno di volerlo mangiare anche i giorni successivi. Tu i gli
arrosti sono cara erizzati da una rosolatura superficiale, che può
variare a seconda della rice a, e dall’uso di grassi, per veicolare i
sapori e ammorbidire la carne asciu a.
Un consiglio che si sente spesso è quello di me ere il cibo nel
forno quando questo è giunto alla temperatura desiderata già da
qualche minuto. In questo modo anche le pareti del forno
contribuiranno un po’, per irraggiamento, a cuocere il cibo. Questo
consiglio è da seguire scrupolosamente per tu i i dolci, a meno
che non sia indicata una procedura in cui la temperatura deve
variare durante la co ura. Per i grandi pezzi di carne, invece, in
alcuni casi può essere utile me ere il cibo nel forno freddo e
innalzare la temperatura lentamente. Abbiamo visto che in questo
modo si possono a ivare gli enzimi ancora presenti nella carne
che, fino a 50 °C contribuiscono a intenerirla.
Dal punto di vista della co ura, il roast beef è un arrosto.
Tu avia, siamo principalmente interessati a mantenere morbido,
succoso e rosato l’interno. In quelli che comunemente chiamiamo
arrosti la crosticina asciu a e gustosa è invece altre anto
importante della consistenza interna della carne. Abbiamo quindi,
come spesso succede, due richieste contrapposte. La temperatura
interna non deve superare un certo valore, che dipende dal taglio
e dall’animale, ma deve essere sicuramente inferiore a 70 °C. La
parte esterna dell’arrosto invece deve raggiungere temperature
superiori a 140 °C, per innescare velocemente la reazione di
Maillard e creare quelle molecole gustose che associamo alla
carne arrostita. Se cuociamo al forno e lasciamo fissa la
temperatura per tu a la co ura ben difficilmente riusciremo ad
avere sia il cuore che la superficie co i come desideriamo. Se
fissiamo temperature alte, per esempio a 190 °C, il periodo di
tempo necessario affinché il cuore raggiunga la temperatura
desiderata rischia di rendere la superficie troppo co a e stopposa,
se non addiri ura bruciata. Se invece impostiamo il forno a
temperature più basse rischiamo di trovarci con una crosticina
pallida e poco gustosa. La strategia o imale consiste
nell’effe uare una co ura in due stadi, prendendoci cura del
cuore e della crosta in due momenti distinti. Abbiamo quindi due
possibilità.
1. ROSOLARE PRIMA LA CARNE, in padella oppure nel forno
ad alta temperatura, e continuare la co ura in forno a
temperature più basse, fino a quando il cuore non abbia raggiunto
la temperatura desiderata. Ovviamente è molto difficile rosolare
bene in padella un taglio che contenga delle ossa, come un carré di
vitello o un’arista di maiale.
2. CUOCERE PRIMA L’INTERNO in forno a temperature
moderate, quindi 130-150 °C. Quando la carne è quasi co a, alzare
la temperatura per produrre la crosticina gustosa. È consigliabile
togliere temporaneamente l’arrosto dal forno, lasciandolo riposare
coperto con un foglio di alluminio per alimenti, mentre la
temperatura aumenta fino a raggiungere i 190 °C. In questo modo
la carne disperderà un po’ di calore e, una volta rimessa nel forno
per la breve rosolatura finale, sarà solo la superficie a raggiungere
alte temperature.
Anche se siete abituati a cuocere l’arrosto in un unico passaggio, e
vi viene benissimo, provate una volta la co ura in due stadi.
Anche solo per imparare una tecnica diversa.
Arrostire in padella
La trasmissione del calore in una padella può essere molto veloce
o molto lenta, a seconda del materiale di cui è fa a e dell’intensità
del fuoco. Nelle cucine casalinghe è lo strumento di co ura più
ada o a bistecche, fe ine, pe i di pollo o di tacchino e, in
generale, a tu e quelle rice e che utilizzano tagli poco spessi ma
con una grande superficie, in modo da trasme ere il calore
velocemente e non stracuocere la carne. È ada issima quindi
anche a cuocere velocemente tu i quei pesci molto so ili, come le
sogliole, che se co i 30 secondi di troppo diventano asciu i e si
disfano.
Normalmente si aggiunge un filo di grasso alla padella per
trasme ere il calore al cibo in modo più regolare. Come abbiamo
già avuto modo di vedere, nel caso di una bistecca bella grassa, se
la padella è di buona qualità non è necessario aggiungere nulla o,
al limite, basta oliare un poco la carne prima di ge arla in padella.
Stesso accorgimento se dovete cuocere un pe o d’anatra, che
depositate sulla padella caldissima dalla parte della pelle, grassa,
senza aggiungere olio. La padella deve essere già in temperatura,
per far sì che i liquidi rilasciati evaporino immediatamente. Certo,
avrete un po’ di odori per la casa se non avete una cappa aspirante
particolarmente potente.
La padella è regina anche per cucinare verdure: uno dei piaceri
della vita è accompagnare una bistecca ben fa a o del pesce con
delle patate arrostite in padella. Io le trovo persino superiori alle
patate fri e.
SALTARE
Un altro uso popolare della padella è la co ura “al salto”
cara erizzata dall’uso di un grasso – olio, burro o altro – e dalle
dimensioni rido e dei pezzi di carne che velocizzano la co ura. Se
avete tagli che hanno bisogno di co ure brevissime oppure tagli
magri che contengono troppo tessuto conne ivo per essere
cucinati in un pezzo intero, questa è la co ura da privilegiare. Il
fegato io lo cucino quasi sempre così, tagliato a pezzi piccoli e
saltato velocemente ad alta temperatura, per non farlo indurire.
Questa tecnica è stata portata alla perfezione dalla cucina
cinese dove è prassi comune che la carne sia co a velocemente già
tagliata a piccoli pezzi, in modo da poter essere mangiata con i
bastoncini senza bisogno di usare il coltello. La padella usata dalla
cucina cinese, il wok, è appositamente pensata per cuocere piccoli
pezzi di cibo in pochissimo olio. Se però avete un wok a casa,
residuo di qualche viaggio esotico, vi consiglio di non utilizzarlo. Il
fondo del wok è tondo ed è pensato per essere adagiato
dire amente dentro il bruciatore del fornello, in modo che il
calore arrivi anche lateralmente. I nostri fornelli, invece, sono
pensati per appoggiare pentole e padelle pia e, quindi non
riuscireste a scaldare a sufficienza il wok e a o enere una co ura
o imale.
Molte delle rice e di co ura al salto prevedono di cuocere la
carne insieme alle verdure. Spesso hanno nomi come “bocconcini”,
“stracce i” o simili. Tu avia, per la buona riuscita della rice a è
necessario seguire alcuni accorgimenti: i pezzi di carne devono
raggiungere esternamente le temperature necessarie per
innescare la reazione di Maillard, quindi non coprite la padella con
un coperchio, altrimenti il vapore condenserà e ricadrà sul cibo,
abbassandone la temperatura; la co ura poi deve essere molto
veloce, altrimenti la carne diventerà dura e secca: le verdure
devono essere tagliate a piccoli pezzi, per perme ere la loro
co ura in tempi brevi ed è meglio usare ortaggi che non
contengano troppa acqua e che rimangano croccanti per evitare
che la troppa acqua, fuoriuscendo durante la co ura, ristagni
nella padella abbassando la temperatura a 100 °C e allora potete
dire addio alla reazione di Maillard. Quindi quali verdure usare? Il
pomodoro, per esempio, no perché rilascia troppa acqua. Mentre
peperoni, cipolle e piselli mangiatu o vanno già meglio. Le
zucchine possono andare bene, ma solo se sono tagliate a pezzi
molto piccoli, altrimenti rimangono troppo dure con le co ure
veloci e diventano molli con quelle prolungate.
C’è poi un altro problema: i tempi di co ura di carne e verdure
possono essere diversi e quindi, cuocendo entrambi
contemporaneamente, rischiate di avere le verdure ancora dure
oppure la carne straco a. Insomma, la strategia migliore è
cuocere carne e verdure separatamente e unirle solo alla fine per
amalgamare bene tu o. Potete cuocere prima le verdure, tenerle
al caldo in un contenitore coperto, cuocere la carne e poi
aggiungere le verdure per amalgamare prima di servire. Oppure
potete usare due padelle contemporaneamente. Tanto lava la
lavastoviglie.
SOFFRIGGERE
Aumentando ancora la quantità di grassi, in modo da immergervi
parzialmente il cibo, arriviamo all’ultimo stadio prima della
fri ura vera e propria, il soffri o. I tempi di co ura di un soffri o
sono solitamente brevi e le temperature non arrivano a 150 °C a
causa dell’umidità che esce dall’alimento e le mantiene basse. Per
queste preparazioni, la carne solitamente viene ba uta per darle
una forma appia ita, in modo che cuocia più velocemente.
Scaloppine, cotole e, piccate sono tu e rice e in cui la carne è
pia a, per massimizzare l’effe o superficiale durante la co ura.
Il trasferimento di calore è mediato dal grasso, quindi è più
controllato rispe o al conta o dire o con una padella rovente.
Tu avia, il rischio di bruciare tu o perché ci si è distra i un
a imo rimane. D’altronde, se abbassate troppo il fuoco, l’acqua che
esce non vaporizzerà velocemente e farà calare troppo la
temperatura del grasso, con il risultato di dorare poco, o per nulla,
il cibo, che risulterà molliccio.
La maggior parte dei grassi e degli oli alimentari possono
agevolmente arrivare fino a 160 °C. Il burro invece, se non è stato
chiarificato eliminando le proteine contenute, inizia a bruciare
man mano che ci si avvicina 150 °C. Fate quindi a enzione quando
lo usate per un soffri o.
Quando si soffriggono fe e di carne o di pesce, molto spesso le
si ricopre con una panatura: uno strato di amido che può arrivare
dalla farina, dal pangra ato, da grissini e cracker sbriciolati o
dall’amido puro vero e proprio, eventualmente dopo averle
immerse in una ba uta d’uovo che funge da collante, senza
aggiunta di sale. Lo scopo della panatura è proteggere la superficie
della carne o del pesce dalle temperature elevate dell’olio,
riducendo quindi la perdita di umidità, che invece avviene nella
panatura. L’olio o il burro friggono la panatura esterna, la quale
assorbe l’umidità che si sviluppa dalla carne e la dissipa nel grasso
bollente.
Nella cucina italiana l’emblema di questo tipo di co ura è la
cotole a alla milanese – rigorosamente soffri a nel burro
chiarificato – o le innumerevoli rice e simili che si trovano in
tu a la penisola. Nella versione casalinga, invece della costole a
di vitello, presa dal carré, si usano più spesso i pe i di pollo o la
carne di maiale, sempre ben appia iti per ridurre i tempi di
co ura ma sopra u o per aumentare la superficie croccante e
gustosa, la vera goduria di una cotole a.
CONSIGLIO
La temperatura del grasso utilizzato è cruciale
per la buona riuscita di una panatura fri a. Se
è troppo elevata rischiate di bruciare la
superficie, cosa che avverrà anche se usate
troppo poco grasso, una parte del quale sarà
comunque assorbito dall’amido. Se ne resta
troppo poco per coprire il fondo della padella,
le parti scoperte aumenteranno troppo di
temperatura bruciando i residui. Se invece la
temperatura è troppo bassa, l’olio verrà
assorbito dalla panatura, che risulterà tu a
fuorché asciu a e invitante.
FRIGGERE
Fri o è buono anche il cartone. Forse esagero, ma è indubbio che
la fri ura sia uno dei metodi di co ura più amati e diffusi al
mondo. Praticamente ogni cultura ha saputo estrarre dai vegetali
e persino dagli animali disponibili grassi più o meno puri che,
scaldati ad alta temperatura, possono essere usati per trasformare
cibi crudi dal sapore blando o coriacei o addiri ura tossici in una
prelibatezza. Pensate alle patate: devo ancora trovare un bambino
a cui non piacciano le patatine fri e.
Una fri ura in olio è una co ura asciu a: l’acqua viene espulsa
molto velocemente dall’alimento a causa delle temperature molto
alte raggiunte. Solitamente si frigge a temperature comprese tra
160 e 180 °C. Il ribollire che si vede quando depositate –
cautamente, mi raccomando – un pezzo di carne o verdura nell’olio
bollente è acqua che istantaneamente si trasforma in vapore.
L’acqua può provenire dall’alimento, per esempio quando
friggiamo delle patatine, ma anche dalla pastella eventualmente
utilizzata per ricoprire i pezzi da friggere. L’evaporazione
istantanea dell’acqua lascia delle cavità nella crosta asciu a che si
sta formando che vengono pian piano riempite dall’olio. Ecco
perché la temperatura di fri ura è cruciale: se è troppo bassa
l’acqua non evaporerà abbastanza rapidamente e la pressione del
vapore non sarà sufficiente per evitare che l’olio penetri troppo
velocemente. Il risultato sarà una crosticina unta e molliccia per
l’umidità residua invece che asciu a e croccante. Se, al contrario,
la temperatura è troppo elevata, il cibo rischia di bruciarsi
velocemente.
L’ANGOLO CHIMICO
L’OLIO Da sempre l’uomo ha sfru
ato i semi di alcune
piante, o i fru i, come le olive, per estrarre grassi da
usare per gli usi più diversi: per nutrirsi, da usare
come combustibile, per dipingere, produrre creme,
saponi, profumi e molto altro. Il metodo più antico
per estrarre l’olio, e anche il più semplice, è quello
meccanico: si schiacciano i semi o i fru i sin quando
liberano l’olio. Questo metodo funziona solo se i
grassi sono presenti in grande quantità. Le nocciole
o il sesamo, per esempio, contengono più del 50% di
grassi e sono utilizzati da millenni per produrre oli.
Un metodo più recente, usato per semi poco grassi
come il mais, è l’estrazione per mezzo di un solvente
che viene poi fa o evaporare e non rimane nel
prodo o finale.
SEMI O
GRASSI CONTENUTI
FRUTTI
(PERCENTUALE INDICATIVA)
Noci
76%
macadamia
Nocciole
61%
Arachidi
48%
Soia
20%
Olive
15%
Mais
1%
Probabilmente la carne che più spesso viene fri a, dopo essere
stata impanata, è quella del pollo. Il pollo fri o è talmente buono,
e contemporaneamente abbastanza dispendioso e difficile da
preparare a casa, che da tempo sono nate delle catene di fast food,
anche in Italia, specializzate in questa leccornia.
La fri ura è il procedimento di preparazione degli alimenti che
me e più a dura prova la stabilità dell’olio: se riscaldato ad alte
temperature, infa i, può andare incontro a ossidazioni e
degradazioni, con conseguente formazione di sostanze nocive.
Una temperatura troppo elevata o un uso prolungato dello stesso
olio possono rendere più marcati gli effe i di queste reazioni, che
influenzano sia gli aspe i gustativi che quelli salutistici.
Gli oli non sono tu i uguali. Ci sono quelli che hanno un sapore
più intenso, come quello extravergine di oliva, e altri, come quelli
di soia e di riso, che sono molto più neutri. Al di là del sapore, che
può essere desiderato o meno in una fri ura, ci sono differenze
marcate anche dal punto di vista chimico e fisico. Anche se non ne
esiste uno più indicato degli altri per friggere, ci sono però una
serie di regole da seguire che ci perme ono di scegliere, tra tu i
gli oli disponibili, quelli più ada i alle fri ure.
L’ANGOLO CHIMICO
LA STABILITÀ DELL’OLIO Le autorità sanitarie da qualche
anno suggeriscono di friggere alcuni alimenti, come
le patatine, a temperature inferiori a 170 °C, per
ridurre la formazione di composti tossici come
l’acrilammide.
LE REGOLE PER UNA BUONA FRITTURA
1
Prediligete oli ricchi di grassi
monoinsaturi come quelli di oliva o di
arachidi.
2
Misurate la temperatura dell’olio con un
termometro. Non scendete so o i 160
°C, perché il cibo si inzupperebbe di olio
o rimarrebbe molliccio, e non superate i
180 °C, perché rischiereste di bruciare
tu o.
3
Usate una quantità adeguata di olio. Se
ne usate troppo poco l’aggiunta del cibo
può far scendere la temperatura so o i
150 °C e la vostra fri ura risulterà molto
unta o molliccia.
4
Friggete pochi pezzi alla volta, scolando
mano a mano quelli già co i e
me endo in padella quelli ancora da
friggere. Se aggiungete tu i i pezzi in
una volta sola rischiate di abbassare
troppo la temperatura dell’olio.
5
Meglio non riutilizzare un olio già usato
in precedenza per friggere; se usate una
friggitrice, non rabboccate mai il
vecchio olio con quello fresco:
sostituitelo completamente.
6
Non allontanatevi mai mentre friggete.
Superato il punto di fumo, l’olio
potrebbe incendiarsi. Per precauzione
tenete sempre a portata di mano un
coperchio per chiudere
immediatamente il recipiente di fri ura
e soffocare le fiamme nel malaugurato
caso dovesse succedere.
NON TUTTI GLI OLI SONO UGUALI
Sono pronto a scomme ere che nella vostra cucina, come in ogni
altra cucina italiana, c’è almeno una bo iglia di olio di oliva,
magari persino extravergine. Dopo tu o, è l’olio della cultura
mediterranea. Lo usiamo per condire insalata e pomodori, ma
anche per preparare il sugo per la pasta. Probabilmente avrete
anche altri oli. Io, per esempio, tengo sempre in casa una bo iglia
di olio di arachidi, ma anche quelli di mais, soia o girasole sono
piu osto comuni. A vederli, a parte il colore e l’aroma, sembrano
più o meno tu i uguali, ma chimicamente possono essere molto
diversi.
Per soffriggere, dato che non si raggiungono temperature molto
elevate, vanno bene più o meno tu i gli oli e, facendo a enzione,
persino il burro non chiarificato. In una fri ura, invece, l’olio viene
so oposto a un riscaldamento violento, intenso e prolungato che
ne comprome e la stabilità chimica, quindi per capire quali sono
quelli più ada i dobbiamo scendere un po’ nel de aglio.
Dal punto di vista chimico, oli e grassi sono quasi
esclusivamente composti da trigliceridi. È un nome che forse
avrete già le o sui referti delle vostre analisi del sangue. I
trigliceridi contengono tre acidi grassi che si classificano in saturi,
monoinsaturi e polinsaturi. Senza entrare nel de aglio chimico, vi
basti sapere che tu i i grassi e gli oli alimentari sono composti
sempre dagli stessi acidi grassi, sia saturi che insaturi, combinati
in proporzioni diverse e cara eristiche. Ed è questo che li
differenzia principalmente l’uno dall’altro dal punto di vista
chimico.
MOLECOLA DI TRIGLICERIDE INSATURO
LO SAPEVATE CHE?
In cucina usiamo molti tipi di grassi.
Alcuni, come il burro o lo stru o, sono
solidi o semisolidi a temperatura
ambiente, mentre altri sono liquidi e
vengono colloquialmente chiamati oli,
con alcune eccezioni. Quelli con un
elevato contenuto di acidi grassi saturi,
come l’olio di palma o quello di cocco,
sono solidi a temperatura ambiente,
mentre quelli con una forte prevalenza
di acidi grassi insaturi, come l’olio di
oliva o di soia, sono liquidi.
L’olio di oliva non contiene “molecole di olio d’oliva”, ma una
miscela cara eristica di vari acidi grassi di cui l’acido oleico,
monoinsaturo, rappresenta circa il 75%. È proprio per il suo
elevato contenuto di acido oleico che le autorità sanitarie
nazionali e internazionali ne consigliano il consumo in
sostituzione di oli con un più alto contenuto di acidi grassi saturi.
Non fatevi prendere, però, dalla fobia dei grassi saturi perché
evitarli totalmente, ammesso che abbia senso farlo, è impossibile,
dato che ogni grasso alimentare contiene acidi grassi sia saturi
che insaturi. Il burro, per esempio, contiene l’acido butirrico e
l’acido palmitico, che sono acidi grassi saturi, ma anche l’acido
oleico, insaturo. Proprio lo stesso presente nell’olio di oliva: come
vi ho de o, i grassi sono sempre delle miscele. D’altra parte, il
burro proviene dal la e secreto dalle femmine dei mammiferi e
contiene sempre una buona percentuale di grassi saturi, intorno al
66-70%. E l’acido palmitico (quello del tanto vituperato olio di
palma) è presente anche nel la e materno. A questo punto non vi
stupirà sapere che anche l’olio di oliva contiene grassi saturi,
presenti per circa il 15%.
CONTENUTO MEDIO DEI VARI TIPI DI ACIDI GRASSI PER ALCUNI OLI E
GRASSI ALIMENTARI
OLIO DI
MANDORLA
Acidi grassi saturi:8%
Acidi grassi monoinsaturi:66%
Acidi grassi polinsaturi:26%
OLIO DI
AVOCADO
Acidi grassi saturi: 12%
Acidi grassi monoinsaturi: 74%
Acidi grassi polinsaturi: 14%
BURRO
Acidi grassi saturi: 66%
Acidi grassi monoinsaturi: 30%
Acidi grassi polinsaturi: 4%
OLIO DI
CANOLA
Acidi grassi saturi: 6%
(Colza a basso Acidi grassi monoinsaturi: 62%
contenuto di Acidi grassi polinsaturi: 32%
acido erucico)
OLIO DI
COCCO
Acidi grassi saturi: 92%
Acidi grassi monoinsaturi: 6%
Acidi grassi polinsaturi: 2%
OLIO DI RISO Acidi grassi saturi: 20%
Acidi grassi monoinsaturi: 47%
Acidi grassi polinsaturi: 33%
OLIO DI MAIS Acidi grassi saturi: 13%
Acidi grassi monoinsaturi: 25%
Acidi grassi polinsaturi: 62%
OLIO DI SEMI Acidi grassi saturi: 24%
DI COTONE
Acidi grassi monoinsaturi: 26%
Acidi grassi polinsaturi: 50%
OLIO DI SEMI Acidi grassi saturi: 11%
DI LINO
Acidi grassi monoinsaturi: 21%
Acidi grassi polinsaturi: 68%
OLIO DI
Acidi grassi saturi: 12%
VINACCIOLO Acidi grassi monoinsaturi: 17%
Acidi grassi polinsaturi: 71%
OLIO DI
CANAPA
Acidi grassi saturi: 9%
Acidi grassi monoinsaturi: 12%
Acidi grassi polinsaturi: 79%
OLIO D’OLIVA Acidi grassi saturi: 15%
Acidi grassi monoinsaturi: 75%
Acidi grassi polinsaturi: 10%
OLIO DI
PALMA
Acidi grassi saturi: 52%
Acidi grassi monoinsaturi: 38%
Acidi grassi polinsaturi: 10%
OLIO DI SEMI Acidi grassi saturi: 18%
D’ARACHIDE Acidi grassi monoinsaturi: 49%
Acidi grassi polinsaturi: 33%
OLIO DI
SESAMO
Acidi grassi saturi: 14%
Acidi grassi monoinsaturi: 43%
Acidi grassi polinsaturi: 43%
OLIO DI SOIA Acidi grassi saturi: 15%
Acidi grassi monoinsaturi: 24%
Acidi grassi polinsaturi: 61%
OLIO DI
GIRASOLE
Acidi grassi saturi: 11%
Acidi grassi monoinsaturi: 20%
Acidi grassi polinsaturi: 69%
PUNTO DI FUMO E RESISTENZA ALL’OSSIDAZIONE
Quando riscaldiamo un olio ad alte temperature, l’esposizione
all’ossigeno dell’aria e la presenza del cibo, contenente acqua,
innescano processi di degradazione e ossidazione che formano
sostanze nocive, come l’acroleina. Più la temperatura è alta, più le
trasformazioni sono veloci. Il “punto di fumo” è la temperatura
approssimata alla quale l’olio comincia a produrre fumi tossici, ma
a differenza dell’acqua, le molecole dell’olio vengono distru e
prima che inizi a bollire. Quindi, è importante scegliere un olio che
abbia un punto di fumo ben superiore alla temperatura di fri ura.
Purtroppo non esistono tabelle precise e affidabili dei punti di
fumo – e la rete è piena di tabelle poco a endibili – perché questi
dipendono dalla presenza di impurezze e dagli acidi grassi liberi –
non legati in un trigliceride – che possono variare molto anche
all’interno di uno stesso tipo olio, a seconda di come è stato
prodo o e trasformato.
Sappiamo che la raffinazione a cui sono so oposti molti oli
riduce la quantità di acidi grassi liberi e di altre impurezze,
alzando il punto di fumo. Quindi, un olio di oliva raffinato può
avere un punto di fumo più elevato di un extravergine, non
raffinato.
Oltre al punto di fumo, un altro parametro fondamentale per la
scelta di un olio da fri ura è la resistenza all’ossidazione,
specialmente nel caso di fri ure prolungate. Come regola
generale, ricordatevi che i grassi saturi resistono meglio
all’ossidazione dei grassi monoinsaturi, che a loro volta resistono
meglio dei grassi polinsaturi.
Quindi, seguendo la regola, per friggere dovremmo scegliere
grassi prevalentemente saturi, come lo stru o e l’olio di palma.
Purtroppo, anche la fri ura migliore assorbe una buona quantità
di grasso e le autorità sanitarie consigliano una dieta con grassi
per la maggior parte insaturi. Tra questi, gli oli prevalentemente
monoinsaturi, come quelli di oliva, di nocciole e di arachidi, hanno
una buona resistenza all’ossidazione. L’olio di oliva, contiene anche
antiossidanti che ne migliorano la stabilità nel tempo. Perciò può
essere riutilizzato a livello casalingo anche un paio di volte, a pa o
di filtrarlo, eliminare tu i i residui contenuti e conservarlo al
freddo o, ancora meglio, in freezer.
Gli oli prevalentemente polinsaturi, come quelli di mais e di soia,
si deteriorano velocemente se esposti all’aria e alle alte
temperature. L’olio di girasole, ricco di grassi polinsaturi, si
decompone ancora più in fre a, a meno che non sia del tipo “alto
oleico”, contenente una percentuale di acido oleico simile a quella
dell’olio di oliva.
Gli oli più ada i per le fri ure, specialmente se prolungate, sono
quelli raffinati e ricchi di acidi grassi monoinsaturi, come l’olio di
oliva o l’olio di semi di arachide, uno dei più utilizzati anche grazie
al suo punto di fumo particolarmente alto, superiore a 200 °C.
L’ANGOLO CHIMICO
CLASSIFICAZIONE DEGLI ACIDI GRASSI Gli acidi grassi si
classificano in base al numero di doppi legami che
contengono. Gli acidi grassi saturi, come l’acido
palmitico o l’acido stearico, non hanno doppi legami
e sono molto stabili. Gli acidi grassi insaturi, come
l’acido oleico, contengono uno (monoinsaturi) o più
(polinsaturi) doppi legami tra atomi di carbonio. Si
dicono insaturi perché hanno ancora la possibilità di
legare altri atomi di idrogeno e saturare lo spazio
disponibile.
RICETTA
FAJITAS
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come, tagliandolo a piccole
strisce, si possa saltare in padella un taglio saporito ma non
molto morbido, riducendo la lunghezza delle fibre e quindi
la percezione della durezza in bocca.
Quando, giovane studente di do orato in chimica, sono stato
mandato negli Stati Uniti per un periodo di studio e ricerca, ho
avuto il primo entusiasmante conta o con le molte cucine del
mondo. I ristoranti etnici in Italia non erano ancora molto diffusi,
neppure quelli cinesi, e quindi passai quell’anno anche a
sperimentare ristoranti e baracchini da street food di ogni parte
del pianeta. E lì scoprii la cucina messicana, o almeno la sua
versione americanizzata. Gli ingredienti sono molto simili a quelli
che usiamo nella nostra cucina quindi, volendo, non è difficile
gustare qualche pia o messicano senza neppure uscire da casa
propria.
Un classico molto semplice da preparare, e molto gustoso, sono
le fajitas. Le servono in ogni ristorante messicano presente in
Italia, insieme alle enchiladas e ai tacos. In realtà, come scoprii
anni più tardi andando in Messico, i pia i originali sono diversi
dalla versione americanizzata a cui ero abituato, ma sempre
gustosi. Si usa solitamente un taglio di carne saporito e molto
pia o, come il diaframma, chiamato da noi anche cartella o
lombatello piccolo. È un muscolo magro ma con un contenuto
medio di tessuto conne ivo, quindi va co o velocemente ad alta
temperatura e poi tagliato a striscioline. Una variante
popolarissima si può preparare con dei pe i di pollo ba uti e
tagliati.
Dato che i tagli utilizzati sono pia i si può sfru are l’ampia
superficie per insaporire la carne. Se cucinate alla griglia è meglio
cospargerla con un rub, una miscela di sale, spezie e aromi. La
co ura alla griglia di tagli così so ili, infa i, è molto veloce, e
potrebbe non esserci il tempo di far evaporare tu a l’umidità dalla
superficie; questo ritarderebbe la formazione della crosticina
gustosa. Il pezzo di carne va messo sulla griglia intero e a fuoco
dire o. È un taglio so ile, quindi fate a enzione a cuocerlo al
sangue o al massimo a co ura media, o diventerà troppo duro. Lo
taglierete solo dopo la co ura, e solo dopo aver aspe ato 5 minuti,
per perme ere ai succhi di ridistribuirsi e alle fibre di riassorbirli
un po’.
Nella versione in padella, più facile da preparare in cucina, la
carne non riuscirà a sviluppare la crosticina asciu a tipica della
grigliata, quindi tanto vale marinare la carne. Per aumentare la
superficie disponibile e velocizzarne la co ura, taglieremo la
carne a striscioline prima di cuocerla.
INGREDIENTI
PER 4-6
PERSONE
1 kg di carne di diaframma
1 cipolla rossa grande
3 lime (o 2 limoni)
1 peperone verde
1 peperone rosso
peperoncini jalapeño
olio extravergine di oliva
sale
pepe
PROCEDIMENTO
1
Tagliate la carne a strisce di circa 1-1,5 cm di larghezza. Se state
usando il diaframma tagliate perpendicolarmente alle fibre.
Spremete i lime o, se non li avete, i limoni. Aggiungete un po’ di
sale, a vostro gusto, e pepe macinato. Questa è la marinata base: se
volete potete aggiungere erbe e aromi. A me piace molto il
coriandolo, parente del prezzemolo e molto usato nella cucina
messicana, ma alcune persone lo detestano, perché trovano che
abbia un sapore a metà tra il detersivo per i pia i e le cimici verdi.
Se siete tra costoro, me etevi il cuore in pace: è un fa ore
genetico, non vi piacerà mai.
2
Me ete il liquido in un sacche o di plastica con chiusura a zip
insieme alla carne. Muovete un po’ con le mani il contenuto in
modo da distribuire bene la carne nella marinata. Me ete il
sacche o in un contenitore di plastica, per precauzione, nel caso si
aprisse, e riponete in frigorifero per un’ora.
3
Tagliate le verdure. Io amo il colore brillante dei peperoni: usate
almeno un peperone verde e uno rosso, le fajitas sono un pia o
colorato. Io ci aggiungo anche un peperone giallo oppure uno di
quelli arancioni che da qualche tempo si trovano in vendita. Dopo
averli puliti dai semi e aver eliminato la parte bianca interna, la
placenta, appia iteli e tagliateli a striscioline larghe 5-10 mm e
lunghe 5-10 centimetri. Me ete i peperoni in una bacinella e
ungeteli con qualche cucchiaio d’olio, in modo che la superficie sia
ben unta.
4
Tagliate anche la cipolla. Io preferisco usare quelle a buccia rossa:
in questa rice a tu a colorata ci stanno benissimo e in più trovo
che abbiano un sapore meno aggressivo di quelle bianche o gialle.
Tagliatela a spicchi un po’ so ili in modo che, in co ura, si
dividano i vari segmenti, oppure, se preferite, tagliatela ad anelli
dello spessore di 5 mm circa. Tenetela separata dai peperoni:
questi cuociono più lentamente delle cipolle, quindi finiranno in
padella per primi.
5
Passata un’ora, levate la carne dal frigorifero, toglietela dalla
marinata e me etela a scolare per bene. Il liquido, per ragioni
sanitarie, va ge ato e non può essere riutilizzato. Scaldate una
padella sul fuoco, meglio se di ghisa e pesante. Le temperature in
co ura devono sempre rimanere molto alte, per vaporizzare
l’acqua che le verdure cominceranno a espellere non appena
inizierete a farle saltare. Se la padella è piccola meglio cuocerle in
più blocchi, per evitare il sovraffollamento.
6
Quando la padella è molto calda – ve ne accorgete perché una
goccia d’acqua lasciata cadere si muoverà velocemente
vaporizzandosi – tenendo sempre il fuoco abbastanza alto
ge atevi dentro i peperoni. E ricordatevi di accendere la cappa
aspirante! Se non si alza del fumo misto a vapore vuol dire che la
padella non era abbastanza calda. Spargete un po’ di sale sui
peperoni: aiuterà a estrarre l’acqua più velocemente, per osmosi.
Fateli saltare per qualche minuto, stando a enti a non farli
bruciare. Se vi piace il piccante tagliate a fe ine uno o più
peperoncini jalapeño, ripuliti dai semi, e aggiungeteli in padella. Io
ce li me o, ma vedete voi.
7
Quando i peperoni si sono un po’ ammorbiditi aggiungete la
cipolla e continuate a far saltare per evitare che le verdure si
a acchino e brucino. Se la temperatura della padella si abbassa si
formerà una pozza d’acqua e o errete delle verdure bollite. Se vi
rendete conto di aver messo troppo poco olio, potete aggiungerne
dire amente in padella. L’olio, a differenza dell’acqua, può essere
scaldato a temperature superiori a 140 °C, necessarie perché
avvenga la reazione di Maillard.
8
Togliete dalla padella le verdure quando saranno ammorbidite, ma
non mollicce. Assaggiate! Riponetele in una bacinella coperte.
9
Ora tocca alla carne. La padella, da cui avrete tolto eventuali
residui di verdure, dovrebbe essere già unta a sufficienza,
altrimenti aggiungete un filo d’olio. Riportatela in temperatura e
aggiungete i pezzi di carne, cercando di tenerli ben separati e di
non affollare troppo la padella. Fateli saltare per qualche minuto a
fuoco vivo. La co ura deve essere al sangue o al massimo media.
10
Quando la carne avrà sviluppato un bel colore, aggiungete le
verdure e fate saltare il tu o per qualche decina di secondi: giusto
il tempo di amalgamare e far evaporare l’acqua dalla superficie di
peperoni e cipolle. Spegnete il fuoco. Se preferite fare come al
ristorante potete servire in tavola separatamente la carne e le
verdure.
11
Regolate di sale. Se volete essere filologici, vi servono delle
tortillas. Le potete comprare confezionate in qualsiasi
supermercato o negozio di alimenti etnici. Dovete solo scaldarle
velocemente usando una padella antiaderente calda. Comprate le
più so ili che trovate.
12
Servite la carne in tavola con le tortillas, la salsa guacamole e della
salsa piccante messicana. Me ete nel centro di una tortilla un po’
di carne e verdure, un po’ di guacamole e un po’ di salsa. Arrotolate
e buon appetito.
BONUS
TRACK
IL GUACAMOLE
Ormai sia nei supermercati sia dai fru ivendoli è possibile
acquistare fru a che una volta si poteva incontrare solo durante
qualche viaggio in paesi lontani. Sicuramente un fru o tra i più
curiosi è l’avocado, usato prevalentemente come un ortaggio: in
insalata, come condimento o per preparare salse. Un po’ come il
pomodoro, che botanicamente è un fru o ma non lo tra iamo
come una fragola o una mela.
L’avocado è originario del Messico del Sud e del Centro America.
Gli Aztechi lo consideravano un afrodisiaco e gli diedero il nome
ahuacatl, che significa «testicoli», sia per la forma del fru o sia per
come pende dall’albero. Gli spagnoli, non riuscendo a pronunciare
corre amente la parola azteca, lo chiamarono aguacate,
modificatosi poi in abogado in spagnolo moderno e avocado in
inglese e in italiano.
Ha la particolarità, per un fru o fresco, di essere piu osto
povero di carboidrati e molto ricco di grassi, anche fino al 30%, a
seconda della varietà. Per questo motivo veniva utilizzato su
molte navi nel Se ecento come sostituto del burro, spalmato sulle
galle e; per questo fu soprannominato “il burro del marinaio”.
È nella preparazione delle salse che questo fru o dà il meglio di
sé. E, tra le varie rice e, la mia preferita è il guacamole, una salsa
messicana usata per accompagnare pia i di carne e pesce, ma che
può essere consumata anche da sola con delle tortilla chips, i
triangolini di farina di mais.
Ci sono mille modi diversi per preparare il guacamole, una salsa
semplice con infinite varianti, a seconda del gusto personale. Le
due principali varietà di avocado in commercio sono la Fuerte e la
Hass. La differenza fondamentale sta nella buccia del fru o
maturo: la varietà Fuerte, dalla forma allungata simile ad una
pera, mantiene la buccia verde mentre la varietà Hass, più
pregiata e dalla buccia corrugata, diventa viola scuro o addiri ura
nera a maturazione avvenuta. Tra le due, scegliete sicuramente la
Hass.
Il punto cruciale, dal punto di vista chimico, nella preparazione
di un buon guacamole è impedire che la polpa passi rapidamente
da un bel verde brillante a un colore bruno-verdastro poco
invitante. Il colpevole del cambiamento di colore è un enzima, la
polifenolossidasi, responsabile anche dell’annerimento del basilico
nel pesto. L’enzima utilizza l’ossigeno dell’aria per ossidare i
polifenoli, formando tu a una serie di composti bruno-nerastri
simili a quelli della nostra pelle quando ci abbronziamo.
Possiamo comba ere il cambiamento di colore in due modi:
so raendo ossigeno all’enzima oppure rallentando la sua a ività.
L’esposizione all’ossigeno che viene a conta o con la salsa, già
preparata, si può ridurre utilizzando la pellicola per alimenti, utile
sopra u o se si vuole preparare il guacamole in anticipo e
conservarlo qualche ora in frigorifero.
L’enzima, poi, rallenta la sua azione se è in presenza di sostanze
acide e, guarda caso, questo accorgimento è addiri ura presente
nella rice a originale, che prevede di aggiungere del succo di lime,
un agrume cugino del limone. In mancanza del lime potete
utilizzare il succo di limone, che però ha un gusto più forte e
rischia di sovrastare il sapore delicato dell’avocado.
INGREDIENTI
PROCEDIMENTO
1
1-2 avocado
1/2 cipolla rossa
2 lime
1 spicchio di aglio
coriandolo fresco
1 pomodoro maturo ma sodo
(facoltativi)
sale
Cominciamo con la parte che, per chi non ha mai svuotato un
avocado, può risultare più problematica: aprire un avocado e
togliere la polpa. Prendete l’avocado maturo – dovete sentirlo un
po’ cedevole al ta o – e con un coltello affilato praticate un solco
lungo tu o il perimetro più lungo, dalla punta al fondo. Dovete
affondare la lama del coltello sino a sentire il seme. Il fru o si
dividerà in due.
2
C on un colpo ne o – facendo a enzione a non farvi male –
affondate un po’ un grosso coltello nel seme.
3
Ora, ruotando il coltello, dovreste riuscire ad estrarre il seme
senza problemi.
4
Ora potete svuotarlo. Tenete nel palmo di una mano una metà di
avocado, e scavatela con un cucchiaio versando il contenuto in
una ciotola.
Se il fru o è duro e non riuscite a scavarlo significa che non è
ancora maturo: bu atelo e preparate qualcos’altro. Se invece la
polpa è annerita, significa che ha passato la fase o imale di
maturazione. Se ha un odore sgradevole bu atelo e, come sopra,
preparate qualcos’altro
5
Con una forche a schiacciate grossolanamente la polpa estra a
dall’avocado e aggiungete immediatamente il succo di lime,
mescolando bene. Che non vi venga in mente di usare un
frullatore, un robot o uno schiacciapatate: il guacamole non deve
essere una pappe a e devono rimanere anche dei pezze ini non
completamente rido i in poltiglia. La forche a è più che
sufficiente.
Il lime manterrà la polpa verde brillante più a lungo.
6
A questo punto potete aggiungere gli altri ingredienti, variando le
quantità a seconda del vostro gusto: uno spicchio di aglio
spremuto con lo spremiaglio, un po’ di sale, mezza cipolla tagliata
molto fine. Io nel guacamole preferisco la cipolla rossa. Qualcuno
aggiunge anche del coriandolo fresco, ma non a tu i piace, e un
piccolo pomodoro maturo tagliato a dadini.
Ecco il guacamole, pronto per essere gustato.
7
Se volete conservarlo in frigorifero per qualche ora copritelo con
pellicola per alimenti, schiacciandola bene sulla salsa per
eliminare il più possibile le sacche d’aria.
LA MATURAZIONE DELL’AVOCADO
Una peculiarità dell’avocado è che, a differenza di altri
fru i, dopo aver raggiunto la maturità fisiologica può
rimanere sulla pianta anche vari mesi. Solamente una volta
staccato dall’albero si innescano dei meccanismi enzimatici
che portano alla maturazione completa del fru o, con un
ammorbidimento della polpa e, nel caso dell’Hass, con un
annerimento della buccia. Una volta staccato dall’albero,
l’avocado aumenta la propria respirazione e inizia a
produrre etilene in quantità. Finché non è reciso le foglie
della pianta producono delle sostanze che inibiscono la
produzione di etilene. Questo ormone segnala al fru o di
entrare nella fase finale della maturazione. I fru i che si
comportano in questo modo sono chiamati climaterici e
possono maturare anche una volta recisi dalla pianta. Molti
fru i sono climaterici e producono etilene: ad esempio
mele, banane, pere, kiwi, pesche, meloni e pomodori
(botanicamente dei fru i). Questo è il motivo per cui se nel
cesto della fru a è presente una mela matura, viene
accelerata la maturazione dei fru i climaterici vicini. I
fru i non climaterici invece devono essere colti dalla
pianta a maturazione completa: una volta recisi la qualità
può solo diminuire. Alla lista appartengono fragole, mirtilli,
ciliege, uva, arance e limoni.
RICETTA
FILETTO AL PEPE
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come un taglio molto tenero
ma poco saporito, come il file o di bovino, possa essere reso
più gustoso con l’ausilio di una salsa costruita a partire dai
suoi fondi di co ura.
I miei figli amano la carne. Anche il più giovane, nonostante
ultimamente abbia sviluppato una passione smodata per il sushi,
ogni tanto mi chiede di preparargli una bistecca come si deve. Io
sono dell’idea che dobbiamo ridurre il nostro consumo di carne – il
che potrà forse far sorridere qualcuno, visto che ho scri o il libro
che avete in mano – ma quando la si mangia deve essere tenera e
bella saporita. “Meno spesso ma più buona” è il mio mo o. Queste
cara eristiche, apprezzate non solo dai miei figli ma anche da
milioni di mangiatori di bistecche nel mondo, hanno un costo,
inutile girarci intorno. Fin da bambini apprezzavano le bistecche
di file o di vitellone. Con l’età hanno imparato ad apprezzare tagli
meno teneri e più saporiti, ma il file o, per loro, è un po’ il
“richiamo della foresta”: non possono rinunciarvi quindi, per
risparmiare, anche se lo preparo una volta ogni paio di mesi,
compro pezzi interi, da 1-2 kg o più, da cui poi taglio le bistecche
dello spessore desiderato.
Oltre a un indubbio risparmio, a volte pari al 30%, l’acquisto di
pezzi interi offre altri vantaggi: se il vostro supermercato vende la
carne so o vuoto potrete conservarla un po’ più a lungo nel
vostro frigorifero senza problemi. E, come sapete, nel fra empo
gli enzimi continueranno ad agire e a migliorare la consistenza. In
più potete essere certi di tagliarlo in modo che abbia uno spessore
regolare. A volte mi capita di vedere bistecche preconfezionate di
forma non regolare: sono tu o tranne che un cilindro. In padella
cuoceranno più velocemente da una parte che dall’altra. Meglio
evitare.
Per occasioni particolari, quando avete una decina di ospiti o
più, può essere addiri ura conveniente acquistare il file o intero
– il muscolo, intendo – all’ingrosso, e pulirlo. Non è difficile.
Poiché il file o è poco saporito, molte rice e ne rinforzano il
sapore costruendo salse più o meno complesse con cui servirlo.
Vediamone una in cui il pepe funge da contrasto.
INGREDIENTI
PER 2-4
PERSONE
2-4 file i piccoli alti 3 cm
125 ml di panna fresca
1/2 bicchiere di brandy o cognac
1 scalogno
sale
pepe in grani
olio extravergine di oliva
burro
PROCEDIMENTO
1
Preparate il pepe: schiacciate i grani con un pestacarne, dopo
averli coperti con un telo. Se lo avete, usate pure un mortaio col
suo pestello. Non usate il pepe già macinato perché ha perso la
sua fragranza. Schiacciatene abbastanza da poter ricoprire le due
facce di ogni file o.
2
Io adoro il pepe, ma se è troppo pungente potrebbe infuocare il
palato di qualche vostro ospite. Per ridurre l’effe o potete cuocere
il pepe con un po’ d’olio in un pentolino a fuoco bassissimo –
stando a enti a non farlo bruciare – per 5 minuti. Lasciate
raffreddare e, nel fra empo, tritate lo scalogno.
L’ANGOLO CHIMICO
LA PIPERINA La principale sostanza responsabile del
sapore pungente del pepe è la piperina, che stimola il
nervo trigemino. Tecnicamente, quindi, non è un
vero e proprio sapore, perché non stimola le papille
gustative. Se viene riscaldata, la piperina si
trasforma in parte in una sostanza meno pungente.
3
Salate le bistecche su entrambi i lati e premetevi sopra il pepe con
le mani. Usando della pellicola per alimenti schiacciatelo ben bene
dentro la carne. Questa operazione è importante: se il pepe non è
stato ben schiacciato ci sarà poco conta o tra la padella e la
superficie della carne, e questa non brunirà bene.
4
Poiché dovremo costruire una salsa con i fondi che la carne
lascerà nella padella, risultato della reazione di Maillard, usatene
una di metallo, non antiaderente. L’acciaio va benissimo, ma anche
la ghisa. Me ete la padella sul fuoco e, quando è molto calda,
aggiungete un cucchiaio d’olio e un poco di burro. Non
raggiungeremo temperature molto alte, quindi possiamo usare un
po’ di burro per dare sapore al file o. Non usate olio extravergine:
meglio un semplice olio di oliva oppure un olio di semi neutro.
5
Lasciate sciogliere il burro nell’olio e fatelo schiumare in modo da
eliminare tu a l’acqua. Quando il burro cambia colore e il suo
aroma comincia a diffondersi è il momento di aggiungere i file i.
È importante che siano a temperatura ambiente, altrimenti la
temperatura diminuirà troppo. Cuocete 3-4 minuti per parte.
Ormai sapete che non dovete muoverli. Non usate una padella
troppo grande, altrimenti l’olio schizzerà un po’ ovunque. Un po’ di
fumo, comunque, me etelo in conto.
6
Togliete la carne dalla padella; per non farla raffreddare troppo
potete ricoprirla con un foglio di alluminio per alimenti o, ancora
meglio, sistemarla su una teglia in forno a 60 °C. Ora è il momento
di trasformare i fondi a accati alla padella in una salsa.
Aggiungete lo scalogno tritato e, con una spatola o un cucchiaio,
muovetelo per iniziare a staccare i fondi.
7
Portate la padella ad alta temperatura, senza far bruciare i residui
e lo scalogno. Spegnete il fuoco e versate il brandy. L’alcol
evaporerà liberando i suoi fumi infiammabili: ecco perché vi ho
fa o spegnere il fuoco. Se non avete il liquore potete usare del
vino bianco.
8
Se ve la sentite, potete incendiare i vapori per o enere il flambé,
usando un fiammifero lungo o un accendigas in modo da restare a
debita distanza. Oltre a essere molto scenografica, la combustione
dell’alcol crea una serie di molecole aromatiche. Non è però
stre amente necessario e vi sconsiglio di farlo se sopra la padella
non avete abbastanza spazio libero: finireste per incendiare la
cappa o l’armadie o. Nei ristoranti c’è sempre a portata di mano
un estintore, a casa no. È una misura di sicurezza necessaria
perché, per quanto possiamo essere cauti, lavorando con fiamme
libere qualcosa può sempre andare storto.
9
Ora potete riaccendere il fornello a fuoco medio e, con una
spatola, continuare a staccare i fondi della padella. Quando il
liquido sarà quasi evaporato, aggiungete la panna fresca:
a enuerà il sapore pungente del pepe. Portate di nuovo a bollore a
fuoco medio sino a quando, riducendosi, il liquido non diventerà
più viscoso. Serviranno alcuni minuti. La salsa sarà un po’ dolce
per gli zuccheri contenuti nel liquore e nella panna. Regolate di
sale.
10
È il momento di servire i file i che avevate tenuto in caldo. Potete
rime erli nella padella e ricoprirli interamente con la salsa,
oppure me erli nel pia o e versare la salsa sopra.
RICETTA
PICCATA DI POLLO AL LIMONE
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come in una co ura in padella
si possa ridurre la disidratazione della carne ricoprendola
con della farina. Questa proteggerà parzialmente la carne
dal calore elevato della padella mantenendola umida.
Lo sapete che da decenni il consumo di pollame nel mondo è in
continua crescita? La carne di pollo è quella più consumata al
mondo: nel 2015 ne sono stati prodo i 88 milioni di tonnellate. Gli
esperti del se ore prevedono una crescita continua del 2%
all’anno almeno fino al 2024. L’Italia, con le sue 900.000 tonnellate
prodo e nel 2015, è completamente autosufficiente, e gli esperti
pensano che nel giro di pochi anni anche nel nostro paese i
consumi di pollo supereranno quelli di carne bovina.
I consumatori, ormai, raramente comprano il pollo intero: si
avventano sopra u o su pe o e cosce, ma mostrano di
apprezzare particolarmente i tanti preparati trasformati come
spiedini, hamburger, rollè e bocconcini. Prodo i che solo
trent’anni fa non erano neppure presenti sul mercato. Non so cosa
dicano le statistiche, ma sono pronto a scomme ere che una parte
di questo successo si deve ai bambini, e alla facilità con cui alle
fe e di pe o di pollo, che di solito non ha un sapore proprio
memorabile, si può applicare uno strato superficiale, per esempio
una panatura, che ne trasforma il sapore.
Scaloppine, scaloppe, piccate, cotole e sono tu e rice e che
prevedono una fe a di carne abbastanza so ile solitamente
ricoperta con liquidi più o meno addensati o una panatura fri a.
Sono spesso rice e nate per i tagli magri di vitello e di maiale,
meno saporiti di quelli di manzo, ma che si ada ano bene al pe o
di pollo, come questa piccata al limone.
INGREDIENTI 4 fe e di pe o di pollo
PER 2 PERSONE 2 limoni
capperi so o sale
1 scalogno o cipolla
1 bicchiere di brodo di pollo
prezzemolo
burro (facoltativo)
farina
olio extravergine di oliva
sale
pepe
PROCEDIMENTO
1
Se vi sentite a vostro agio con il coltello – che sia sempre ben
affilato, mi raccomando – potete tagliare da voi delle fe e da un
pe o di pollo intero disossato. In questo modo riuscirete a
o enere lo spessore che desiderate. Altrimenti usate pure le
confezioni già pronte, purché le fe e non siano troppo so ili.
2
Tagliate in due i limoni, fate a fe e abbastanza so ili mezzo
limone e spremete il resto. La scorza del limone è ricca di aromi: ci
servirà per intensificare il sapore in padella. Intanto prendete i
capperi – io ne me o circa 5-8 per ogni fe a – schiacciateli uno a
uno leggermente con le dita e me eteli in un bicchiere di acqua
calda. Sono so o sale, quindi vanno dissalati. Io li tengo per 10
minuti in acqua calda, poi la bu o, la sostituisco, e a endo per
altri 10 minuti. Se non avete quelli so o sale, che a mio parere
sono migliori, usate pure quelli so aceto o in salamoia, ma lavateli
comunque. Tritate finemente lo scalogno. Ha un sapore più
delicato delle cipolle e non sovrasterà gli altri sapori.
3
Asciugate le fe e con la carta assorbente da cucina e spargete un
po’ di sale e pepe su entrambi i lati. Infarinatele depositandole una
alla volta in un contenitore in cui avrete messo un po’ di farina,
scuotendole poi per eliminare l’eccesso. La leggera copertura di
farina ha più funzioni: serve a proteggere la carne del pollo da
un’eccesiva disidratazione in co ura, partecipa alla reazione di
Maillard e contribuirà, con l’amido contenuto, ad addensare un po’
il sughe o finale.
4
Prendete una padella d’acciaio e scaldatela a fuoco medio. Il
metallo, a differenza dei materiali antiaderenti, favorisce la
reazione di Maillard. Quando è in temperatura me ete un filo
d’olio e quando è caldo – noterete muovendo la padella che
diminuisce notevolmente la viscosità – depositate le fe e. Queste
non devono sovrapporsi, per lasciare lo spazio al vapore di
fuoriuscire. Non muovetele per un paio di minuti almeno. Quando
saranno ben dorate giratele. Quando saranno dorate anche
dall’altra parte toglietele e tenetele in caldo.
5
Sul fondo della padella dovrebbero essere rimasti dei fondi.
Abbassate il fuoco e aggiungete lo scalogno tritato, o la cipolla se
non lo avete. Muovetelo con un cucchiaio o una spatola per non
farlo a accare. Dopo circa un minuto dovrebbe essersi
ammorbidito.
6
Se volete una versione meno dietetica aggiungete due pezzi di
burro, che farete sciogliere muovendoli per la padella con una
forche a. È il momento di deglassare il fondo: aggiungete il brodo
di pollo. Se non lo avete potete usare del vino bianco leggero o, se
non avete neanche quello, dell’acqua.
7
Con un cucchiaio o una spatola cercate di gra are e sciogliere i
fondi, sempre con il fuoco acceso. Aggiungete il succo e le fe e di
limone che avete tagliato prima e cuocete per 5 o più minuti sino a
quando il liquido si sarà rido o abbastanza da poter bagnare le
fe e di pollo che avete già co o senza farle affogare nel liquido.
Unite i capperi e un po’ di prezzemolo tritato, a piacere.
8
Spegnete il fuoco e aggiungete le fe e di pollo. Giratele per far
aderire il liquido a entrambe le facce. Grazie ai capperi non
dovreste aver bisogno di salare.
COTTURE UMIDE (E LENTE)
L’ho scri o molte volte ormai, ma repetita juvant: il tessuto
conne ivo lasciato inta o – quindi non macinato, tagliato
o in qualche modo indebolito – una volta riscaldato a
temperature superiori ai 60 °C si indurisce ulteriormente
per la contrazione delle fibre di collagene rendendo molto
duro anche il miglior file o.
Se il taglio da cucinare ha un contenuto rido o di collagene
abbiamo già visto gli innumerevoli modi in cui si può preparare,
evitando che si indurisca e mantenendo la carne succosa. Se
invece il taglio prescelto ha troppo tessuto conne ivo, duro da
masticare e ben poco appetibile, va ammorbidito o sciolto, e al
cuoco viene richiesto di trovare un compromesso tra due opposte
esigenze: evitare che la carne si indurisca troppo, senza farle
perdere troppi succhi e al tempo stesso sciogliere abbastanza
velocemente il collagene che tiene insieme le fibre, usando
temperature superiori ai 75 °C, dato che a temperature inferiori il
processo è molto lento.
Se una bistecca di file o deve essere co a velocemente ad alta
temperatura, il reale, un taglio ricco di tessuto conne ivo, è più
ada o a una co ura umida e lenta per sciogliere il collagene e
formare la gelatina che lubrifica le fibre muscolari rendendo la
carne morbida al palato.
La carne meno tenera, che però spesso è anche la più saporita, si
cuoce in presenza di acqua o so o forma di la e, vino, birra, brodo
e persino dai succhi della fru a. Nel corso dei millenni anonimi
cuochi hanno inventato un’impressionante varietà di pia i
succulenti basati su questo principio: spezzatini, stufati, brasati e
così via.
CUOCIAMO IL TESSUTO CONNETTIVO
«In principio era il brodo di carne. Ma il brodo venne lasciato
troppo sul fuoco e venne molto concentrato. E allora il cuoco lo
tolse dal fuoco e lo mise al fresco a riposare. E fu sera e fu ma ina.
E il secondo giorno il cuoco scoprì che il liquido si era tramutato in
solido. E lo assaggiò. E il cuoco sentì che era cosa buona.»
La citazione pseudobiblica è ovviamente inventata, ma avrebbe
potuto benissimo essere presente nell’Antico Testamento, dato
che non sappiamo esa amente chi e quando nell’antichità scoprì
che dalla co ura prolungata in acqua di carne o ossa si poteva
o enere un liquido concentrato che, una volta raffreddato, si
inspessiva a tal punto da mantenere imprigionata l’acqua e gli
aromi formando la gelatina, il risultato dello scioglimento del
collagene in acqua. Egizi e Romani già la conoscevano e la
utilizzavano anche come collante, mentre nel Medioevo gelatine
di carne e pesce, variamente colorate e aromatizzate, erano spesso
parte dei banche i dei nobili.
Quando è acquistata in fogli da ammorbidire e sciogliere in
acqua è nota in Italia come “colla di pesce”. “Colla” per il suo uso
come collante, “di pesce” perché quando iniziò la sua produzione
semiindustriale, più di un secolo fa, la materia prima di base erano
le vesciche natatorie dei pesci, in particolare di storione. Ora l’80%
della gelatina alimentare prodo a in Europa deriva dalla cotenna
del maiale. Il 15% è ricavato da uno strato di collagene presente
so o la pelle dai bovini e il rimanente 5% deriva da ossa bovine e
suine. Nonostante non si usi più il pesce, la denominazione “colla
di pesce” è ancora di uso comune in gastronomia, a riprova del
fa o che nel mondo della cucina spesso i nomi rimangono
invariati anche se cambia la preparazione o la rice a a cui ci si
riferisce, creando a volte un po’ di confusione.
L’ANGOLO CHIMICO
IL TRIPTOFANO Tra gli amminoacidi che formano la
tripla elica del tropocollagene è completamente
assente il triptofano, amminoacido essenziale al
nostro organismo. Per questo motivo la gelatina non
può essere utilizzata come sostituto proteico
completo.
Il collagene dei mammiferi terrestri inizia ad ammorbidirsi a partire
da 55 °C e comincia denaturare a orno ai 60 °C: i filamenti della
tripla elica cominciano a separarsi allentando i legami e per fare
questo sono costre i a comprimersi longitudinalmente accorciando
e inspessendo la stru ura muscolare, rendendo più dura la carne e
strizzando le eralmente fuori l’acqua racchiusa nelle fibre. [FIGURA 1]
Continuando a scaldare, in presenza d’acqua, le tre eliche del
collagene si separano, e i filamenti singoli sciolti sono liberi di
flu uare in acqua: ecco la gelatina. [FIGURA 2]
Una volta separati, i filamenti mostrano comunque un’affinità e
cercano ancora di legarsi tra loro, anche se non in una tripla elica.
Ad alte temperature però gli urti tra molecole sono troppo violenti
per poter perme ere l’instaurarsi dei deboli legami. A mano a mano
che la temperatura cala, l’energia posseduta dalle molecole
diminuisce e gli urti cominciano ad essere sempre meno violenti e
ogni tanto, quando due molecole si avvicinano nel modo giusto,
rimangono legate. [FIGURA 3]
Il legame tu avia è debole e se la temperatura non è
sufficientemente bassa può rompersi di nuovo e i due filamenti
possono liberarsi e magari legarsi in un’altra posizione. Via via che
la soluzione si raffredda, il numero di legami aumenta, formando
una rete tridimensionale che le eralmente imprigiona le molecole
di acqua (nella FIGURA 4 rappresentata dai sassolini). Se nell’acqua
sono disciolte altre sostanze queste rimangono a loro volta
imprigionate. Noi chimici diciamo che si sta formando un gel: quella
particolare fase della materia a metà strada tra un liquido e un
solido. La gelatina quindi non è altro che il gel che si forma a partire
dal collagene.
La temperatura di fusione della gelatina è appena al di so o della
temperatura corporea, circa 35 °C, ed è per questo che, le eralmente,
si “scioglie in bocca”. Una cara eristica unica della gelatina che la
rende difficilmente sostituibile da altri comuni gelificanti e che
dona alla carne una sensazione unica.
L’ANGOLO CHIMICO
I TEMPI DI RAFFREDDAMENTO DELLA GELATINA Anche
quando riscaldiamo l’albume dell’uovo si forma un gel
che intrappola l’acqua contenuta all’interno. Tu avia
la trasformazione dell’albume non è reversibile perché
i legami chimici formati dalle molecole sono troppo
forti. La gelatina invece forma dei legami deboli che,
aumentando la temperatura, possono essere distru i
facendo tornare il sistema nella fase liquida.
Se volete preparare un aspic o una bavarese con la
colla di pesce sappiate che la velocità di
raffreddamento della gelatina è importante: un
raffreddamento lento perme e al collagene di
costruire un reticolo più resistente, formando più
legami e più stabili. Viceversa, raffreddando
rapidamente in frigorifero si o iene una gelatina
meno resistente.
COTTURE UMIDE
Ora che abbiamo visto cosa succede al collagene quando viene
riscaldato a lungo in presenza d’acqua, diamo un’occhiata ai vari
modi in cui possiamo sfru are, dal punto di vista gastronomico,
questo fenomeno. Quando i fasci muscolari e le fibre non sono più
tenute insieme dal tessuto conne ivo si staccano facilmente.
L’acqua che in precedenza era intrappolata nelle fibre se n’è andata
e la carne diventa progressivamente più dura e asciu a. Tu avia,
se il pezzo di carne conteneva una quantità sufficiente di
collagene, la gelatina ora può agire da lubrificante tra i fasci e le
fibre, facendoci percepire la carne tenera e succosa. Usando invece
un taglio povero di tessuto conne ivo la poca gelatina non sarà
sufficiente per o enere un effe o lubrificante. Non usate un
file o quindi per fare un bollito. Oltre che sprecare un sacco di
soldi non è neppure un taglio ada o.
Moltissime rice e prevedono la co ura di carne, con o senza
verdure o altri ingredienti, immersa parzialmente o totalmente in
un liquido acquoso. L’acqua è un buon condu ore di calore e
quindi trasferisce in modo molto efficiente l’energia al cibo che
dobbiamo cuocere. Vediamo alcuni dei principali metodi di
co ura.
BOLLITI
Iniziamo da quello più semplice e con meno ingredienti: la
bollitura. Teoricamente si può fare anche solo con carne e acqua
che la ricopra completamente. In pratica si usano anche vegetali
ed erbe aromatiche per arricchirne il sapore.
Come dice il nome, la bollitura è il processo per cui il cibo è
immerso nell’acqua all’ebollizione. Al livello del mare l’acqua pura
bolle a 100 °C. Se aggiungiamo del sale da cucina, questa bolle a
temperature un poco superiori, ma per le quantità di sale che
normalmente si usano in cucina l’effe o è assolutamente
trascurabile: la temperatura di ebollizione aumenta solo di una
frazione di grado.
Risulta invece più marcata la riduzione della temperatura di
ebollizione all’aumentare dell’altitudine. Io vivo circa a 300 m sul
livello del mare e da me l’acqua bolle a 99 °C. In montagna invece, a
un’altitudine di 2.000 m, bolle a 92 °C. In cima al Monte Bianco
l’acqua bolle addiri ura a 84 °C. Queste temperature sono
sufficientemente alte da coagulare e cuocere le proteine della
carne e quindi, nelle cucine di quasi tu i noi, le temperature
all’ebollizione sono tali da indurire tu e le fibre. La carne così
tra ata non può certo essere una prelibatezza e infa i ormai
sappiamo che anche nei bolliti la carne deve essere co a non
all’ebollizione ma a temperature molto più basse.
Ricordate che parlavamo di dover trovare un compromesso? In
un bollito, la carne deve cuocere il tempo necessario per sciogliere
il tessuto conne ivo ma non troppo da far uscire tu i i succhi e
perdere sapore. Se esagerate con i tempi tu o il sapore passerà nel
brodo che, invece, dovrebbe servire solo da accompagnamento alla
carne, unitamente alle salse.
Abbiamo visto che la co ura prolungata alle temperature di
ebollizione è sconsigliata, ma può però avere senso immergere
temporaneamente un alimento in acqua bollente per un tempo
limitato. Nella “sbianchitura”, un processo solitamente utilizzato
per i vegetali, l’immersione serve a disa ivare alcuni enzimi.
Oppure pensate al polpo che viene immerso brevemente in acqua
bollente per far arricciare i tentacoli.
LO SAPEVATE CHE?
Alcuni famosi bolliti della tradizione
italiana, come quello piemontese,
lombardo ed emiliano, sono serviti
solitamente in un carrello apposito in
quei pochi ristoranti che ancora li
preparano.
BRODI
Se lo scopo della co ura è o enere un buon brodo, la carne a fine
co ura non avrà più tanto sapore e prenderà il nome di “lesso” che
può essere comunque servito, inumidito del proprio brodo.
Concentriamoci allora su ciò che rimane nel liquido.
Il brodo, sia esso vegetale, di pollo, di vitello o altro, è uno dei
compagni inseparabili di ogni cuoco che si rispe i. Il fondamento
liquido di zuppe e salse e il sostegno a moltissimi pia i come
riso i e minestre. Nelle cucine grandi professionali c’è sempre una
grande pentola che borbo a con del brodo in preparazione.
Imparare a fare i brodi è anche un a o di ecosostenibilità, per
sfru are anche quei tagli o quei rimasugli che altrimenti
verrebbero ge ati. Un pollo non è fa o solo di due cosce e un
pe o, così come un bovino non ha solo file i e altri tagli di prima
scelta. A enzione: ho de o “rimasugli” e non “scarti”. Un brodo
non è un rice acolo per bu arvi dentro qualsiasi cosa stia
andando a male nel vostro frigorifero. Usando ingredienti di
scarto o errete un prodo o di scarto. Con rimasugli intendo, per
esempio, il collo e le ali del pollo che vi sono avanzati da qualche
rice a. E che dire delle ossa? Non sono buone solo per i cani.
CONSIGLIO
Quando fate il brodo o vi avanza il liquido di
co ura di un bollito, riducetelo di volume e
congelatelo nei contenitori di plastica per fare
i cube i di ghiaccio, in modo da riutilizzarlo
quando serve.
La teoria dei brodi
Un brodo è un liquido aromatico e gustoso composto solitamente
da qua ro ingredienti. Il primo è l’acqua. È il solvente, il liquido
che scioglierà le molecole contenute negli altri ingredienti. Se
l’acqua del vostro rubine o è buona da bere usate quella senza
problemi. Gusto e aroma provengono prima di tu o
dall’ingrediente che cara erizza il brodo: carne, pesce o verdure.
L’acqua solitamente è tra il doppio e il triplo, in peso, degli altri
ingredienti. Nei brodi di carne si aggiungono sempre anche degli
ortaggi tagliati grossolanamente. La combinazione più diffusa è il
classico trio cipolle-sedano-carote in proporzione 2:1:1, ma i gusti e
le tradizioni sono infiniti, sia per le proporzioni sia per la
composizione – per esempio a me non piace troppo il gusto
dolciastro impartito della carota e a volte la sostituisco con il
porro.
L’ultimo ingrediente sono le erbe aromatiche e le spezie: timo, i
gambi del prezzemolo (non le foglie), alloro, pepe in grani, aglio, il
limite è solo dato dalla fantasia e dal gusto personale.
Lunghe co ure
Preparare un brodo di carne classico è facile e nelle versioni più
semplici serve solo un po’ di pazienza: come minimo 2 ore, ma si
può arrivare anche a 12 per alcuni brodi. Le lunghe co ure sono
necessarie sia per estrarre tu e le sostanze gustose dai vegetali e
dalla carne sia per sciogliere il collagene. La velocità di
scioglimento del tessuto conne ivo e quella di estrazione degli
aromi e dei sapori dipende stre amente dalla temperatura: più è
alta e più velocemente avviene il processo.
I lunghi tempi di preparazione di un brodo sono necessari per
vari motivi. In un brodo, sia esso vegetale, di pesce o di carne,
vogliamo estrarre tu o il sapore e l’aroma dalla materia prima.
Ricordate che le proteine da sole sono praticamente insapori e che
le ossa, a meno di essere prima arrostite, servono sopra u o per il
loro contenuto di collagene che trasformandosi in gelatina darà
corpo al brodo finale. Ciò che apporta sapore sono le molecole
disciolte nell’acqua contenuta nei muscoli. Queste molecole
gustose, presenti in misura maggiore se l’animale è vecchio, hanno
bisogno di tempo per venire estra e e la velocità di estrazione
dipende da due fa ori: la temperatura dell’acqua e la grandezza
dei pezzi. Più l’acqua è a temperatura elevata e più veloce sarà la
diffusione delle molecole gustose dalla carne all’acqua. Più i pezzi,
sia di carne sia di ortaggi, sono grandi e più tempo ci me erà il
sapore a migrare dal centro verso la superficie per poi disciogliersi
nella pentola.
Questo significa che invece di me ere un pezzo enorme di
manzo possiamo velocizzare l’estrazione tagliandolo a pezzi: in
questo modo l’acqua penetrerà più velocemente. Per gli ortaggi il
ragionamento è identico: carote e cipolle non tagliate ci
me eranno più tempo a rilasciare i loro sapori. Se questo fosse
l’unico meccanismo coinvolto nella preparazione del brodo
potremmo pensare di tagliare tu o a pezzi piccolissimi e
prepararne uno in pochi minuti. E in effe i fu proprio il chimico
Justus von Liebig nella metà dell’O ocento a suggerire per primo
che si potesse preparare un brodo velocissimo anche così. Se avete
ospiti a cena e vi serve del brodo di carne seduta stante, ma avete
solo della carne macinata in frigorifero, usate quella facendola
bollire per 10 minuti in acqua pari al proprio peso. Filtrate e
o errete un brodo molto chiaro, ma non per questo poco saporito
e profumato. Tu avia le lunghe co ure non sono inutili, per via
del secondo motivo: oltre a estrarre il sapore vogliamo anche
arricchire il brodo di gelatina che, come ormai sapete, proviene
dallo scioglimento del collagene contenuto nel tessuto conne ivo.
Questo processo di scioglimento ha bisogno di tempo e dipende da
quanto è legato fortemente il collagene, dalla quantità, dalla
temperatura, dall’età dell’animale e così via, ma generalmente
servono diverse ore.
Il terzo motivo, valido sopra u o per il brodo di manzo, è che
durante le lunghe co ure alcune proteine si possono degradare,
liberando i singoli amminoacidi. Se le proteine solitamente non
hanno sapore, gli amminoacidi invece hanno dei sapori
cara eristici e uno fra tu i, l’acido glutammico, contribuisce
moltissimo a insaporire il brodo esaltando gli altri sapori presenti.
Questo è il motivo per cui nei dadi da brodo viene aggiunto come
ingrediente il glutammato di sodio, perché è uno dei componenti
della degradazione delle proteine della carne.
CONSIGLIO
Che ne facciamo della carne dopo la
preparazione di un brodo? Sono pur sempre
proteine con il loro valore nutritivo, anche se
ormai quasi senza sapore, e possiamo usarla
per farne polpe oni o preparazioni simili.
Tu o in una volta?
Se i tempi lunghi possono aiutare a costruire sapore, possono
anche rovinare gli aromi più freschi apportati dagli ortaggi e,
ancor più, quelli degli odori e delle spezie che spesso si
aggiungono a un brodo come timo, prezzemolo, alloro, pepe e così
via. È meglio quindi non me ere tu o insieme a cuocere, ma
iniziare prima con la carne e le ossa, poi aggiungere gli ortaggi
tagliati e solo verso la fine gli odori e le spezie, in modo tale che
rilascino le sostanze aromatiche al momento giusto e che non
vengano poi degradate da ore di co ura.
Pensateci: un brodo vegetale si prepara in meno di un’ora.
Perché dunque far sobbollire per 4 ore le verdure in un brodo di
carne? O errete un liquido dove le note fresche vegetali e gli
aromi delicati delle erbe aromatiche si sono tu i volatilizzati. È
preferibile quindi aggiungere le verdure e le erbe aromatiche in
tempi successivi.
Da caldo o da freddo?
Una volta si pensava che immergendo la carne in acqua calda
questa si sigillasse e impedisse ai succhi di uscire. Poiché nel
preparare un brodo noi vogliamo estrarre più succhi possibile
questa era la giustificazione classica del perché fosse meglio
partire da acqua fredda. In realtà ormai sappiamo che l’alta
temperatura non sigilla proprio nulla, i succhi escono lo stesso,
dipendendo solamente dalla temperatura raggiunta
internamente. Tu avia, nel preparare un brodo è ugualmente
consigliabile partire dall’acqua fredda, ma per un motivo
differente. Avete sicuramente provato a usare i fogli di gelatina e
vi sarete accorti che nelle istruzioni si consiglia di tenerli in
ammollo in acqua fredda per una decina di minuti, poi di strizzarli
e infine di aggiungerli al liquido caldo da gelificare. Lo scopo di
questa procedura è di lasciare il tempo all’acqua di penetrare nel
foglio, insinuandosi tra i diversi filamenti di collagene, cominciare
a gonfiarlo e ammorbidirlo dall’interno. La gelatina in fogli non è
solubile in acqua fredda e la strizzatura serve solo a eliminare
l’acqua in eccesso. Me endo dire amente il foglio in un liquido
caldo, non si lascia all’acqua il tempo di penetrare in profondità e
si corre il rischio di formare dei grumi dovuti ai legami che si
instaurano fra i filamenti di collagene. Quindi, immergendo le
ossa in acqua bollente rischiamo di non dare il tempo al collagene
di idratarsi e liberare i singoli filamenti di gelatina.
Mai farlo bollire
Se si vuole che il brodo rimanga limpido, l’acqua assolutamente
non deve bollire e le goccioline di grasso che si staccano dalla
carne devono rimanere in superficie. Le proteine sono buoni
emulsionanti e se l’acqua viene messa in vigoroso movimento
dall’ebollizione, sono in grado di disperdere nel brodo le goccioline
di grasso stabilizzandole e impedendo che tornino a galleggiare in
superficie, rendendo meno limpido il brodo. È lo stesso fenomeno
che si può osservare preparando una vinaigre e con olio e aceto,
limpidi entrambi, agitandoli in presenza di un emulsionante, come
la senape o la lecitina di soia. L’olio si disperde nella fase acquosa
rendendo torbida l’emulsione.
In più l’ebollizione causa la coagulazione immediata e il distacco
delle proteine superficiali formando dei grumi che intorbideranno
il brodo.
Manzo o vitello? Pollo o gallina?
Le ossa degli animali più giovani contengono più collagene di
quelli più maturi e quindi forniscono più corpo. Questo è uno dei
motivi per cui molti cuochi preferiscono usare il brodo di vitello
per alcune preparazioni nonostante servano anche più di 8 ore per
prepararlo. D’altra parte più l’animale è vecchio e più il brodo sarà
saporito. Quindi se volete un brodo più saporito scegliete animali
più vecchi, come il manzo o la gallina. Se invece volete un brodo
più corposo scegliete animali più giovani, come il vitello o il pollo.
Brodo nella pentola a pressione
A meno che cuciniate in alta montagna, la temperatura tipica in
co ura di un brodo è tra 80 °C e 90 °C. Volendo è possibile
velocizzarne la preparazione portandolo a temperature più alte
con una pentola a pressione. A coperchio chiuso il vapore che
proviene dal brodo in co ura non sfugge, si accumula sopra il
liquido e aumenta la pressione, che può arrivare fino a 2 bar. In
queste condizioni l’acqua raggiunge temperature molto più alte,
anche 120 °C, di quello che farebbe senza coperchio a pressione
ambiente e i processi di estrazione sono più veloci. Ci sono
differenze fra il brodo “classico” e quello o enuto dalla co ura in
pentola a pressione? Se li preparate entrambi, avendo cura di
portarli allo stesso volume aggiungendo acqua, per tener conto
della diversa evaporazione, vi renderete conto che hanno un
aroma e un gusto diversi. La pentola a pressione è erroneamente
percepita solo come uno strumento per cucinare più in fre a. In
realtà il prodo o finale può essere diverso anche dal punto di
vista gustativo. A temperature più elevate di 100 °C l’estrazione
procede più velocemente, ma le molecole estra e possono anche
reagire chimicamente in modo diverso. In alcuni casi si
distruggono sostanze aromatiche delicate, in altri casi possono
trasformarsi in molecole che contribuiscono al gusto finale
intensificandolo. In più, gli aromi estra i non sfuggono
nell’atmosfera come in una co ura tradizionale ma rimangono
imprigionati nella pentola e, in parte, ridisciolti nel brodo. Quale
dei due è più buono? Alcuni cuochi preferiscono la versione con la
pentola a pressione che trovano più intensa, con più corpo e più
aromatica. Altri la versione classica, per il suo sapore un po’
diverso. I gusti sono gusti, si dice, quindi fate la prova e vedete se il
brodo nella pentola a pressione vi piace di più o di meno di quello
convenzionale.
LO SAPEVATE CHE?
Negli ultimi anni sono comparse sul
mercato professionale delle pentole
simili a quelle a pressione ma che
funzionano al contrario: abbassano la
pressione grazie a una pompa a vuoto.
Alcuni ricercatori del Centro Ricerche
della Nestlé di Losanna hanno
confrontato un brodo vegetale
preparato a 0.48 bar, come se fosse stato
preparato a 6.000 metri di altitudine,
con uno convenzionale e uno preparato
nella pentola a pressione. Anche in
questo caso il brodo è risultato diverso:
quello a bassa pressione è più ricco di
alcune molecole solforate tipiche delle
cipolle e dei porri. Molecole che
evidentemente a temperature più
elevate vengono distru e.
STUFATI, STRACOTTI E SPEZZATINI
Se aumentiamo la complessità della nostra co ura e proviamo ad
aromatizzare la carne con altri ingredienti, solitamente vegetali, le
possibilità diventano infinite. Nella cucina italiana vi sono
probabilmente migliaia di rice e dove la carne, che può aver
subito o meno un periodo di marinatura, viene co a per periodi
piu osto lunghi sommersa in acqua insieme ad altri ingredienti in
modo da o enere un pia o saporito, da gustare da solo o
accompagnato da purè, riso, polenta, pane o altro.
Stufati, spezzatini, umidi, straco i sono solo alcuni dei nomi
ricorrenti, ma non sempre un pia o è classificabile con precisione
poiché non esiste una nomenclatura precisa nella cucina italiana
e quindi troviamo rice e simili con nomi diversi e rice e diverse
con nomi simili.
Dal punto di vista scientifico sono tu i raggruppabili,
differenziandosi più per i sapori e i tagli scelti che non per le
modalità di co ura, che in tu i i casi impiegano un liquido
acquoso che sommerge completamente la carne. La temperatura
di co ura deve essere superiore a 75 °C, per sciogliere il collagene
velocemente, ma inferiore a 85 °C, per evitare un accorciamento
troppo pronunciato della carne.
Straco i
Come dice il nome, prevede che la carne sia co a molto a lungo.
Era il destino di tagli appartenenti ad animali molto vecchi. La
loro carne era particolarmente dura, ma saporita ed è per questo
che l’ingegnosità umana ha inventato tu e le rice e che oggi
possiamo gustare, cercando di tra are al meglio della materia
prima non certo morbidissima. Ora i bovini sono allevati
appositamente per produrre carne ed è difficile ormai trovare
tagli da animali che abbiano vissuto più di due anni. Questo
spiega anche perché rice e come gli straco i, che cuocevano
le eralmente per almeno qua ro ore, ma spesso anche di più,
sono ormai in disuso.
Lo straco o è un pia o povero, di carne ce n’era pochina
rispe o al liquido, che con una co ura così lunga e con aromi,
spezie e vino diventava un o imo condimento per la polenta. Io
adoro, e ogni tanto preparo, lo straco o d’asino al Barolo, anche se
in realtà il Barolo preferisco berlo piu osto che cuocerlo e
destinare allo straco o un meno invecchiato, ma dignitosissimo
Nebbiolo.
Umidi
Più che il nome di un gruppo di rice e il termine “umido” – o
meglio “in umido” – indica un metodo di co ura dove, appunto, la
carne è immersa in un liquido acquoso variamente aromatizzato.
Per questo, stufati e straco i sono umidi. Lo sono anche i brasati
che però preferisco tra are separatamente perché il metodo di
co ura è sufficientemente diverso, dato che la carne non è
completamente sommersa e di solito è stata fa a prima marinare
e rosolare.
Stufati
Nelle cucine di una volta c’era la stufa. Ora questa parola quasi
desueta la associamo più a uno strumento per riscaldare un locale
che non a un apparecchio per cucinare. In realtà serviva a
entrambi gli scopi, anche perché la cucina era molto spesso l’unico
locale riscaldato della casa e lasciare per lungo tempo sulla stufa
recipienti contenenti carne, verdure spezie e aromi serviva a
preparare pia i che si cuocevano da soli. Ora questo modo di
cucinare è tornato in auge e, poiché le nostre cucine non sono più
dotate di stufa, vendono delle apposite apparecchiature chiamate
slow cooker. Ma, nonostante il nome inglese, funzionano come
funzionavano le stufe di una volta: riscaldano lentamente e per
tempi lunghi una pentola, chiusa, con dentro tu o quello che
serve per preparare uno stufato.
Spezzatini
Anche in questo caso il nome è rivelatore: si tra a di carne rido a
in piccoli pezzi – solitamente a cube i – immersa in un liquido
variamente aromatizzato e quindi co a “in umido”. Molte rice e
tradizionali utilizzano tagli poco pregiati ricchi di tessuto
conne ivo. Per dare più sapore alla preparazione si può rosolare
la carne in un grasso. Per addensare il liquido di co ura un trucco
che alcuni usano è aggiungere un po’ di amido o di farina, a volte
spolverandola dire amente sui cubi di carne prima della
rosolatura. Una cara eristica tipica degli spezzatini è di avere
sempre, oltre alla carne, anche altri vegetali che contribuiranno a
definire il sapore. Aggiunte di patate, pomodori e piselli sono
piu osto comuni a questo tipo di preparazioni. Anche le cucine
straniere hanno rice e che ricadono in queste categorie. Il Gulash
ungherese, per esempio, lo possiamo classificare come uno
spezzatino.
BRASATI
Tra le varie rice e tradizionali per co ure in umido ve ne sono
alcune chiamate “brasati” che meritano una tra azione a parte
per via delle cara eristiche uniche. Non sempre nella cucina
italiana il nome corrisponde a una precisa tecnica di preparazione
ma solitamente la carne dei brasati viene fa a marinare e
successivamente brevemente rosolare in un grasso – burro, olio,
lardo – prima di essere cucinata.
Non sono queste però le cara eristiche che, in questo libro,
associo ai brasati. Nulla vi vieta di marinare – e spesso si fa – una
carne per uno stufato o uno spezzatino, oppure di rosolarla prima
di cuocerla. E viceversa possiamo preparare un brasato senza
marinatura e senza vino, co o solo con acqua o brodo.
Quello che differenzia la co ura del brasato dalle altre co ure
in umido è il fa o di usare un recipiente ben chiuso e sigillato in
modo da non far fuggire il vapore. Il liquido è tenuto a
temperature inferiori a 100 °C e, a differenza dei casi precedenti,
non sommerge completamente la carne e spesso non arriva
neanche a metà altezza. La differenza è fondamentale perché
usare una quantità rido a di liquido mantiene la carne più
saporita e succosa.
Badate bene che, a volte, uno stufato è in realtà un brasato e che
una rice a chiamata “brasato” può non essere preparata in questa
maniera. Purtroppo, a differenza della cucina francese, in Italia
non si è mai arrivati a una sistematizzazione precisa per cui per
capire di che si tra i dovete sempre leggere bene le rice e.
Se tradizionalmente i brasati richiedono una marinatura della
carne in un vino che si userà poi anche come liquido di co ura,
ora sapete che una marinatura solo col vino non penetra molto in
profondità a causa della bassa acidità e dell’assenza di sale. Quindi
se il pezzo da brasare è particolarmente grande è possibile saltare
questa fase e usare il vino dire amente in co ura, dato che
comunque non riuscirebbe a penetrare molto in profondità.
La perdita di succhi è limitata da due fa ori: l’uso di un unico
pezzo di carne invece che tanti più piccoli, e il poco liquido di
co ura. Non sommergendo completamente la carne, i succhi
usciranno più lentamente concentrandosi nel poco liquido a
disposizione. La parte della carne non immersa nel liquido di fa o
è co a al vapore.
A fine co ura, tolta la carne, il liquido deve essere rido o e
frullato per preparare un sugo con cui ricoprire le fe e di brasato.
Le carni più ada e per un brasato classico sono quelle del
bovino adulto, innaffiato con un vino rosso corposo. Ma anche
tagli di maiale ricchi di collagene, come le costine o la coppa,
danno grande soddisfazione.
Qualcuno si potrebbe chiedere se, rosolando la superficie della
carne, non stiamo in realtà preparando un arrosto. No, un arrosto
è una co ura asciu a, senza o quasi liquidi acquosi. Ma poiché la
nomenclatura gastronomica italiana è tra le più confuse al
mondo, ecco che esisteva l’arrosto “morto”, in cui la carne dopo la
rosolatura continuava la co ura con l’aggiunta di un liquido
acquoso. In pratica un brasato. Ve l’ho de o che la confusione è
grande nei nomi delle rice e.
DIFFERENZA TRA SPEZZATINO E BRASATO
SPEZZATINO
BRASATO
Pezzi di carne Pezzi più grossi o un pezzo unico, per
piccoli.
limitare la perdita di liquidi.
Carne
Carne solo parzialmente sommersa.
completamente
Uscirà meno sapore e si concentrerà
immersa nel
nel poco liquido di co ura.
liquido.
Co o senza
Co o con coperchio.
coperchio.
Co o con
Solitamente co o da solo o con
molte verdure. poche verdure.
LA COTTURA AL VAPORE
Il vapore è un eccellente mezzo di trasmissione del calore, molto
più efficace dell’aria di un forno, e usando apparecchiature
professionali può anche raggiungere temperature superiori a 100
°C. A casa la co ura al vapore viene più spesso utilizzata,
sfru ando degli appositi cestelli, per la co ura di ortaggi e cereali
e raramente la carne viene co a in questa maniera. Questo però
non significa che non si sfru i il vapore in altri tipi di co ure. La
co ura al cartoccio per esempio sfru a implicitamente il vapore.
Racchiudendo l’alimento da cuocere in un foglio di alluminio, il
vapore sprigionato dal liquido aggiunto o dall’alimento stesso
rimane confinato impedendo al cibo di asciugarsi e bruciare.
Questo però impedisce alle reazioni di Maillard di avvenire, poiché
non vendono superati i 100 °C. Questo tipo di co ura è più spesso
associata ai pesci, ma se ci pensate anche il maiale sfilacciato a
pag. 35 è stato co o in un grande cartoccio.
Da qualche anno sono anche in commercio dei sacche i di
plastica resistenti al calore che si possono utilizzare in un forno
inserendo dentro l’alimento con degli aromi e condimenti. Il
sacche o stagno impedisce al vapore sviluppato di fuoriuscire e
cuoce quindi il cibo.
Anche in una pentola a pressione il vapore gioca un ruolo
importante nella co ura. Lo svantaggio, come diceva una celebre
pubblicità di quando ero bambino, è che “non si vede la co ura” e
quindi bisogna prendere un po’ la mano con i tempi, che vanno
rispe ati rigorosamente.
IL CONTE RUMFORD E LA COTTURA A
BASSE TEMPERATURE
Ormai sapete tu o sulle temperature più opportune a cui cuocere
la carne. Forse qualcuno di voi avrà anche acquistato un
apparecchio per cuocere gli alimenti in un bagno termostatato a
basse temperature o, come preferisco dire io, a temperature
controllate.
Potrà stupire sapere che i primi esperimenti di co ura a basse
temperature sono vecchi di quasi due secoli, effe uati per la
prima volta dal Conte Rumford, e che solo di recente sono stati
riscoperti dai cuochi di tu o il mondo.
Benjamin Thompson nacque nel 1753 nella colonia britannica
del Massachuse s. Allo scoppio della rivoluzione americana,
fedele al re, fuggì in Europa. Prima in Inghilterra e poi in Baviera
dove supervisionò la produzione di cannoni. Diede contributi
fondamentali alla termodinamica con i suoi esperimenti sulla
natura del calore. Insignito del titolo di Conte del Sacro Romano
Impero per i servigi resi, decise di farsi chiamare Conte Rumford,
prendendo il nome della piccola ci adina del Massachuse s dove
aveva studiato. Thompson si interessò molto ai metodi e agli
strumenti di co ura del cibo. Ideò un camino che ancora oggi
porta il suo nome.
Scienziato curioso e personaggio ecle ico, tra un contributo alla
termodinamica e l’altro trovò il tempo di inventare anche alcuni
utensili da cucina, come descrive nel libro Sulla costruzione del
focolare da cucina e degli utensili da cucina, insieme con
commenti e osservazioni riguardanti vari processi di cucina e
proposte per migliorare quella utile arte. Si occupò persino delle
zuppe da distribuire ai poveri, come descrive nel saggio Sul cibo, e
in particolare sul nutrire i poveri.
UNA VISIONE SCIENTIFICA DELLA CUCINA
Il conte Rumford è stato probabilmente il primo scienziato a
guardare all’a o del cucinare con occhi scientifici e a dedicare a
questo aspe o alcuni saggi.
«Sebbene i processi del cucinare sembrino così semplici e facili
da comprendere, tanto che ogni tentativo di spiegarli e illustrarli
potrebbe essere considerato forse non solo superfluo ma anche
frivolo, quando esaminiamo la faccenda in modo a ento
troveremo che la loro indagine è di seria importanza. […] Il
processo con cui il cibo è più comunemente preparato per la
tavola – la bollitura – è così familiare a ognuno e i suoi effe i così
uniformi, e apparentemente così semplici, che pochi, io credo, si
sono presi la briga di indagare come questi effe i vengono
prodo i; e se e in che modo siano possibili dei miglioramenti in
quel campo della cucina. Questo campo è stato raramente ogge o
di indagine che pochi, veramente molto pochi io credo, tra i
milioni di persone che per secoli si sono occupati giornalmente di
questo processo, hanno pensato di formulare un pensiero serio
sull’argomento».
Ecco lo scienziato che ragiona su fenomeni so o gli occhi di tu i,
ma che pochi hanno indagato in modo scientifico. Anzi, proprio
per il fa o che sono fenomeni comuni e sfru ati da secoli, se non
da millenni per cucinare, quasi nessuno osa me ere in dubbio che
possano essere migliorati. Scopriamo anche che era prassi
comune all’epoca cucinare le vivande, ortaggi e carne,
immergendole in acqua a vigorosa ebollizione. Thompson,
supportato dai suoi esperimenti, non ha paura di andare contro
l’opinione corrente e non vi nascondo che mi è simpatico anche
per questo:
«Chiedete a un cuoco che cosa rende co a la carne immersa in
acqua all’ebollizione. “La carne è resa commestibile
dall’ebollizione” sarà la risposta. Potete dirgli (e dimostrarglielo se
avete un termometro a portata di mano) che l’acqua che bolle
appena è tanto calda quanto è possibile averla in un contenitore
aperto. Tu o il combustibile utilizzato pel farla bollire
vigorosamente è sprecato, senza aggiungere un singolo grado al
calore dell’acqua, o velocizzare o accorciare il processo della
co ura di un solo secondo. Poiché è dal calore, dalla sua intensità
e della sua durata che il cibo viene co o, e non dall’ebollizione
dell’acqua, che non ha alcun ruolo in quell’operazione.
Se fosse solo una questione di mera curiosità, se sia il bollire
dell’acqua oppure il grado di calore che esiste nell’acqua
all’ebollizione che cuoce il cibo, sarebbe senza dubbio folle
sprecare tempo in questa indagine. Ma non è questo il caso,
perché l’ebollizione non può essere mantenuta senza un gran
consumo di carburante, mentre qualsiasi liquido bollente può
essere mantenuto bollente (utilizzando degli opportuni mezzi per
confinare il calore) quasi senza consumare combustibile.
Lo spreco di combustibile nei processi culinari, che nasce dal far
bollire inutilmente i liquidi, è enorme. Non ho dubbi che più della
metà del combustibile usato in tu e le cucine, pubbliche e private,
del mondo sia sprecato proprio in questa maniera».
IL GUSTO
Non è però solo una questione di risparmio di combustibile.
Thompson ha ben chiaro che anche dal punto di vista
gastronomico la bollitura, come sappiamo, non è il modo migliore
di cucinare la carne. Prosegue infa i: «Ma il male non si ferma qui.
Questo modo non scientifico di cucinare rende il processo molto
più laborioso del necessario e (ciò che da molti sarà considerato
più importante dello spreco di combustibile o del lavoro
addizionale del cuoco) il cibo è reso meno gustoso, e molto
probabilmente meno nutriente e meno sano. È provato che le
zuppe preparate con una lunga co ura su un fuoco gentile hanno
un aroma più intenso e una qualità superiore.
In molti Paesi dove le zuppe costituiscono la parte principale
del cibo degli abitanti, la co ura dura da un pasto all’altro e viene
effe uata quasi senza fatica. Non appena una zuppa è servita, gli
ingredienti per il prossimo pasto sono messi nella pentola (che
non viene mai raffreddata e non necessita di pulizia); e questa
pentola, di ferro o terraco a, viene chiusa bene e messa accanto al
fuoco dove il suo contenuto viene tenuto a sobbollire per molte
ore e nel modo più gentile possibile, ma raramente portato
all’ebollizione.
Le zuppe preparate in questa maniera sono straordinariamente
saporite; e io sono convinto che la vera ragione del perché zuppe
nutrienti e brodi non sono di uso comune tra le persone comuni in
Gran Bretagna e Irlanda è che costoro non sanno quanto in realtà
siano buone e neppure come prepararle».
TEMPERATURE INFERIORI A 100 °C
A questo punto Rumford utilizza le sue conoscenze di
termodinamica per ragionare su quale sia la temperatura
realmente necessaria per cucinare i cibi. Lui sa che la temperatura
di ebollizione dell’acqua dipende dalla pressione atmosferica, e che
questa diminuisce con l’altitudine. Quindi più saliamo in
montagna e prima bolle l’acqua. In montagna la carne immersa in
acqua a bollore cuoce a una temperatura inferiore rispe o a
quella che si può o enere sul livello del mare. Non si è mai sentito
però, ragiona Rumford, qualcuno lamentarsi perché in montagna i
cibi non sono ben co i.
Non posso fare a meno di ammirare Rumford per la logica
stringente dei suoi ragionamenti:
«È certo che non solo carne e vegetali di tu i i tipi possono
essere co i in acqua tenuta bollente senza bollire, ma anche che
possano essere co i con un grado di calore so o il punto di
ebollizione. […] È risaputo che il calore necessario per far bollire
l’acqua non è lo stesso in tu e le situazioni, poiché dipende dalla
pressione atmosferica, e quindi è maggiore al livello del mare
rispe o ai Paesi continentali e sulla cima delle montagne; ma non
ho mai sentito di difficoltà a preparare il cibo, lessandolo, anche in
luoghi ad alta quota. L’acqua bolle a Londra (e in tu i gli altri posti
alla stessa altitudine) alla temperatura di 212 °F [100 °C]; ma
sarebbe assolutamente impossibile trasme ere quel grado di
calore all’acqua in un contenitore aperto in Baviera. Il punto di
ebollizione a Monaco, alla pressione atmosferica di quel posto, è
circa 209.5 °F [98.6 °C]. Tu avia nessuno, credo, si è mai accorto che
la carne bollita a Monaco fosse meno co a che a Londra. Ma se la
carne può, senza difficoltà, essere cucinata con il calore di 209.5 °F
a Monaco, perché non dovrebbe essere possibile cuocerla con lo
stesso grado di calore a Londra?
È evidente quindi che il processo del cucinare chiamato “lessare”
può essere effe uato in acqua che non è all’ebollizione. […] Da
tempo sospe avo che fosse alquanto improbabile che
precisamente la temperatura di 100 °C (quella dell’acqua
all’ebollizione) fosse quella più ada a per cucinare ogni sorta di
alimento».
Si può quindi mantenere il liquido di co ura a una temperatura
inferiore ai 100 °C. Questo ora lo sappiamo bene e lo diamo per
scontato, ma a quanto pare non era così nel Se ecento in Gran
Bretagna. Ma Thompson va ben oltre, come ora vedremo.
LA COTTURA DELLA CARNE A BASSE TEMPERATURE
Rumford inventò anche un particolare tipo di forno che usava
per essiccare le patate. Queste venivano asciugate dolcemente, in
modo indire o, dall’aria riscaldata dal fuoco da cui erano separate
mediante una paratia. Non sappiamo esa amente quale
temperatura raggiungesse il suo apparecchio, ma probabilmente
era tra i 60 e gli 80 °C. Racconta nel suo saggio del 1799 che una
sera decise di fare un esperimento me endo nel suo apparecchio
una spalla di montone, per capire se la temperatura fosse
sufficiente a cuocerla. Dopo 3 ore la carne era ancora cruda e
Thompson, deluso, decise di andare a dormire, dimenticandosi
però il forno acceso con la carne dentro. Con sua enorme sorpresa
la ma ina seguente il montone risultava co o, gustoso e
morbidissimo. Da buono scienziato decise allora di effe uare un
esperimento controllato: il primo esperimento di degustazione
alla cieca nella storia della cucina scientifica. Invitò degli amici a
cena con l’intenzione di preparare del montone sia alla maniera
solita dell’epoca, infilzato in uno spiedo messo davanti al fuoco, sia
con la sua invenzione.
Rumford condusse l’esperimento con particolare cura: prese due
coscio i di montone dallo stesso animale e prima di cuocerli li
rese perfe amente uguali in peso. Un coscio o fu co o nel suo
forno a bassa temperatura mentre l’altro fu messo sullo spiedo
davanti al fuoco. Per prevenire possibili inganni le persone
adde e alla co ura non furono messe al corrente
dell’esperimento. Una volta co i, i coscio i vennero nuovamente
pesati, e Rumford annotò che quello co o a basse temperature
aveva perso meno succhi, pesando il 6% in più dell’altro, co o
davanti al fuoco. Nel saggio mise in evidenza l’importanza
economica di questo particolare.
All’insaputa degli amici propose loro la carne in due vassoi
diversi. La comitiva dichiarò unanimemente la propria preferenza
per il montone cucinato a bassa temperatura. Era più succulento e
più saporito. Non solo, alla fine della cena Thompson esaminò ciò
che rimase nei vassoi. In quello con il montone co o allo spiedo
rimanevano dei pezzi di carne poco commestibili, bruciacchiati,
oppure ossa con del tessuto conne ivo indurito. Nell’altro vassoio
invece c’erano solo le ossa spolpate perfe amente.
Non possiamo non condividere la sua considerazione finale:
«Credo di poter dire che i risultati di questo esperimento siano
degni della più grande a enzione, specialmente in questo Paese
dove viene consumata così tanta carne arrostita, e dove
l’economia del cibo sta diventando sempre più una questione di
pubblica preoccupazione».
LO SAPEVATE CHE?
Prima di Thompson i camini erano a
pianta re angolare e con una canna
fumaria sopra la zona del fuoco:
scaldavano poco gli ambienti e
riempivano di fumo i locali. Thompson,
invece, realizzò le pareti interne del
camino oblique, in modo da rifle ere
parte del calore nel locale. In più inserì
una strozzatura nella canna fumaria
per convogliare il fumo in alto, verso
l’esterno. Il suo camino ebbe un
successo notevole e Thompson divenne
noto come “l’uomo che tolse il fumo
dalle cucine di Londra”.
PREDICARE INVANO
Convinto della validità delle sue osservazioni, Rumford cercò di
convincere i cuochi dell’epoca che fosse meglio cuocere la carne
mantenendo un leggerissimo bollore piu osto che una vigorosa
ebollizione, che l’avrebbe indurita.
Si lamenta così nel suo saggio: «So bene, per esperienza personale,
come sia difficile persuadere i cuochi di questa verità; ma è così
importante che nessuna fatica dovrebbe essere risparmiata
nell’impresa di rimuovere i loro pregiudizi e illuminare le loro
conoscenze».
Per convincere i cuochi tradizionalisti Rumford suggerisce di
far fare loro un esperimento di controllo: prendere due recipienti
e cuocere la carne nel primo a vigorosa ebollizione, nel secondo
tenendo l’acqua a sobbollire.
«La carne nel bollitore in cui l’acqua è stata tenuta solo bollente
ma senza bollire sarà tanto co a quanto quella nell’altro. Sarà
anche migliore, cioè più tenera, succulenta e con più sapore. Sono
cosciente del pericolo a cui mi espongo raccontando in pubblico
questi fa i e le deduzioni da questi, che sono certamente troppo
nuovi e straordinari per essere creduti se non con le dimostrazioni
più ina accabili.»
UN’ODE ALLA CUCINA SCIENTIFICA
Pian piano nelle cucine si cominciò a ridurre la temperatura
dell’acqua, risparmiando anche combustibile, ma Thompson non
riuscì mai a convincere i cuochi dell’epoca a utilizzare il suo
apparecchio per cuocere la carne a basse temperature. Il Conte
Rumford sarebbe contento oggi di vedere che finalmente i suoi
insegnamenti sono stati acce ati, anche se molti chef ignorano il
suo nome e pensano che la co ura a basse temperature sia
un’invenzione recente.
Per finire, ecco dei brani di Rumford validi ancora oggi e che
potrebbero essere presi come il “Manifesto della cucina
scientifica”: «Desidero ispirare i cuochi […] illustrando l’intima
connessione esistente tra i vari processi che usano tu i i giorni e
molte delle più belle scoperte che sono state fa e dagli scienziati
nel nostro tempo. […] I vantaggi che si avrebbero dall’applicazione
delle recenti brillanti scoperte nella chimica, e altre branche della
scienza e della meccanica, al miglioramento dell’arte del cucinare
sono così evidenti e così importanti che non potrei fare a meno di
compiacermi nel vedere presto qualche professionista, illuminato
e aperto, prendere in mano la materia e so oporla a
un’approfondita indagine scientifica. […] Quando la scienza del
cucinare sarà ben compresa e sarà acquisita un’intima conoscenza
della precisa natura dei cambiamenti chimici e meccanici prodo i
dai vari processi culinari, potremo allora, e non prima di allora,
migliorare con sicurezza l’arte della preparazione del cibo.
L’esperienza, non assistita dalla scienza, può condurre, e lo fa
frequentemente, a utili miglioramenti; ma il progresso di tali
miglioramenti è non solo lento ma vacillante, incerto e molto
insoddisfacente».
ESPERIMENTO
LO STINCO ALLA RUMFORD
I cuochi moderni hanno a disposizione il sous vide: un
apparecchio che perme e di cuocere qualsiasi cosa in un
sacche o di plastica so ovuoto immerso in un bagno termico a
temperatura rigorosamente controllata al decimo di grado. Il
Conte Rumford però non aveva niente del genere, quindi anche
senza avere apparecchi moderni possiamo provare a me erci
nei suoi panni e provare a cucinare qualcosa. Non avete paura
di lasciare acceso il forno per 8 o più ore, vero?
Lasciate gli stinchi di maiale a temperatura ambiente per un’ora.
Salateli e aromatizzateli con un po’ di erbe. Infilate la sonda del
termometro da forno, regolate il forno a 75 °C, controllando
sempre che la temperatura interna non superi i 71 °C. I forni
casalinghi non sono molto accurati, quindi dovrete regolare il
termostato prima di trovare la regolazione ada a. [FOTO 1]
Me ete in forno anche una tazzina d’acqua per mantenere
umido l’ambiente e aspe ate.
Se volete, prima di infornare potete rosolare velocemente gli
stinchi in padella, anche se non è necessario ai fini
dell’esperimento. Dopo 6 ore togliete uno stinco. Nel mio forno e
con quegli stinchi 6 ore sono sicuramente sufficienti per portare
l’interno del maiale a 71 °C, ma non sono sufficienti per sciogliere
il collagene. Con il forno così basso la temperatura interna sale
molto lentamente, quindi l’interno è rimasto a 71 °C per un
tempo insufficiente a sciogliere completamente il collagene. La
carne era morbida e succosa, ma ancora un po’ elastica, e non si
staccava perfe amente dall’osso. [FOTO 2]
Proseguite la co ura. Dopo 8 ore, sempre cercando di
mantenere la temperatura interna intorno a 71 °C, ecco il
risultato: la carne si stacca benissimo dall’osso. [FOTO 3]
Non vi voglio suggerire di usare questo metodo di co ura,
ovviamente. Al giorno d’oggi esistono modi più efficienti di
È
cuocere stinchi e coscio i. È però interessante vedere con i
propri occhi che non è obbligatorio cuocere in forno a
temperature superiori a 100 °C.
RICETTA
BRASATO
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come la co ura lenta in poco
liquido aromatico di un taglio ricco di collagene ma
saporito, renda la carne morbida e gustosa.
La guancia di bovino è un taglio semisconosciuto al pubblico.
Forse anche perché, derivando dalla testa, spesso è esposta nei
banchi vendita in compagnia delle fra aglie: dalla lingua al
cervello, al cuore. Si può cucinare in molti modi ma, a mio parere,
usarla per un brasato è la cosa migliore.
Uno dei due segreti di tu i i brasati è la rosolatura iniziale, per
dare sapore. Il secondo è la lunga co ura in poco liquido acquoso,
come vino o brodo, o una combinazione. “Poco” è la parola chiave.
L’acqua deve essere sufficiente per mantenere sempre umido il
contenuto della casseruola ma non deve superare la metà
dell’altezza della carne. In pratica, una parte della carne cuocerà a
vapore.
Il poco liquido che resterà alla fine sarà molto saporito e verrà
usato come salsa per nappare (cioè ricoprire) la carne. Il sapore,
quindi, rimarrà tu o nel pia o, a differenza di quanto accade con
la bollitura o la stufatura, nelle quali parte del sapore viene diluito
nel liquido di co ura.
INGREDIENTI 1 kg di guancia
PER 4 PERSONE 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
cipolla, carota, sedano
mazze o guarnito
1 peperone rosso
vino rosso corposo
aglio (facoltativo)
burro
olio extravergine di oliva
sale
PROCEDIMENTO
Prendete una guancia di almeno 1 kg. Se il macellaio non l’ha
pulita dovrete liberarla dalla pellicina argentata, che ormai sapete
essere reticolina, perché non si scioglie in co ura e diventa dura
come la gomma.
1
È probabile che il vostro pezzo di carne abbia una forma
irregolare. Io vi consiglio fortemente di legare la carne con il filo
speciale per alimenti – lo trovate in vendita in ogni supermercato
– per fargli assumere una forma il più possibile cilindrica. Lo so, è
un’operazione noiosa, ma in questo modo la co ura sarà più
regolare.
2
Rosolate la carne per 5-10 minuti in olio e burro. Perché anche il
burro? Perché contiene la osio, uno zucchero riducente che,
combinandosi con le proteine presenti, aumenterà i prodo i della
reazione di Maillard. Sciogliete il burro nell’olio a fuoco medio e
aggiungete la carne solo quando il burro avrà finito di schiumare,
per far evaporare tu a l’acqua. Se non aspe ate la reazione di
Maillard si innescherà solo successivamente.
3
Mantenete il fuoco piu osto vivace: la carne deve sfrigolare, non
bollire. A enzione, però, a non alzare troppo il fuoco: il burro
arrivato a 150 °C brucia. Se la pentola o casseruola che usate è
molto più grande della carne rischiate di bruciarlo, specialmente
vicino alle pareti. Fate quindi a enzione e non rispondete al
telefono.
4
Rosolate da tu i i lati. Mi raccomando, non esagerate: dovete solo
rosolare la superficie, non cuocere l’interno. Quando la carne è
brunita quasi ovunque toglietela dalla casseruola. Ora potete
salarla leggermente su tu a la superficie.
5
Ora è il turno dei vegetali. Potete tagliarli anche grossolanamente,
tanto poi dovranno essere frullati. I vegetali classici sono la
cipolla, la carota e il sedano, ma potete andare a vostro gusto,
mantenendo comunque una base di cipolla. Potete usare i porri, io
li adoro, e anche l’aglio. Io ne me o 2-3 spicchi schiacciati.
6
Lasciate appassire la cipolla e gli altri ortaggi, come per fare un
soffri o. Quando la maggior parte dell’acqua sarà evaporata,
aggiungete il concentrato di pomodoro, anche triplo se lo avete.
Mescolate con un cucchiaio di legno o una spatola per evitare che
il pomodoro a acchi e bruci. Basta qualche minuto perché
assuma una colorazione scura intensa.
7
Ora tocca al vino: aggiungetene 300 ml, servirà a deglassare il
fondo. Le rice e classiche di brasati spesso chiedono vini costosi,
come il Barolo. A me francamente sembra uno spreco usare un
vino pregiato per cucinare. Io spesso uso il Nebbiolo: stesse uve
ma minore invecchiamento. Oppure un qualsiasi altro buon rosso
corposo. Lasciatelo bollire per qualche minuto per far svaporare la
maggior parte dell’alcol, poi aggiungete la carne, che dovrà
risultare immersa tra un terzo e metà dell’altezza. Se il vino non è
sufficiente aggiungetene ancora, oppure unite brodo, se preferite
un sughe o meno intenso. Unite gli odori, se volete, con la tecnica
del mazze o guarnito nella rice a del brodo di pollo (pag. 204). Io
aggiungo due foglie di alloro e del timo fresco. Stropicciate e
accartocciate le foglie di alloro tra le mani prima di me erle nella
casseruola, in modo da liberare gli oli essenziali. I chiodi di
garofano sono un’aggiunta comune ai brasati ma io trovo il loro
sapore troppo invasivo. Se mi costringono a me erli, perché ai
commensali piace il loro aroma, io ne aggiungo uno solo,
le eralmente.
8
Chiudete con un coperchio pesante ed ermetico: l’acqua non deve
evaporare. L’ideale, a questo punto, sarebbe me ere la casseruola
chiusa, magari di ghisa, nel forno e continuare la co ura per un
paio d’ore a 130-150 °C. Più lentamente sale la temperatura della
carne e meglio è: così si dà modo agli enzimi ancora presenti di
intenerire ulteriormente la carne. Se preferite cuocere tu o sul
fornello, me ete a fuoco bassissimo. Il liquido non deve mai
bollire e deve restare tra gli 80 e i 90 °C. È difficile, ma ce la potete
fare. Se anche con il gas al minimo sul fuoco più piccolo il liquido
bolle potete me ere una retina spargifiamme so o la pentola. Se
per caso possedete uno di quegli apparecchi chiamati slow cooker,
usatelo: se volete, potete anche impostare una temperatura più
bassa, per esempio 75 °C, che sarebbe praticamente impossibile da
mantenere su un fornello. Ovviamente in questo caso dovrete
allungare i tempi di co ura.
9
Dopo un’ora di co ura girate il pezzo di carne in modo che anche
la parte prima emersa venga sommersa dal liquido. Già che ci
siete, annusate: che bontà! Sono di parte, è vero: il brasato è uno
dei miei pia i preferiti. L’ho già de o, ma lo ripeto, perché è
importante: il liquido non deve bollire, al massimo può sobbollire.
Potreste trovare difficoltà a non farlo bollire, specialmente se
state cucinando poca carne e quindi state usando poco liquido. È
difficile prevedere l’esa o momento in cui la co ura sarà ultimata.
Diciamo che una forche a dovrebbe poter entrare senza difficoltà
nella carne. Dovrebbero servire 2 ore o più, a seconda delle
condizioni. Quando è la carne è co a, spegnete.
10
Resistete alla tentazione di togliere subito il brasato dal liquido e
servirlo. La carne a questo punto è delicatissima, essendosi sciolto
il collagene che la teneva insieme. Se la tagliate ora la ridurrete a
brandelli: meglio aspe are che si raffreddi un po’, fino a 60 °C
circa. Nel fra empo assorbirà una parte del liquido di co ura. Al
momento giusto togliete la carne, eliminate il mazze o guarnito e
assaggiate il sugo di co ura. Regolate di sale, poi passate il tu o
con un frullatore a immersione, in modo da o enere una salsa
densa. Diversamente dallo spezzatino, il brasato richiede poco
liquido di co ura: è per questo che, alla fine, il sughe o sarà
abbastanza denso; il sugo degli spezzatini, invece, deve essere
abbondante e rimarrà dunque molto più liquido.
11
Quando la carne è ancora calda ma non bollente, a circa 50 °C,
tagliatela a fe e. Non cercate di farle troppo so ili, altrimenti si
sbricioleranno. E, per l’amor del cielo, non usate un coltello
seghe ato, che strapperebbe la carne invece di fare un taglio
ne o. Ovviamente i coltelli li affilate regolarmente, per non fargli
perdere il filo, vero? Se dovete servire a tavola me ete le fe e su
un vassoio da portata e copritele con la salsina. La polenta è la
morte sua, ma potete anche semplicemente accompagnarlo con
del riso bollito. Altrimenti rime ete le fe e nella pentola, con il
sughe o, e riponete il brasato in frigorifero per consumarlo il
giorno dopo.
12
E, mi raccomando, il sughe o che avanza conservatelo, magari in
freezer se non lo consumate subito. È un o imo condimento per
ravioli, tortelli o altra pasta ripiena.
RICETTA
IL BRODO DI POLLO
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come so oponendo carne,
ossa e pelle di pollo a lunghe co ure si riesca a trasferire
tu i i succhi nell’acqua di co ura e, contemporaneamente,
a trasformare il collagene in gelatina, che dona corpo al
brodo.
In Italia, ingiustamente, nell’immaginario gastronomico colle ivo
il brodo richiama più spesso il cibo dell’ospedale, quello che ci
danno quando stiamo male, che non raffinate zuppe o salse, di cui
è il fondamento. E ormai anche al ristorante le zuppe vengono
snobbate. Eppure io le trovo ideali per iniziare una cena. Quando
vado al ristorante giapponese con mio figlio Simone prendo
sempre una zuppa di miso per iniziare la cena. Devo poi fare una
confessione: anch’io ho in casa una scatole a di dadi e una
confezione di estra o di carne che utilizzo quando sono di fre a.
Ma la comodità e la velocità spesso si pagano con la qualità
quindi, per alcune preparazioni, come il riso o alla milanese, cerco
sempre di usare del brodo che ho preparato e congelato tempo
addietro.
Il brodo di carne più facile da preparare è sicuramente quello di
pollo, dal gusto non così intenso come quello di manzo e quindi
più versatile quando si tra a di aggiungerlo in altre rice e. Basta
seguire pochi accorgimenti e vedrete che il vostro brodo di pollo
diventerà un valido aiuto in cucina. E con lo stesso procedimento,
variando solo i tempi, potete preparare brodi di altri volatili, come
la faraona o il cappone.
INGREDIENTI 1 kg di gallina o di pollo
PER CIRCA 2-3 L 2 carote
1 cipolla grande
2 coste di sedano
5 gambi di prezzemolo
1 foglia di alloro
5 rame i di timo
PROCEDIMENTO
1
Tagliate la gallina in pezzi, eliminate il grasso so ocutaneo giallo e
togliete, se volete, l’eccesso di pelle. Se non avete trovato la gallina
potete usare del pollo. O errete un brodo meno saporito. Me ete
la carne in una pentola stre a e alta.
Se volete o enere un brodo più limpido potete sbianchire la carne,
altrimenti andate subito al passo successivo. Sbianchire significa
immergere per pochi minuti un alimento in acqua all’ebollizione.
Io per velocizzare i tempi uso un bollitore ele rico di quelli per
scaldare l’acqua per la colazione o il tè pomeridiano. Lo riempio di
acqua – ne contiene un litro e mezzo – e, quando è a vigorosa
ebollizione, la verso sui pezzi di pollo o gallina che ho depositato
sul fondo della pentola. Una volta sommersi accendo il fuoco
grande e aspe o che il liquido ritorni all’ebollizione. Dopo qualche
minuto spengo e ge o via l’acqua, sulla cui superficie galleggiano
un sacco di schifezze: sono proteine coagulate, grumi di pelle,
gocce di grasso e altro. Riempio la pentola di acqua fredda e la
ge o per un paio di volte, sino a quando l’acqua non rimane
abbastanza limpida.
LO SAPEVATE CHE?
Per motivi igienici è assolutamente
sconsigliato lavare il pollo prima di
cucinarlo. Questo per evitare la
diffusione di una eventuale
contaminazione ba erica sia nel lavello
che su tu e le superfici con cui può
venire in conta o.
2
A questo punto coprite tu o con acqua fredda, in modo che la
carne sia sommersa per almeno 5 centimetri. Normalmente si
aggiunge dal doppio al triplo di acqua rispe o al peso degli
ingredienti, sommando la carne e gli ortaggi. Se vi state chiedendo
come mai nella lista degli ingredienti non c’è il sale, la risposta è
che non si me e. C’è sempre tempo per salare ciò che preparerete
con il brodo: una zuppa, un riso o, una salsa. Salando ora, dato
che il brodo verrà poi concentrato, rischiate solo di o enere un
liquido troppo salato. Il sale si può sempre aggiungere ma non si
può togliere. La partenza in acqua fredda serve per aiutare a
o enere un brodo il più limpido possibile. Ge ando i pezzi
dire amente in acqua bollente sicuramente velocizzeremmo
l’estrazione dei sapori, ma a spese della limpidezza del brodo. In
cucina l’occhio vuole la sua parte.
3
Scaldate a fuoco medio-alto. Una volta arrivati vicini
all’ebollizione, 90-95 °C, abbassate il fuoco. Di quanto abbassare
dipenderà dalla quantità di brodo che state preparando, dalla
grandezza della pentola e dalla superficie di evaporazione
disponibile. L’acqua dovrebbe sobbollire, il che significa che
dovreste vedere poche bolle che raggiungono la superficie.
Cercate di tenere la temperatura tra gli 85 °C e i 95 °C: al di so o
l’estrazione dei sapori è troppo lenta, al di sopra rischiate di
o enere un brodo torbido.
4
Periodicamente dovrete eliminare dalla superficie del vostro
brodo la schiuma che si forma. È composta, senza sorpresa, di
proteine. Esa amente come in una birra, le proteine funzionano
da sostanze schiumogene ed emulsionanti, inglobando aria e altre
sostanze. Io utilizzo un colino che passo sulla superficie del brodo
e che pulisco in un contenitore pieno d’acqua. La carne produrrà
schiuma da eliminare prevalentemente nella prima ora di co ura,
specialmente se avete saltato la fase di sbianchitura iniziale.
5
Ricordatevi di assaggiare il brodo ogni tanto. Certo, è senza sale.
Non l’abbiamo messo, ricordate? Dopo circa 2-3 ore di co ura, a
seconda della temperatura che riuscite a mantenere, è arrivato il
momento di aggiungere gli ortaggi, che cuoceranno per un’ora
rilasciando i loro sapori. Lo standard è il classico mirepoix con
carote, cipolle e sedano. A me piace aggiungere anche un pezzo di
zenzero pelato. Le verdure si possono tagliare grossolanamente,
dato che rimarranno immerse in acqua bollente a lungo: dei pezzi
di verdura di 5 cm di grandezza possono essere co i per un’ora. Se
i tempi sono più lunghi o più corti regolatevi. Io taglio le cipolle in
due, se non sono grandi, altrimenti in qua ro.
6
Se alcuni pezzi vengono a galla, perché contengono delle cavità,
usate un peso per tenerli sommersi. Va bene anche uno scolapasta
o un passaverdura invertito. L’importante è che tu o rimanga
sempre ben sommerso. Se durante la co ura l’acqua evapora
troppo rapidamente lasciando scoperti gli ingredienti, aggiungete
acqua calda.
7
Dopo un’ora di co ura degli ortaggi è il turno degli aromi, che
aggiungiamo a 30-45 minuti dalla fine della co ura, per evitare
che i sapori si volatilizzino o si rovinino. Usate solo i gambi del
prezzemolo, e conservate in freezer le foglie per qualche altra
rice a. Ogni tanto ricordatevi di assaggiare il brodo, specialmente
dopo che avete aggiunto gli odori più delicati, come il timo o i
gambi del prezzemolo.
CONSIGLIO
I cuochi spesso me ono le eventuali spezie in
un sacche ino di garza (sachet d’épices) e
legano gli odori come prezzemolo, timo e
alloro con un filo (bouquet garni). Poiché il
brodo verrà filtrato questo non è stre amente
necessario, tu avia può essere utile se vi
accorgete che gli aromi stanno diventando
troppo intensi e volete togliere tu i i rame i e
le spezie senza dover pescare per tu a la
pentola.
8
Il brodo è pronto, la carne e le ossa hanno dato tu o quello che
potevano. Le ossa dovrebbero essere diventate talmente fragili da
rompersi facilmente con le mani. Versate tu o in una seconda
pentola a raverso un colino per filtrare, cercando di tra enere i
residui solidi. In una cucina professionale il brodo viene spesso
filtrato con dei teli, per tra enere il più possibile i residui e
aumentare la limpidezza.
9
Il brodo è pronto per essere utilizzato per comporre vellutate,
salse o zuppe, per aiutare nei riso i o per cuocere agnolo i e
tortellini. Se decidete di conservarlo c’è bisogno di raffreddarlo e
no, non potete me ere la pentola bollente in frigorifero! Se lo
faceste, con tu o il calore che emana aumenterebbe la
temperatura dell’aria e di tu o quello che il frigorifero contiene,
senza raffreddare di molto il liquido. Un frigorifero non è fa o per
raffreddare alimenti caldi.
Nelle cucine professionali utilizzano degli apparecchi chiamati
abba itori per raffreddare velocemente alimenti molto caldi. Se
non siete tra quei pochi fortunati che possiedono un abba itore
casalingo, dovete raffreddare il brodo prima di me erlo in
frigorifero. La cosa più efficiente da fare è immergere la pentola in
un lavandino o in un contenitore riempito di acqua fredda o,
ancora meglio, di acqua e ghiaccio, e aspe are, mescolando per
aiutare la dissipazione del calore. Per velocizzare il
raffreddamento è possibile ge are nel brodo dei contenitori di
plastica riempiti di acqua e tenuti in frigorifero per farla
congelare, a pa o che siano resistenti al calore. Una volta
raffreddato potete me ere il brodo in frigorifero, ma è meglio
usarlo entro un paio di giorni: è, le eralmente, un brodo di coltura
perfe o per ba eri e altri microrganismi, quindi se non lo usate
velocemente vi conviene porzionarlo e congelarlo.
CONSIGLIO
Quando riutilizzerete il brodo, per una zuppa
o altro, riportatelo all’ebollizione, per
scongiurare ogni possibile rischio di
contaminazione ba erica nel caso il vostro
raffreddamento prima del congelamento non
sia stato perfe amente eseguito.
10
Dopo una no e in frigorifero il grasso, se c’era, si è solidificato.
Dobbiamo toglierlo prima di porzionare il liquido e me erlo in
contenitori di capacità opportuna in freezer, per poter utilizzare il
brodo quando serve nella quantità desiderata. Se volete potete
ridurlo, cioè continuare a far evaporare l’acqua sino a portarlo a
un terzo o un quarto del volume iniziale.
Se avete estra o una buona quantità di collagene, quando lo
tirate fuori dal frigorifero il brodo dovrebbe essere gelificato.
L’ANGOLO CHIMICO
COME FUNZIONA LA CHIARIFICAZIONE CON L’ALBUME PER IL
CONSOMMÉ Calcolate un albume per ogni litro di
liquido. Montatelo leggermente, in modo da
inglobare un po’ d’aria, e aggiungetelo al brodo
caldo. Portate piano all’ebollizione e fate sobbollire
per 10-15 minuti. Le proteine dell’albume
coaguleranno, intrappolando le impurità. Poiché
questo processo toglie anche parte del sapore, a
volte si aggiungono carne macinata, dello stesso
tipo di quella usata per preparare il brodo, e
vegetali tagliati fini per ridare gusto. Mescolate
lentamente per me ere in movimento il liquido, in
modo che le impurità vengano ca urate. Filtrate
con un telo e servite il consommé limpido.
RICETTA
LE COSTINE DI MAIALE IN PADELLA
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come, senza bisogno di
aggiungere acqua, sfru ando solo quella contenuta nella
carne, una co ura molto lunga a basse temperature riesca a
sciogliere il collagene e a trasformare le costine in una
preparazione da leccarsi le eralmente le dita.
Il BBQ, o barbecue, è la moda gastronomica del momento.
Importato dagli USA, anche in Italia questo modo di cucinare la
carne, e non solo, sta avendo un notevole incremento di visibilità:
si vendono a rezzature, si organizzano corsi e dimostrazioni, si
pubblicano libri mentre griller e pitmaster famosi, i maghi della
griglia e del BBQ, spiegano i segreti del mestiere in trasmissioni
televisive o in video su YouTube. La popolarità di questo metodo
di co ura si nota anche dal fa o che sempre più spesso si trovano,
da macellai e nei supermercati, i tipici tagli all’americana di carne
da barbecue: per esempio le costine di maiale, o ribs, a taglio intero
come le spare ribs e le baby back ribs. Le prime, più lunghe e con
più carne tra le ossa, derivano dalla parte laterale e dalla pancia
del maiale, mentre le seconde, più piccole, magre, tenere e con più
carne sopra le ossa, arrivano dalla parte superiore dell’animale,
vicino al lombo.
Un metodo popolare di co ura delle costine è il cosidde o 3-2-1:
dopo aver cosparso il taglio intero con aromi, sale e spezie, questo
viene affumicato nel barbecue per tre ore mantenendo la
temperatura a circa 110 °C. Si prende poi il pezzo e lo si racchiude,
sigillandolo, in un foglio di alluminio per alimenti, cospargendolo
con un po’ di liquido a base acida, come aceto o succo di limone,
quindi lo si cuoce per altre due ore. Per finire si toglie l’alluminio e
si cuoce per un’altra ora a temperature più alte, spennellando più
volte con la salsa barbecue. Sei ore di co ura per delle costine
possono sembrare tante, ma esistono tecniche che richiedono
ancora più tempo; chiunque le abbia assaggiate sa che non sono
paragonabili alle normali costine da grigliata co e a fiamma
dire a.
La necessità dei tempi lunghi di co ura, a temperature piu osto
basse, deriva dalla stru ura e della composizione della carne. Le
costine sono ricche di grasso, e per questo diventano deliziose, ma
sono anche molto ricche di tessuto conne ivo, che deve essere
sciolto. In molte rice e le costine vengono co e in umido per
sciogliere il collagene, ma in questo caso vogliamo che la crosta
esterna sia perfe amente asciu a e più simile a un arrosto che a
un bollito. Per questo il barbecue, con i suoi tempi lunghi e il suo
calore indire o, è perfe o. Cuocendo a temperature non troppo
elevate, l’acqua all’interno della carne scioglie pian piano il tessuto
conne ivo, trasformandolo in gelatina, e la carne da dura diventa
morbidissima, con le fibre che si staccano facilmente.
Se non possedete un barbecue potete comunque cucinarle in un
normale forno casalingo, a parte l’affumicatura, s’intende. Poiché a
me piacciono le cose difficili, e lo scopo principale delle rice e di
questo libro è illustrare i principi scientifici so ostanti,
cucineremo le costine in padella. Ma non verranno in umido, non
temete.
INGREDIENTI costine di maiale (baby back ribs o spare
PER 2 PERSONE ribs)
spezie a piacere
sale
PROCEDIMENTO
1
Prendete le costine e se sul lato vicino alle ossa è ancora presente
una membrana di tessuto conne ivo, toglietela strappandola con
le mani, facendo a enzione a non eliminare però il grasso
so ostante. Cospargetele di sale, aromi e spezie a piacere. C’è chi
usa la paprica, il pepe, il rosmarino, la salvia, l’aglio in polvere e
così via. Io vi consiglio, come base di partenza, di provare una
miscela di sale, aglio in polvere e pepe in parti uguali. Le volte
successive che le preparerete provate a modificare le dosi secondo
il vostro gusto, aggiungendo anche altri ingredienti aromatici.
2
Me ete le costine in una padella antiaderente profonda con un
coperchio a tenuta. Potete separarle, se non ci stanno. Non serve
olio: si lubrificheranno con il proprio grasso.
3
Chiudete con un coperchio, possibilmente pesante ed ermetico. Il
vapore che si svilupperà non deve sfuggire. Accendete il fuoco del
fornello piccolo al minimo. Nel mio fornello il minimo lo o engo
andando verso la posizione di spegnimento (ma fate a enzione a
non spegnerlo). Praticamente la fiamma quasi non si vede.
4
Ora dovete solo aspe are un po’ di ore. Almeno 3. Se il fuoco è
troppo alto dopo un po’ vedrete del liquido, rilasciato dalle costine,
ribollire nella padella. Niente paura: togliete temporaneamente le
costine, alzate il fuoco e fate evaporare l’acqua. Quando sarà
rimasto solo del grasso sciolto rime ete le costine e riabbassate il
fuoco. Potete usare una retina spargifiamma per distribuire
meglio il calore. Capirete quando sono pronte perché la carne si
staccherà facilmente dall’osso: l’acqua avrà sciolto tu o il
collagene che la teneva a accata.
5
Lasciate raffreddare un po’ le ossa, per poterle prendere con le
mani, e le costine sono pronte per essere gustate. A me piace –
scelta poco ortodossa, lo so – mangiarle con del riso bianco bollito,
condito con un po’ del grasso rilasciato dalle costine (non vi ho
mai promesso di scrivere rice e salutiste in questo libro). Oppure
da sole, senza alcuna salsa o contorno di accompagnamento.
Io le trovo fantastiche nella loro semplicità. E, se le avete co e
bene, rimarranno solo le ossa spolpate. Ed è proprio questo il loro
dife o principale: grazie al loro bassissimo contenuto di acqua si
congelerebbero benissimo, ma non me ne rimangono mai da
me ere in freezer, anche perché in padella non riesco a
prepararne tante.
VERSIONE AL FORNO
Cospargete le costine di sale e spezie massaggiandole bene con le
mani. Per dare un po’ di acidità potete spruzzare sulla carne anche
il succo di un limone. Posate le costine sulla teglia, senza separarle.
Come prima, non è necessario cospargere d’olio: il grasso
lentamente si scioglierà veicolando i sapori che si formano.
Cuocete a 130 °C a forno statico per almeno due ore: la carne si
deve staccare facilmente dall’osso. A metà co ura potete ribaltare
le costine. A questo punto portate il forno a 190 °C, accendete la
ventola e proseguite la co ura per 15 minuti o finché le costine
non saranno ben brunite esternamente. Non saranno come quelle
fa e al barbecue, anche perché manca del tu o l’affumicatura, ma
se non avete avuto fre a la carne quasi si scioglierà in bocca. E
ricordatevi che le costine si gustano meglio con le mani. Se temete
che diventino troppo secche potete avvolgerle completamente in
un foglio di alluminio per alimenti durante la co ura a 130 °C: in
questo modo l’umidità rimarrà all’interno dell’involucro,
mantenendo la carne morbida. Quando sono co e toglietele
dall’alluminio e alzate la temperatura del forno. Potete anche
accendere il grill, ma in questo caso non dovete allontanarvi
neanche per un minuto, perché rischiate di bruciare tu o.
RICETTA
IL RAGÙ ALLA (QUASI) BOLOGNESE
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come la reazione di Maillard,
sia per la carne che per le verdure, sia importante per
costruire sapore, e come una lunga co ura riesca a
sciogliere il tessuto conne ivo della carne tritata non di
primissima scelta.
Tra le preparazioni italiane più conosciute, diffuse, e troppo
spesso bistra ate al mondo vi è sicuramente il ragù alla
bolognese. Questa salsa a base di carne si è evoluta nel tempo e
non è facile, come spesso accade per le rice e della tradizione
regionale italiana, risalire alla rice a “autentica”. E forse non ha
neanche troppo senso, visto che nel fra empo sia i gusti che le
materie prime sono profondamente cambiati. Nel 1891 il
gastronomo Pellegrino Artusi nel suo La scienza in cucina e l’arte
di mangiare bene condiva dei «maccheroni alla bolognese» con
quello che forse era il “ragù alla bolognese” dell’epoca. La rice a
prevedeva di unire della carne secca tritata fine a della carne di
vitella a dadini, di aggiungere cipolla, sedano, carota, burro e di
me ere sul fuoco tu o insieme. Quando la carne aveva preso
colore si aggiungeva un pizzico di farina e si proseguiva la co ura
bagnando di tanto in tanto con del brodo. Per arricchire la salsa
Artusi suggeriva di aggiungere qualche fegatino di pollo e mezzo
bicchiere di panna e di rifinire con pepe e noce moscata. Come
vedete, la rice a non includeva il concentrato o la salsa di
pomodoro che invece appaiono, in piccole quantità, solo in rice e
più recenti.
Prima di continuare, una precisazione linguistica: nella cucina
italiana esistono vari ragù, ma per tanti italiani nati al di sopra
della linea gotica il termine ragù è sinonimo di “ragù alla
bolognese” – e così lo intenderò da qui in avanti per brevità – e
molti sono ignari che ne esistano degli altri tipi, tra cui il più
famoso è sicuramente quello napoletano, decantato anche da
Eduardo de Filippo. Come vedete, ho aggiunto un “quasi” alla
rice a, e questo per non incorrere nelle ire dei puristi: le rice e di
questo libro servono principalmente per illustrare i conce i
scientifici spiegati nelle pagine precedenti. Le biblioteche e il Web
sono pieni di libri e siti di cucina dove trovare rice e. Il punto è
che le dosi e gli aromi che usate voi abitualmente possono variare
ma i processi chimici e fisici sono sempre gli stessi.
Comunque, per soddisfare anche i puristi, più avanti potete
trovare un ragù più classico.
AVVERTENZA
Se avete fre a o sperate di preparare un ragù come si deve in
meno di 3 ore sme ete di leggere e cambiate argomento. Per un
ragù a prova di buongustaio serve pazienza e tempo. Punto. Se
non avete pazienza e tempo, cucinate altro.
La cosa migliore è preparare il ragù almeno un giorno prima. Si
può preparare anche qualche giorno prima e congelarlo in piccole
porzioni. Nelle cucine professionali si usa un abba itore, un
apparecchio che raffredda molto velocemente ed evita così che
proliferi la carica ba erica durante il raffreddamento.
INGREDIENTI
Carne Molte varianti della rice a odierna utilizzano una miscela
di vari tagli e vari animali. In realtà una volta le rice e venivano
ada ate a quello che si aveva in dispensa, per cui non esistono le
dosi “giuste” per il ragù. A differenza della cucina francese, che è
stata codificata in modo molto preciso, in Italia sono sempre stati
la disponibilità e il costo delle materie prime a de are le infinite
varianti delle rice e, per cui fate pure il ragù con la carne e le dosi
che usate di solito. Suggerisco però di usare almeno una parte di
salsiccia di maiale, o equivalente, sia per fornire gusto e
morbidezza al ragù, sia per apportare i grassi che serviranno per
veicolare le molecole gustose verso le vostre papille. Di solito uso
circa il 30-40% di salsiccia e il 70-60% di carne di manzo tritata. Per
il ragù qui fotografato ho usato 750 g di carne macinata di manzo
– quella sceltissima è troppo magra – e 500 g di salsiccia di maiale.
In totale sono 1,250 kg di carne.
Soffri o Cipolle, carote e sedano. Le proporzioni classiche dicono
un terzo, un terzo e un terzo. Io invece abbondo molto con la
cipolla e riduco al minimo la carota e a volte neanche la uso
perché trovo renda il ragù troppo dolciastro. Sui 700 g del trito
usato per questa rice a 500 g erano cipolle. Se vi piace, e a me
piace, potete anche usare lo scalogno per sostituire parte delle
cipolle.
Burro 55 g; potete aumentare o ridurre, ma almeno un po’ ci
vuole.
Aglio C’è chi ce ne me e un po’ e chi no. Io solitamente ne me o
un poco, giusto per profumare: 2-3 spicchi schiacciati per ogni kg
di ragù. Sfido chiunque a sentire l’aglio nel ragù finale. Non si
arrabbino i devoti delle rice e depositate dal notaio o alla Camera
di Commercio: mica per nulla ho messo quel “quasi” nel titolo. E
poi nel bolognese ti sposti di qualche chilometro e la rice a di
base cambia, e lo me e pure lo chef modenese pluristellato
Massimo Bo ura.
Aromi 4-5 foglie di alloro fresco. Non usate quello secco, che
solitamente ha perso o modificato il suo aroma.
La e intero Quanto ne servirà. Tenetene pronto un litro.
Vino Solo se vi piace. Non è stre amente necessario. Io uso un
bicchiere di bianco, per cui tenetene a disposizione 2, ma anche un
buon rosso va bene.
Triplo concentrato 1 tube o. Ho de o triplo, eh!
PROCEDIMENTO
Dal punto di vista scientifico, i punti cruciali per la riuscita di un
buon ragù sono due: una buona rosolatura della carne e una lunga
co ura per sciogliere il collagene. Nella rice a tradizionale prima
si fa un soffri o e poi si aggiunge la carne. Io inverto le due fasi.
Abbiamo già parlato della reazione di Maillard più volte in questo
libro, per la sua capacità di creare gusto nei pia i a base di
proteine. Perché avvenga velocemente, però, è necessario
raggiungere temperature sufficientemente alte.
Quando aggiungiamo la carne cruda al soffri o, se questo non è
stato privato dell’acqua, abbiamo difficoltà a mantenere le alte
temperature necessarie per sprigionare i sapori della carne. Sino a
quando l’acqua delle verdure non è evaporata, infa i, la
temperatura rimarrà so o i 100 °C. E se decidete di alzare troppo il
fuoco per far evaporare l’acqua fuoriuscita dalla carne, se non
siete molto accorti, rischiate di bruciare le cipolle del soffri o non
appena l’acqua è evaporata.
Ecco dunque la procedura suggerita dall’analisi scientifica: si
rosolano carne e soffri o separatamente. Molte rice e
tradizionali hanno ado ato una certa sequenza di preparazione
solo in base a considerazioni pratiche e di comodità, non
gastronomiche. In questo caso preparare prima il soffri o e poi
aggiungere la carne perme e di usare una sola pentola. In questa
rice a ne servono due, oppure si deve usare un recipiente
intermedio dove parcheggiare la carne. Ma tanto lava la
lavastoviglie.
Lo scopo di tu o il procedimento di preparazione è costruire il
sapore. Nel ragù questo viene costruito dalle varie, e lente,
reazioni chimiche che avvengono: non è già presente nelle materie
prime. Quindi ogni passaggio è finalizzato a far avvenire al meglio
queste benede e reazioni.
1 INIZIATE CON LA CARNE
11:00
Ore 11. Versatevi un bicchiere di vino e sorseggiatelo. Sarà una
preparazione lunga, non dovrete avere fre a, e avere a portata di
mano un buon bicchiere vi donerà la giusta predisposizione. Si
inizia.
Me ete la carne in una pentola o in una padella ampia: io uso
l’antiaderente, eventualmente con un filo d’olio, giusto per non far
a accare. Non aggiungete sale, per ora. Se la carne è
sufficientemente grassa l’olio non dovrebbe neanche servire.
Accendete il fuoco e mantenetelo abbastanza alto.
La carne inizialmente espellerà molta acqua. Questa andrà fa a
evaporare tu a. Se l’avete, è meglio utilizzare una pentola o una
padella ampia, in modo tale che lo strato di carne non sia troppo
alto. In questo modo l’acqua rilasciata evapora in fre a, altrimenti
rischiate di lessare la carne invece di rosolarla. Fate un buche o in
mezzo alla carne per verificare se c’è troppa acqua.
Se il liquido è troppo, perché c’è troppa carne e la pentola che
utilizzate è piccola, vi conviene versare il brodo che si è formato in
un recipiente. Lo reintrodurrete in una fase successiva.
2 ROSOLATE LA CARNE
Mescolate e schiacciate la carne con un mestolo o una spatola di
silicone. Se ci sono dei pezzi troppo grandi, spezzateli. La carne
non deve bollire ma soffriggere, quindi non appena i liquidi si
saranno asciugati continuate a fiamma viva, mescolando
continuamente, rosolando per bene la carne. La carne inizia a
“soffrire”.
A poco a poco vedrete apparire dei grani di carne dal tipico colore
arrostito. Bene. La reazione di Maillard sta facendo il suo lavoro.
Se vi si secca tu o è perché avete usato della carne troppo magra.
La carne del ragù deve essere grassa e l’aggiunta della salsiccia di
maiale serve anche a introdurre del grasso.
Continuate a fuoco medio sino a quando una buona parte della
carne ha preso un bel colore marroncino, segno che la reazione di
Maillard ha fa o il suo corso.
12:10
Togliete ora dal fuoco e trasferite la carne rosolata in una
bacinella, se volete utilizzare una pentola sola. La durata di questa
fase dipende ovviamente dalla quantità di carne e può durare 3040 minuti. Sono le ore 12.10.
3 TRITATE LE VERDURE E SCIOGLIETE IL
BURRO
15:05
Ore 15.05 (ho pranzato nel fra empo).
È ora di preparare il soffri o. Usate le proporzioni di cipolle,
carote, sedano che più vi piacciono. Io me o molte meno carote
rispe o alla rice a standard perché rendono troppo dolce il ragù.
Anche di sedano ne me o meno. L’importante, comunque, è che
sia tu o tagliato a pezze ini molto piccoli.
Con il tempo la pance a, originariamente il solo grasso utilizzato
per preparare il soffri o, è stata sostituita dal burro e più
recentemente dall’olio. Io uso il burro. Prendetelo, me etelo nella
pentola, scaldatelo e fatelo schiumare. Fin tanto che il burro fuso
contiene acqua la temperatura non supererà i 100 °C. Quando le
bollicine di vapore se ne saranno tu e andate la temperatura
comincerà a salire e il burro prenderà colore.
Continuate sino a quando sentirete aromi di nocciola e il burro
fuso sarà, appunto, di colore nocciola. A enzione a non esagerare,
perché superati i 140 °C circa o errete burro bruciato invece che
beurre noise e. Anche questo passaggio serve a produrre
molecole aromatiche, derivanti dalle reazioni delle proteine del
burro. Molecole che non si formano se invece, presi da raptus
salutista, usate l’olio extravergine di oliva. Inutile dire che per i
puristi l’olio per il soffri o del ragù neanche si deve nominare, un
sacrilegio. Un po’ come usarlo per il soffri o del riso o alla
milanese! Eresia! Per secoli, sempre al di sopra della linea gotica, si
è quasi ovunque ignorata l’esistenza dell’olio di oliva. Però, come
ho de o, io aderisco alla scuola del “fate come più vi piace”. Basta
che sappiate che perdete sapore.
4 AGGIUNGETE LE VERDURE AL BURRO
FUSO
Ora, e solo ora, aggiungete le verdure del soffri o. Me ete il fuoco
al minimo e, armati di santa pazienza, aspe ate che la verdura
“sudi”, cominci cioè a espellere tu a l’acqua rammollendosi. Il sale?
No, non è ancora giunto il momento. Se lo aggiungete ora, per il
fenomeno dell’osmosi estrarrà troppo velocemente l’acqua dalla
cipolla e questa rischierà di bruciare prima che le carote, più dure,
si siano ammorbidite. Se siete abituati ad aggiungere il sale in
questa fase, cercate di tenere d’occhio il soffri o: se la cipolla
brucia il sapore poco gradevole rimarrà fino alla fine.
5 ECCO IL SOFFRITTO
Io faccio sudare inizialmente le verdure con il coperchio, per
aiutare a rammollirle. La cipolla deve diventare traslucida e quasi
sciogliersi. Se vi rendete conto che la cipolla inizia a bruciare
senza essersi sciolta potete aggiungere poca acqua, un cucchiaio
alla volta. È però il segno che avete usato un fuoco troppo alto,
Oppure avete avuto il braccino corto con il burro. O entrambe le
cose. Se volete una rice a dietetica, questa non fa per voi.
15:15
L’acqua è evaporata quasi tu a (sono le 15:15). Ora possiamo salare
il soffri o e continuare a fuoco basso. Le cipolle prendono un
colore dorato: un po’ deriva dai pigmenti della carota ma un po’ è il
risultato della onnipresente reazione di Maillard. Più la co ura è
prolungata e più si formano molecole gustose. Idealmente, si deve
far soffriggere sino a un a imo prima che inizi a bruciare.
6 UNITE LA CARNE AL SOFFRITTO
15:50
Ore 15.50. È tempo di aggiungere la carne che avete lasciato da
parte. Tenete il fuoco vivo e, se c’è dell’umidità residua, aspe ate
che vada via. Quando la carne ricomincia a sfrigolare e a brunirsi,
se volete potete aggiungere un bicchiere di vino. L’altro. L’alcol
contribuisce a sciogliere alcune molecole che erano rimaste
imprigionate nelle verdure e nella carne. In più le componenti
aromatiche del vino aggiungeranno gusto al ragù.
Una prova che l’acqua è quasi tu a evaporata si può avere
misurando la temperatura con un termometro. Trovetere
temperature di qualche grado superiori a 100 °C, segno della
completa evaporazione dell’acqua esterna.
7 AGGIUNGETE IL CONCENTRATO DI
POMODORO
Ora aggiungiamo il triplo concentrato: è quello che darà colore al
ragù. C’è chi ne aggiunge poco, chi tanto. Iniziate con 150 g: quando
preparerete il ragù la prossima volta aumenterete o diminuirete a
vostro gusto. E no, non si usano i pelati o la passata di pomodoro.
Suvvia, abbiamo fa o tu a questa fatica per togliere l’acqua e ora
ce la rime iamo?
Mescoliamo.
8 AGGIUNGETE IL LATTE
16:10
Ore 16.10. Ora è il turno dei grassi del la e. Vi ho già de o che non
è una rice a dietetica? Prendete la bo iglia di la e fresco intero e
aggiungetene un po’ alla volta, mescolando finché il la e non
viene assorbito. Non abbiate fre a, potete me erci anche dieci
minuti. È abbastanza normale che venga assorbito più di mezzo
litro di la e. Se invece del concentrato di pomodoro aveste
aggiunto dei pomodori pelati o la passata avreste già dell’acqua
presente e non riuscireste a far assorbire tu o il la e necessario.
So per esperienza che molte persone obie ano ferocemente
contro l’aggiunta del la e. In realtà non è per nulla strana: anche
la rice a tradizionale dell’Accademia della Cucina Italiana la
prevede. Non pensate che il ragù “autentico” sia esclusivamente il
vostro solo perché l’avete sempre fa o nella stessa maniera. Come
ho de o, in realtà il ragù autentico non esiste. Esistono infiniti
ragù. E se non vi piace non aggiungete il la e. Ma provateci
almeno una volta.
In molti circoli gastronomici si sviluppano delle diatribe infinite
sull’uso della panna: sì, no, sei scomunicato, tu non capisci niente,
nella rice a originale c’è, non c’è, ma alla Camera di Commercio
dicono, mia nonna ecc. In realtà è una disputa piu osto sciocca: la
panna fresca potete vederla come del la e “concentrato”, visto che
ha il 35% di grassi, cioè di burro, invece che il 4,5%. Quando
aggiungete il la e e lasciate evaporare l’acqua quello che conta,
alla fine, sono solo i grammi di grassi – burro, in ultima analisi –
che avete aggiunto. Quindi, se volete aggiungere la panna fatelo
senza problemi: non state barando. Il sapore sarà leggermente
diverso. Io solitamente non tengo panna fresca in casa e quindi
aggiungo il la e. Ci vorrà più tempo per far evaporare l’acqua.
9 TOCCA AGLI AROMI E AL SALE
Ora potete salare e aggiungere gli aromi. Solo l’alloro, nel mio caso,
ma un’aggiunta più popolare è il rosmarino al posto dell’alloro.
Stropicciate le foglie con le mani prima di aggiungerle:
sprigioneranno più facilmente il loro aroma.
10 CUOCETE A LUNGO
A questo punto è arrivato il momento di sciogliere il collagene, e
per far ciò ormai sapete che servono tempi lunghi e temperature
non troppo elevate. Lasciate quindi cuocere a fuoco molto basso
per più tempo possibile. Se si secca potete aggiungere altro la e
oppure del brodo, se non volete esagerare con il la e.
11 SPEGNETE IL FUOCO
18:30
Ore 18.30. Per preparare il ragù fotografato ho impiegato 4 ore e 40
minuti. L’ho mangiato il giorno successivo con le tagliatelle, la
morte sua, e la sera con i maccheroni.
L’EVOLUZIONE DEL RAGÙ
Sicuramente alcuni di voi non avranno mai fa o il ragù con il
la e, l’ingrediente più “controverso” nelle varie rice e esistenti.
Nella cucina italiana esistono poche rice e codificate esa amente
con gli ingredienti precisi, mentre la maggior parte delle
preparazioni tradizionali si sono evolute nel tempo, non sono
cristallizzate e immutabili. Il la e in realtà è presente in quasi
tu e le rice e “tradizionali” moderne – mi rendo conto che suoni
strano – di ragù, così come il burro e, a volte, anche la panna,
mentre andando indietro nel tempo sparisce il pomodoro.
Eccovi una piccola carrellata di ragù a ritroso nel tempo.
Il mio Talismano della felicità di Ada Boni, anno 1949, edizione
XIX, riporta questa rice a.
«Ragù alla bolognese.
Questa rinomata salsa composta, che si chiama a Bologna ragù,
condimento o pasticcio, esige uno speciale procedimento. Per sei
persone calcolate 300 grammi di carne di manzo. Volendo, potrete
me ere insieme con la carne di manzo una parte di carne di
maiale o di vitello, ma il peso totale di queste carni deve essere di
trecento grammi e la carne di manzo deve predominare. Passate
questa carne nella macchine a da tritare e me etela in una
casseruola con una cinquantina di grammi di burro. Aggiungete
un pesto di 100 grammi di pance a di maiale, una cipolla, una
carota gialla e una costola di sedano. Se credete, potrete passare
anche pance a e ortaggi dalla macchine a. Aggiungete anche un
chiodo di garofano e me ete la casseruola sul fuoco, facendo ben
rosolare la carne e gli ortaggi a color d’oro molto scuro. Bagnate
allora con un bicchiere di brodo o d’acqua, che me erete in due
riprese. Aggiungete un cucchiaino colmo (non di più) di salsa di
pomodoro in bara olini, date una mescolata, condite con sale e
pepe, ricoprite la carne d’acqua, diminuite il fuoco e lasciate
cuocere pian piano. C’è una tradizione bolognese più raffinata che
consiglia di bagnare l’intingolo col la e invece che col brodo o
acqua. È questione di gusti. Certo l’aggiunta del la e comunica
alla salsa una maggiore finezza. A questo ragù si possono
aggiungere fegatini di pollo, ove e, dadini di prosciu o, funghi
secchi, ecc. Diventa in questo caso il «gran condimento» alla
bolognese. Le regaglie e il resto (già co i a parte) si aggiungono
verso la fine della co ura del ragù, il quale deve bollire per oltre
mezz’ora. Questo sugo alla bolognese si completa poi
efficacemente con mezzo bicchiere di crema di la e, e con fe ine
di tartufo bianco.»
Continuando nel nostro viaggio a ritroso, arriviamo al luglio del
1937, quando Frida, nella sua rubrica mensile “L’ABC della cucina”
sulla rivista “La Cucina Italiana”, espone la rice a delle tagliatelle
alla bolognese.
«Signorina Luisa Natale – Casarano. – Lei mi chiede l’autentica
rice a delle tagliatelle alla bolognese. Ma la sfoglia la sa fare? Badi
che, a meno di avere una buona macchine a impastatrice e
tagliatrice, non è facile fare una sfoglia perfe a: prerogativa che
va lasciata alle donne Emiliane, signore della spianatoia e del
ma erello. La dose della farina, in proporzione al numero delle
uova, non si può precisare in quanto che non tu e le qualità di
farina assorbono la stessa quantità di uovo. In genere si possono
calcolare tre belle uova fresche e 350 o 400 grammi di farina. Né
acqua, né sale. Nel caso, un chiaro d’uovo, oltre le tre uova intere.
Tagliatelle col ragù? O tagliatelle al prosciu o? Folklore
petroniano tanto le une che le altre. Cominciamo dal ragù. Tritare
con la macchine a 300 gr. di carne magra di vitellone oppure fra
carne di vitellone e di maiale, o di vitella, senz’osso: e me erla al
fuoco in una cazzarola con 50 gr. di burro. Passare quindi alla
macchine a 100 gr. di pance a di maiale, una cipolla, una carota e
una costola di sedano. Me ere anche questo trito nella cazzarola.
Quando gli erbaggi son rosolati ossia color dell’oro, bagnare con
un mezzo ramaiolo di brodo o di estra o di carne sciolto
nell’acqua: far bollire un poco, quindi aggiungere un altro mezzo
ramaiolo di brodo, sale, pepe, un cucchiaino di salsa densa di
pomodoro, me ere un coperchio sulla cazzarola e abbassare la
fiaccola del gas affinché il ragù possa cuocere pian piano. Nel caso,
mentre cuoce, aggiungete un pochino di acqua calda, o meglio di
la e. Col la e, il ragù acquista un gusto più delicato. Per renderlo
ancora più fine aggiungere qualche fegatino di pollo a pezze ini e
qualche dadino di prosciu o. Questa salsa, ultimata con due dita
di panna di la e, è sufficiente per 6 persone.
Le tagliatelle al prosciu o sono molto più semplici per quanto
gustose. Si lessano, si scolano e si condiscono con un e ogrammo
di prosciu o tagliato a dadini e scaldato dentro una cazzarolina in
cento grammi di burro liquefa o a fuoco debolissimo. Ultimare
con abbondante parmigiano gra ato. Questo condimento serve
per cinque o 600 grammi di tagliatelle e perciò per 5 o 6 persone.»
Scavalchiamo a ritroso il secolo e arriviamo nel 1891, quando
Pellegrino Artusi pubblica il suo La scienza in cucina e l’arte di
mangiare bene. Il gastronomo di Forlimpopoli non include le
tagliatelle al ragù ma solo delle “tagliatelle all’uso di Romagna”
condite con aglio, olio, prezzemolo e pomodori. Descrive invece dei
“maccheroni alla bolognese” con quello che forse era il “ragù alla
bolognese” dell’epoca.
«Le seguenti proporzioni sono approssimative per condire
grammi 500 e più di minestra:
Carne magra di vitella (meglio se nel file o), gr. 150.
Carnesecca, grammi 50.
Burro, grammi 40.
Un quarto di una cipolla comune.
Una mezza carota.
Due costole di sedano bianco lunghe un palmo, oppure l’odore del
sedano verde.
Un pizzico di farina, ma scarso assai.
Un pentolino di brodo.
Sale pochissimo o punto, a motivo della carnesecca e del brodo
che sono saporiti.
Pepe e, a chi piace, l’odore della noce moscata.
Tagliate la carne a piccoli dadi, tritate fine colla lune a la
carnesecca, la cipolla e gli odori, poi me ete al fuoco ogni cosa
insieme, compreso il burro, e quando la carne avrà preso colore
aggiungete il pizzico della farina, bagnando col brodo fino a
co ura intera.
Scolate bene i maccheroni dall’acqua e conditeli col parmigiano e
con questo intingolo, il quale si può rendere anche più grato o con
dei pezze i di funghi secchi o con qualche fe ina di tartufi, o con
un fegatino co o fra la carne e tagliato a pezze i; unite, infine,
quando è fa o l’intingolo, se volete renderli anche più delicati,
mezzo bicchiere di panna; in ogni modo è bene che i maccheroni
vengano in tavola non asciu i arrabbiati, ma diguazzanti in un
poco di sugo.»
Finiamo con la rice a depositata nel 1982 dall’Accademia Italiana
della Cucina, che cerca di recuperare il ragù alla bolognese “vero”
(anche se a mio parere ha poco senso considerare le rice e fisse
nel tempo).
«Ingredienti
300 gr. cartella di manzo
150 gr. pance a distesa
50 gr. carota
50 gr. costa di sedano
50 gr. cipolla
5 cucchiai di salsa di pomodoro o 20 gr. di estra o triplo
1 bicchiere di la e intero
1/2 bicchiere di vino bianco o rosso, secco non frizzante
Sale e pepe, a gusto.
Procedimento
Si scioglie nel tegame la pance a tagliata a dadini, e tritata con la
mezzaluna; si aggiungono le verdure, ben tritate con la mezzaluna,
e si fanno appassire dolcemente. Poi si aggiunge la carne macinata
e la si lascia sul fornello, rimescolando sino a che sfrigola. Si
aggiunge il 1/2 bicchiere di vino ed il pomodoro allungato con un
poco di brodo, e si lascia sobbollire per circa 2 ore, aggiungendo un
poco alla volta il la e, ed aggiustando di sale e pepe nero.
Facoltativa ma consigliabile è l’aggiunta, a co ura ultimata, della
panna di co ura di 1 litro di la e intero.»
Buon ragù a tu i.
BONUS
TRACK
LA BESCIAMELLA
(PER LE LASAGNE AL FORNO)
Avete preparato un ragù sontuoso, da leccarsi i baffi, che le
tagliatelle sono la morte sua. Ma perché non provare a fare anche
un altro classicissimo pia o emiliano? Le lasagne al forno alla
bolognese. D’altra parte, nella rice a delle lasagne il componente
più lungo e laborioso da preparare è proprio il ragù, e quello l’avete
già fa o. La pasta la comprate, manca solo la besciamella.
Facilissima da preparare, a pa o di seguire qualche accorgimento.
La cucina classica francese conta centinaia di salse diverse,
classificate dal famoso chef Marie Antoine Careme nell’O ocento.
Solo pochissime hanno trovato spazio nella cucina italiana, meno
sofisticata. In particolare la maionese, conosciuta in tu o il
mondo, e la bechamel, italianizzata in besciamella. Sebbene negli
ultimi anni sia sempre meno usata, resiste come ingrediente di
alcuni pia i tradizionali come le crespelle o le lasagne alla
bolognese.
Nella cucina francese la bechamel è considerata una “salsa
madre”, perché è la base per molte altre salse: aggiungendo grana
e/o groviera si o iene la mornay.
ANATOMIA DI UNA SALSA
Una salsa è un liquido o semiliquido saporito e/o aromatico
utilizzato per condire un pia o. Una salsa aggiunge umidità,
sapore, corpo, viscosità, colore, brillantezza o altro. Solitamente
una salsa è più o meno viscosa, ma non necessariamente – pensate
alla salsa di soia.
A grandi linee, una salsa è composta da:
1
un liquido che fornisce la base. Può essere acqua, la e, vino,
brodo, burro chiarificato, succo di pomodoro o altro;
2
un agente addensante, solitamente amido o farina, ma non
sempre. Può essere anche gelatina oppure panna o burro. La
maggior parte delle salse sono più viscose dell’acqua: devono
essere abbastanza viscose da ricoprire leggermente il cibo senza
però formare una barriera troppo spessa. Possono essere solo
leggermente addensate, tanto da velare un cucchiaio, oppure un
po’ più spesse, da usare magari per coprire dei vegetali da
gratinare. Devono aderire leggermente al cibo, altrimenti
formerebbero una pozzanghera nel pia o, ma non devono
incollarsi sopra;
3
uno o più agenti aromatici. Questi possono essere i più diversi e
la loro aggiunta alle salse madri genera le centinaia di salse
diverse utilizzate nella cucina francese.
A questa classificazione sfuggono le salse o enute dire amente
da un prodo o, per esempio un coulis di qualche fru o o ortaggio.
L’agente addensante più comune è l’amido. Può essere utilizzato
puro, proveniente da vari vegetali come mais, frumento, riso,
manioca, patata, oppure si può sfru are quello naturalmente
presente nella farina di frumento.
La versione classica della bechamel prevedeva anche l’uso di
brodo di vitello e aromi come cipolla, alloro e chiodi di garofano,
ma ormai la si prepara solo con la e, burro e farina.
Il responsabile dell’alta viscosità della besciamella è l’amido
idratato contenuto nella farina. Presente in forma di microscopici
granuli, l’amido è formato da molecole di amilosio e amilopectina,
a loro volta formate da moltissime molecole di glucosio legate tra
loro. L’amido non si scioglie in acqua, ma i suoi granuli possono
formare una sospensione. Quando l’acqua raggiunge una
temperatura critica, dipendente dal tipo di amido ma solitamente
tra i 50 e i 70 °C, i granuli si gonfiano e cominciano ad assorbire
acqua. Riducendo l’acqua disponibile e aumentando di volume i
granuli riducono molto la loro possibilità di muoversi e questo
causa un aumento della viscosità del liquido. Ad alte temperature
l’amilosio viene espulso dai granuli e si scioglie in acqua. Le lunghe
catene lineari di questa molecola cominciano a legarsi tra loro
formando un reticolo tridimensionale che, raffreddandosi,
intrappola ulteriore acqua al proprio interno: inizia il fenomeno
della gelificazione.
È possibile addensare un liquido acquoso semplicemente
disperdendo dell’amido in poco liquido freddo fino a o enere una
pastella, aggiungendo il composto al resto del liquido e scaldando
il tu o. Tu avia il metodo preferito per disperdere al meglio i
granuli è ricoprirli di un grasso e poi disperderli in un liquido.
L’ANGOLO CHIMICO
LA VISCOSITÀ La viscosità è una grandezza fisica di un
fluido che misura la sua resistenza allo scorrimento.
La maionese è molto viscosa e scorre molto poco
tanto è vero che dobbiamo schiacciare il tube o o
prenderla con il cucchiaio. L’acqua invece è poco
viscosa e scorre molto più velocemente. Spesso in
cucina il conce o di viscosità è confuso con quello di
densità perché spesso si parla di agenti “addensanti”
quando in realtà aumentano la viscosità di un
liquido. A volte le due cose vanno di pari passo ma
non sempre. L’olio di oliva per esempio è più viscoso
dell’acqua, ma è meno denso.
ESPERIMENTO
LATTE CALDO O LATTE FREDDO?
Il suggerimento di non aggiungere la e bollente al roux, al fine
di evitare la formazione di grumi, è scientificamente fondato,
anche se può sorprendere molte persone che hanno sempre
aggiunto il la e caldo o addiri ura bollente. La maggior parte
delle persone tiene il la e in frigorifero, e aggiungerlo freddo va
benissimo. In ogni caso dovrebbe essere al di so o della
temperatura di gelificazione dell’amido: diciamo, per sicurezza,
so o i 50 °C.
Vediamo un piccolo esperimento per illustrare l’origine del
problema.
Prendete dell’acqua e scaldatela fino a 85 °C: siamo oltre la
temperatura di gelificazione dell’amido. Se non avete il
termometro portatela a ebollizione e poi spegnete il fuoco. Ora
prendete un cucchiaino di farina e ge atelo in acqua.
La farina non si scioglie, e neppure si disperde in modo
omogeneo, ma forma degli agglomerati.
Dopo un minuto prendiamone un paio e tagliamoli in due con
un coltello affilato.
L’esterno di questi “gnocchi primordiali” è gelificato, ma l’interno
è ben diverso.
Potete vedere che all’interno della so ile cuticola gelificata c’è
ancora della farina asciu a. Una volta avvenuta la gelificazione
esterna la penetrazione dell’acqua rallenta moltissimo, anche
continuando a far bollire l’acqua. Ora immaginate di ridurre di
cento, o anche mille volte la grandezza di questi agglomerati:
abbiamo dei grumi microscopici. Ecco la causa della formazione
dei grumi nella besciamella: se prima di innescare la
gelificazione non abbiamo separato bene tu i i minuscoli
granuli di amido rischiamo di avere la formazione di grumi
perché il gel esterno impedisce la diffusione dell’acqua
necessaria per l’idratazione di tu i i granuli.
Questo è il motivo per cui, se dovete aggiungere dell’amido a un
liquido per addensarlo – una salsa, una cioccolata o altro – è
preferibile formare una pastella con un po’ di liquido freddo
aggiunto all’amido, in modo da disperdere il più possibile tu i i
granuli senza innescare la gelificazione, e solo successivamente
versare il tu o nel liquido da gelificare, portandolo ad alte
temperature.
Nella preparazione della polenta, altra rice a a rischio, si segue
esa amente lo stesso consiglio: la farina di mais non andrebbe
aggiunta all’acqua bollente, perché si potrebbero formare grumi
esa amente come visto prima.
Certo è possibile o enere una buona besciamella anche
aggiungendo la e molto caldo, a pa o di aver separato bene i
granuli di amido e averli ricoperti di grasso nella preparazione
del roux. Tu avia suggerirei a tu i coloro che abitualmente
usano il la e bollente di provare almeno una volta con quello
freddo o tiepido e di verificare le eventuali differenze. A volte i
grumi presenti sono talmente piccoli da non essere riconosciuti
come tali, ma influenzano ugualmente la consistenza finale e la
sensazione ta ile della salsa, che in bocca può risultare meno
“liscia”.
Il mondo della gastronomia è uno degli ambienti più resistenti
ai cambiamenti e più conservatori che mi sia mai capitato di
incontrare. “Io ho sempre fa o così” è un a eggiamento comune
tra cuochi professionisti ma forse ancor più nelle cucine di casa.
Non abbiate paura di provare un procedimento nuovo: gli
esperimenti, oltre che necessari per l’avanzamento della “scienza
culinaria”, sono spesso anche divertenti e perme ono di
imparare sempre qualcosa di nuovo.
INGREDIENTI
500 ml di la e
40 g di burro
40 g di farina
noce moscata
sale
PROCEDIMENTO
La rice a classica della besciamella impone parti uguali, in peso,
di farina e grasso, solitamente burro. Questo deve essere in
quantità sufficiente da ricoprire tu i i granuli di amido presenti,
ma non deve essere eccessivo, altrimenti il grasso salirebbe in
superficie e la salsa risulterebbe poco appetitosa.
1
Fate sciogliere il burro in una padella dai bordi alti.
Quando il burro è completamente sciolto, se non è stato
chiarificato comincerà a schiumare: è l’acqua che evapora.
2
È preferibile eliminare gran parte dell’acqua per evitare che
contribuisca a formare il glutine e quindi dei grumi una volta
aggiunta la farina.
Dopo circa un minuto a fuoco medio le bolle cominceranno a
diminuire. Aggiungete la farina, tu a insieme, e mescolate
vigorosamente con una frusta da cucina, in modo da incorporare
completamente la farina nel burro.
3
Continuate a mescolare e a cuocere sino a quando, dopo un paio di
minuti, il composto cambierà consistenza e diverrà più fluido.
4
A questo punto potete abbassare il fuoco e continuare a cuocere
per qualche altro minuto, in modo che la farina perda
completamente il suo sapore “crudo”. Continuate a mescolare per
suddividere i granuli di amido e ricoprirli completamente di
grasso.
5
Dopo qualche minuto potete togliere dal fuoco e lasciar
raffreddare un poco il composto. Quello che avete appena
o enuto si chiama roux bianco, anche se in realtà è giallino a
causa del burro utilizzato.
Se volete potete me erlo da parte e usarlo nei giorni successivi,
aggiungendolo ai liquidi che volete addensare.
6
Se invece volete preparare la besciamella subito si pone il quesito
su cui si sono spesi fiumi d’inchiostro nella le eratura
gastronomica: è meglio aggiungere la e freddo o la e caldo? Una
besciamella perfe a non deve avere grumi: questi si possono
formare se non abbiamo mescolato bene nella fase iniziale e se
aggiungiamo il la e caldo, perché gelificherebbe immediatamente
la parte esterna di eventuali grumi di farina non separati,
impedendo all’acqua di penetrare all’interno. Aggiungiamo quindi
la e freddo, o a temperatura ambiente, e tu o in una volta,
mescolando rapidamente.
La farina, essendo costituita anche da proteine e altre sostanze e
non solo di amido, ha una minore capacità di addensare rispe o
all’amido puro, e raggiunge pienamente le sue capacità di
addensare e gelificare solo a temperature prossime a quelle di
ebollizione. Portate quindi all’ebollizione, continuando a
mescolare.
7
A poco a poco la besciamella comincerà ad addensarsi. Se
immergete un cucchiaio noterete la velatura sulla superficie.
Una volta addensata la besciamella potete me ere il fuoco al
minimo, coprire con un coperchio e lasciar cuocere la salsa per
qualche decina di minuti, in modo da idratare completamente
l’amido.
Il coperchio è importante per evitare che si formi una pellicola in
superficie.
8
Salate a piacere e aromatizzate con una gra ata di noce moscata.
La consistenza di questa salsa è ada a, per esempio, per una
gratinatura al forno di cavolfiori, finocchi o fagiolini. Se volete una
salsa più liquida usate 30 g di farina e 30 g di burro. Per una salsa
più addensata – si dovrebbe dire più viscosa ma ormai lo sapete –,
più ada a alle lasagne, meglio aumentare le dosi dei due
ingredienti a 50 grammi.
LE LASAGNE
Per una teglia re angolare di 25x35 cm, alta almeno 6-8 cm,
avrete bisogno di 1 kg di sfoglia all’uovo tagliata a
re angoli, 1,5 kg di ragù, 500 g di grana gra ugiato, 1 l di
besciamella. Sbollentate la pasta in acqua salata; non
appena sale a galla toglietela e ge atela in acqua fredda per
fermare la co ura. Asciugatela delicatamente su un telo.
Dovete preparare almeno sei strati, alternando sfoglia,
ragù, grana e sfoglia, besciamella, grana. Per il primo strato
ungete la teglia con un po’ di burro e stendete un po’ di ragù
misto a besciamella.
Come ultimo strato stendete una miscela di ragù, grana e
besciamella. Infornate a 200 °C per mezz’ora. Ragù e
besciamella sono già co i, quindi bisogna solo far assorbire
del liquido dalla pasta e amalgamare gli ingredienti. Negli
ultimi 5-10 minuti accendete il grill, ma non allontanatevi
dal forno per non rischiare di bruciare lo strato superiore.
RICETTA
LO SPEZZATINO BASE
PERCHÉ QUESTA RICETTA
Questa preparazione mostra come tagliando la carne in
pezzi più piccoli si diminuiscono i tempi di co ura e,
contemporaneamente, si aumenta la superficie disponibile
per la rosolatura, producendo così più composti di Maillard.
Lo spezzatino è un pia o che immediatamente mi ricorda le
serate invernali in montagna, quando fuori nevica e in cucina ti
aspe a per riscaldarti la polenta fumante da condire con un
mestolo o due di pezzi di carne in un sugo di piselli, pomodoro,
funghi o quello che quel giorno l’estro del cuoco ha pensato di
aggiungere in pentola. Non esiste infa i “lo spezzatino” ma
esistono piu osto “gli spezzatini”: ai funghi, ai piselli, con le patate,
i peperoni e così via.
Vediamo allora la preparazione di quello che chiamo lo
“spezzatino base”, visto che riduco volutamente all’osso la rice a
ome endo passaggi gastronomicamente utili – l’aggiunta di vino
ad esempio o di un altro liquido aromatico – per me ere in rilievo
solo i punti scientificamente interessanti e trasferibili anche a
rice e diverse.
Spesso al supermercato vendono confezioni di carne per
spezzatino già rido a in pezzi, ma quasi sempre non è indicato il
taglio di carne da cui è presa. Per questo motivo io preferisco
comperare il pezzo di carne e tagliarlo a casa.
Manzo o vitello? La carne di vitello è sicuramente più tenera,
ma anche meno saporita. Io personalmente preferisco il manzo.
Per uno spezzatino si deve usare un taglio con un buon contenuto
di tessuto conne ivo e ormai sapete che c’è solo l’imbarazzo della
scelta. Io a volte uso lo spinacino, o tasca. È un taglio spesso
preparato, almeno intorno a Milano, farcito, visto che la sua forma
favorisce, appunto, la creazione di una tasca. Non è un pezzo
pregiato, è ricco di tessuto conne ivo e può fare al caso vostro.
Oppure potete prendere un pezzo di muscolo.
INGREDIENTI 1 kg di spinacino o di muscolo
PER 4 PERSONE soffri o
olio extravergine di oliva,
sale
PROCEDIMENTO
1
Per preparare uno spezzatino, lo dice il nome stesso, si deve
partire dalla carne fa a a pezze i. Tagliatela a cubi di circa 2-3 cm
di lato.
2
Quasi tu e le rice e prevedono come primo passo la preparazione
di un soffri o a cui, successivamente, si aggiunge la carne. In
questo modo, tu avia, la carne non ha modo di sviluppare a
sufficienza i composti aromatici della reazione di Maillard, poiché
la temperatura non supera i 100 °C mentre, perché la reazione di
Maillard avvenga velocemente, servono almeno 140 °C. Per questo
motivo io faccio rosolare velocemente i cubi di carne, con un poco
di olio, separatamente in una padella, avendo cura di non
affollarla troppo, altrimenti l’umidità condenserebbe, si
formerebbe l’acqua e addio reazione di Maillard!
La carne si sco a solo per qualche minuto: lo scopo non è cuocerla
ma solo generare i gustosi composti bruni sulla sua superficie.
Esa amente come per una bistecca, non girate la carne sino a
quando non si è staccata spontaneamente dalla pentola formando
una crosticina bruna: sono i composti gustosi che volevamo
creare.
3
Quando è brunita, ma ancora quasi cruda internamente, toglietela
dalla padella e me etela in una ciotola, nel caso non abbiate
ancora preparato il soffri o di cipolla e altre verdure.
Dopo esserci presi la briga di creare i composti di Maillard, non sia
mai che ne lasciamo un po’ nella padella. Finché questa è ancora
calda deglassate con un liquido (nello spezzatino base usiamo
semplicemente acqua, ma potete usare del vino o altro se volete) e
versatelo sulla carne che avete messo a riposo nella ciotola.
4
Ora veniamo alle verdure. A mio parere l’unica imprescindibile,
per un buono spezzatino, è la cipolla, per il resto potete variare. Io
ho usato lo “standard”: un terzo cipolla, un terzo carota e un terzo
sedano, il tu o tritato molto fine. A volte ome o il sedano, a volte
la carota, o ne riduco la dose per diminuire la dolcezza della
rice a. Come odori aggiungo spesso qualche foglia di alloro e del
timo (quello però verso la fine della co ura). Se vi piace, unite
anche uno spicchio d’aglio tritato. La verdura deve soffriggere in
un grasso: c’è chi usa olio e chi burro. In ogni caso non esagerate
con i grassi, ma non fate neppure l’errore opposto di me erne
troppo pochi, altrimenti la verdura non soffriggerà.
Salate la miscela, così per osmosi perderà acqua più facilmente, e
tenete il fuoco a media potenza: la verdura deve dorarsi e
appassire, la cipolla caramellare, e anche qui si lascia agire
l’onnipresente reazione di Maillard, anche se in modo meno
spe acolare che con la carne. Io di solito mi fermo quando le
cipolle sono traslucide e appassite e cominciano a brunirsi
parzialmente.
5
A questo punto, finalmente, potete unire la carne, già rosolata.
6
Aggiungete poi il liquido di co ura. Qui la scelta è vastissima.
Visto che questo è lo “spezzatino base” ho aggiunto solo acqua, ma
le possibilità sono infinite. Ovvia e comune quella del vino, bianco
o rosso, ma si può aggiungere brodo, birra, succhi vari, vini
liquorosi e così via. C’è chi ama, come i miei figli, aggiungere il
pomodoro. Se vi piacciono i piselli aggiungeteli verso la fine della
co ura, altrimenti si spappolano tu i.
7
La co ura deve essere fa a a temperature non troppo elevate:
vogliamo sciogliere il collagene, e quindi le temperature devono
essere superiori a 75 °C, ma dobbiamo evitare che le fibre si
“strizzino” troppo. Me ete il fuoco al minimo, evitando sempre di
far bollire il liquido. L’ideale, in mancanza di un bagno
termostatato professionale, è una sobbollitura, con qualche bolla
di vapore che pigramente raggiunge la superficie. Se la pentola
che state utilizzando è troppo piccola sarà difficile mantenere la
temperatura superficiale al di so o dei 90 °C. Ecco perché spesso
si dice che queste rice e vengono meglio quando si preparano in
grandi quantità: con una pentola molto grande sarà più facile
tenere so o controllo la temperatura e impedire che provochi
l’ebollizione, indurendo e asciugando la carne.
È inutile che vi dia dei tempi di co ura, perché questi dipendono
moltissimo dal taglio di carne e dalla temperatura. A meno che
abbiate usato della carne di vitello – più tenera ma meno saporita
– dovrebbe servirvi come minimo un’ora di co ura. Più tenete
bassa la temperatura e più lunga è la co ura, ma anche meno
asciu a la carne. Il mio spezzatino ha avuto bisogno di un paio di
ore abbondanti per cuocere. L’unico suggerimento sensato vi
posso dare è: assaggiate!
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Per lo spezzatino è ada issima una polenta fa a come si deve,
annaffiata con il sugo rimasto in pentola, eventualmente passato
se avete tagliato troppo grossolanamente le verdure e volete un
sughe o più denso e omogeneo. Un trucco per addensare un
liquido è aggiungere un po’ di amido o, se ne siete sprovvisti, della
farina. A enzione alla formazione di grumi, specialmente se il
liquido è troppo caldo.
QUALI PATATE PER LO SPEZZATINO?
Le patate sono un’aggiunta popolare a molti spezzatini.
Rilasciando amido hanno anche l’effe o di addensare il
sughe o. Tu avia il rischio è che le patate si spappolino
completamente, specialmente se la co ura è prolungata.
Per ovviare a questo problema è meglio utilizzare delle
patate ada e, come quelle a buccia rossa. Le patate si
classificano grossolanamente in due gruppi: quelle che
hanno la polpa farinosa, come quelle che si usano per
preparare gli gnocchi, e quelle a polpa cerosa, che rilasciano
meno amido in co ura ma reggono co ure più lunghe
senza spappolarsi. Sebbene il colore della buccia delle
patate non sia necessariamente correlato al tipo di polpa,
spesso in commercio le patate a buccia rossa sono di tipo
ceroso e quindi ada e a uno spezzatino.
Vorrei ringraziare:
Marina Bressanini, che ha ideato, plasmato, co o e fornito molti
dei pia i, vassoi e ciotole che avete visto nelle foto delle rice e e
degli esperimenti.
Simone e Gabriele, i miei figli, che hanno sperimentato molte delle
rice e di questo libro, aiutandomi a migliorarle.
Barbara Torresan, costre a a cucinare e fotografare brasati, brodi
e spezzatini nel caldo d’agosto. Lei che quasi non mangia carne. Le
ho promesso che il prossimo libro sarà vegetariano.
Marco Ca aneo, il mio dire ore di “Le Scienze”. Se anni fa non mi
avesse chiesto di scrivere la rubrica di scienza in cucina ora non
avreste questo libro tra le mani.
Beatrice Mautino, che ha pazientemente le o e commentato una
prima stesura del libro, suggerendo alcuni cambiamenti.
La La eriAgricola di Lainate per aver fornito la carne da
fotografare e in particolare Nerio, Giancarlo ed Eros per la loro
disponibilità.
INDICE
Introduzione
Composizione e struttura della carne
La composizione chimica
Acqua
Proteine
Grassi
Carboidrati
Vitamine e minerali
La struttura fisica
Tessuto muscolare
Tessuto connettivo
Ricapitoliamo…
Ricetta. Carpaccio di manzo
Ricetta. Maiale sfilacciato al forno
Il colore della carne
Carni bianche e rosse
Rosso carne
La mioglobina
Il colore rosa dei salumi
Fibre bianche e fibre rosse
Ricetta. Pollo teriyaki
Calore e cotture
Perché si cuoce
Calore e temperatura
Conduzione, convezione e irraggiamento
I tempi di cottura
La giusta temperatura per ogni esigenza
Esperimento. A quanti gradi?
Esperimento. Temperature del forno e del cibo
Inerzia termica
Ricetta. Il roast beef perfetto
Il sapore della carne
Il “gusto di carne arrostita”
La reazione di Maillard in azione
Esperimento. La cipolla di Maillard
Ricetta. La bistecca
Tre procedure poco ortodosse
La consistenza della carne
Le diverse componenti della durezza
Differente tenerezza dei muscoli
La scoperta di una nuova bistecca
Esperimento. La Flat iron steak
Intenerire la carne
Strategie fisiche di ammorbidimento
Esperimento. Frollatura a secco fai da te
Esperimento. Enzimi mangiaproteine
Ricetta. Hamburger
La succosità
Il riposo della carne
Miti culinari
Sigillare la carne previene la perdita dei succhi?
Esperimento. Cosa succede se saliamo la bistecca
L’effetto del sale
Le salamoie (brine)
Cotture asciutte
Alla griglia
Allo spiedo
Arrosto
Arrostire al forno
Arrostire in padella
Saltare
Soffriggere
Friggere
Non tutti gli oli sono uguali
Punto di fumo e resistenza all’ossidazione
Ricetta. Fajitas
Bonus Track. Il guacamole
Ricetta. Filetto al pepe
Ricetta. Piccata di pollo al limone
Cotture umide (e lente)
Cuociamo il tessuto connettivo
Cotture umide
Bolliti
Brodi
Stufati, stracotti e spezzatini
Brasati
La cottura al vapore
Il Conte Rumford e la cottura a basse temperature
Una visione scientifica della cucina
Il gusto
Temperature inferiori a 100 °C
La cottura della carne a basse temperature
Predicare invano
Un’ode alla cucina scientifica
Esperimento. Lo stinco alla Rumford
Ricetta. Brasato
Ricetta. Il brodo di pollo
Ricetta. Le costine di maiale in padella
Ricetta. Il ragù alla (quasi) bolognese
L’evoluzione del ragù
Bonus Track. La besciamella
Esperimento. Latte caldo o latte freddo?
Ricetta. Lo spezzatino base
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