Subido por Woady Louis

FEBBRAIO-2024.-LA-PAROLA-DI-DIO-NELLE-LITURGIE-DOMENICALI (1)

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4 FEBBRAIO 2024
LA PAROLA DI DIO NELLA
5A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il tema della Domenica
Le letture di questa domenica presentano lo scandalo del dolore e l’anelito di vita che nasce proprio
lì dove più forte risuona il grido della miseria umana. Sia la lettura tratta dal libro di Giobbe che la
prosecuzione del racconto della “giornata di Cafarnao”, con l’umanità sofferente radunata attorno a
Gesù presso la porta della città, rimarcano una delle verità più misteriose della vita umana: la presenza
del dolore e il desiderio di esserne liberati.
La prima lettura: Gb 7,1-4.6-7
Il brano del libro di Giobbe appartiene a quelle pagine della letteratura biblica che, pur destando
non poco stupore sia per il linguaggio crudo che per il nichilismo che le pervade, restano tuttavia una
delle più alte testimonianze della verità dell’essere umano e della verità di Dio. Qualcosa di analogo
si trova nel capitolo 20 del libro di Geremia, dove il profeta si rivolge a Dio con un grido disperato,
maledicendo il giorno della sua nascita e – ultimamente – Dio stesso. In modo analogo a Geremia,
Giobbe punta il dito verso Dio. Partendo dalla sua situazione di uomo ingiustamente colpito, Giobbe
allarga le sue considerazioni sulla sorte dell’umano, in un lamento intriso di rabbia e impotenza.
Le metafore utilizzate per descrivere la situazione sulla terra sono drammaticamente eloquenti. Nei
primi versetti, la vita viene paragonata a tre professioni molto dure o estremamente precarie: quella
di un uomo sottoposto a una disciplina ferrea, quella di un salariato che, lavorando a cottimo, deve
fare continuamente i conti con la sopravvivenza, e quella di uno schiavo alla mercè del padrone. Nei
versetti conclusivi ricorrono altre due immagini, dello stesso tenore: la spola, che corre veloce sotto
le mani del tessitore, e il soffio fugace, tanto caro a un altro gigante della letteratura biblica: il Qohelet.
Non è difficile indovinare che sia la spola che il soffio rimandano alla vita contrassegnata
dall’inconsistenza e dalla provvisorietà.
Tra questi due gruppi di immagini che aprono e chiudono il testo, spicca la triste percezione che
Giobbe ha di sé e della sua tormentata esistenza: «…notti di dolore mi sono state assegnate… e sono
stanco di rigirarmi fino all’alba». Più tardi, rivolgendosi a Dio, dirà: «Perché nascondi il tuo volto e
mi consideri un nemico? Vuoi prendertela con una foglia portata via dal vento e dar la caccia a una
pagliuzza inaridita?» (13,24-25).
Da questi pochi tocchi emerge con chiarezza che il problema di Giobbe non è il problema di un
singolo. Giobbe rappresenta colui/colei che, improvvisamente e inspiegabilmente, è privato/a di tutto,
con pezzi di vita che se ne vanno, uno dopo l’altro, senza spiegazione e senza ritorno. Alla ricerca di
un senso, Giobbe trova davanti a sé solo il muro di silenzio che Dio ha eretto o formule consolatorie
di amici, tanto logorroici quanto inutili. Giobbe è l’uomo / la donna dei dolori, alla ricerca di un senso
che non trova, perché al dolore innocente non si dà risposta.
A conclusione, il libro ci presenterà l’essere umano piccolo piccolo davanti al mistero, con il limite
invalicabile posto davanti alla condizione umana, e oltre il quale non è possibile andare. Eppure, in
questo limite, Giobbe percepisce che c’è Qualcuno davanti al quale è permesso gridare il proprio
desiderio di vita, con tutte le proprie forze, Qualcuno davanti a cui è possibile piangere, adirarsi,
sognare… L’invocazione introdotta da «ricordati», a conclusione del testo, pur facendo menzione
della brevità della vita, costituisce tuttavia un appello a Colui che sta di fronte e, nonostante tutto, è
presente.
Il Vangelo: Mc 1,29-39
Il suggestivo accostamento del brano evangelico – che presenta Gesù al centro di un’umanità
sofferente – costituisce, da un punto di vista cristiano, la risposta al grido di Giobbe. Nella ricerca
della causa del dolore, già prima di Gesù, si erano date spiegazioni diverse, che andavano dalla
retribuzione delle colpe commesse alla responsabilità umana, dalla purificazione all’educazione…. Il
testo evangelico non intende dare, e non dà, una risposta esaustiva a questo problema del dolore ma,
in forma narrativa, presenta tre aspetti molto significativi.
Il primo si trova nell’episodio di apertura e ha come spazio la casa di Simone. Gesù vi entra con i
suoi discepoli e trova la suocera di Simone a letto con la febbre. L’episodio non deve essere rivestito
di troppi connotati simbolici come si fa usualmente, ma una cosa sembra certa: Gesù, che aveva
iniziato a operare già nella sinagoga di Cafarnao (1,21-27), continua ora ad agire nel luogo
dell’intimità familiare per combattere ogni forma di alienazione umana, compresa la malattia. Il verbo
«giaceva (a letto)» con la febbre, all’imperfetto, evidenzia la persistenza di uno stato che impediva
alla donna di svolgere le sue funzioni domestiche. Gesù si fa vicino alla sofferenza umana e, con un
semplice gesto, che non ha nulla di magico, guarisce la donna, restituendola alla sua pienezza di
donna, nella totalità delle sue funzioni. Il tocco delizioso sulla suocera che, guarita, «li serviva»
(ancora l’imperfetto, con l’oggetto al plurale invece che al singolare!) mette in evidenza che lo scopo
del risanamento operato da Gesù è il servizio degli esseri umani. Dalla schiavitù della malattia al
servizio degli altri: un passaggio che, nell’intenzione di Marco, dice ben più di una semplice
guarigione fisica. Gesù testimonia in questo modo che Dio vuole la pienezza dell’essere umano e che
la sua Presenza nel mondo non vuole mortificare, ma fortificare, restituendo all’essere umano la sua
dignità e la sua compiutezza. Riportando l’uomo alla sua integrità spirituale e corporale, Gesù mostra
la faccia di un Dio benevolo che non ha creato l’uomo e la donna per il fallimento, ma per la vita.
Il secondo aspetto messo in rilievo dal vangelo è la solidarietà di Dio con l’umanità sofferente. Il
dolore resta uno scandalo, e i miracoli di Gesù non hanno primariamente lo scopo di eliminare il
dolore, ma di testimoniare un mondo nuovo in cui l’essere umano che soffre trova Dio dalla sua parte.
Dio si fa vicino all’umanità sofferente: per questo Marco ci mostra Gesù alla porta della città (cf. Mc
2,2). Durante il giorno, la porta era il luogo vivace di incontri e di commercio; venuta la sera, si popola
di ammalati e sofferenti. Davanti a essi Gesù non fugge, ma neppure offre illusioni con gesti
spettacolari. Semplicemente si mette accanto, lottando contro l’alienazione con la quale Satana tiene
il mondo in suo potere. La proibizione di parlare, impartita ai demoni, è stata letta in chiave di “segreto
messianico”. In realtà si tratta della percezione di un mistero che avvolge la figura di Gesù: colui che
ha l’exousia / potestà di cacciare i demoni e guarire le malattie è anche il Figlio dell’uomo sofferente
e rigettato, che salva l’essere umano in virtù del suo farsi solidale con gli ultimi della terra.
Il terzo aspetto che illumina il mistero del dolore è la preghiera «in un luogo deserto, a notte fonda».
È naturale che il dolore cerchi sempre qualcuno/a che lo lenisca, ma la solitudine in cui si ritira Gesù,
per pregare, e il desiderio di proclamare il Regno altrove, rimandano a Dio e al suo progetto, da cui
la missione stessa di Gesù ha origine. In fondo, la vita, la morte, la malattia… rientrano in un grande
mistero: inafferrabile per l’essere umano, ma non per Dio. Il vangelo annunciato da Gesù è questo
seme di speranza, gettato nel cuore della miseria umana: di fronte agli accusatori della creatura
umana, di fronte alla malattia e alla morte, Dio si è messo dalla parte di Adamo, e non si tirerà indietro
fino a quando la vittoria di Dio non sarà anche la vittoria di ogni uomo e di ogni donna.
11 FEBBRAIO 2024
LA PAROLA DI DIO NELLA
6A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il tema della Domenica
A prima vista, i testi di questa domenica potrebbero sembrare estranei alla cultura moderna e alla
sensibilità del nostro tempo. Il problema della purità e dell’impurità rituale, infatti, pur sussistendo
ancora in diverse culture, non qualifica in maniera rilevante la religiosità e la vita sociale dell’
occidente, almeno nei termini posti dalle letture bibliche. E tuttavia, a ben guardare, ci si accorge
come anche questa Parola sia veramente attuale e come dietro tanti tabù, passati e presenti, si
nascondano situazioni umane tragiche, su cui la Parola di oggi invita a riflettere.
La prima lettura: Lv 13,1-2.45-46
La legge sui lebbrosi appartiene a un complesso di istruzioni sulla purità e impurità contenute nei
capitoli 11-15 del Levitico. In questo contesto, si fa una rassegna di sfere che appartengono alla vita
privata e sociale e che ricadono sotto regole e interdizioni. Si parla degli animali puri e impuri, del
parto, dell’essere umano afflitto da diverse malattie della pelle ecc. La normativa corrisponde a un
sentire comune, che si incontra presso diverse popolazioni, e ha come scopo di proteggere la vita
sociale da quanto viene considerato come insolito, minaccioso, contagioso o ignoto. Da tutto ciò la
comunità deve proteggersi, tenendo lontano il pericolo. È ovvio che questa impurità non appartiene
al mondo della colpa volontaria, perché alcuni gesti e situazioni sono legati a doveri quotidiani,
necessari alla convivenza (per esempio, il parto o il contatto con i corpi dei defunti). Chi, però, ne è
afflitto ha l’obbligo di tenersi lontano dalla comunità e dal culto, perché – a prescindere dalla colpa
– l’impurità compromette in qualche modo la relazione con Dio e con gli uomini.
In questo contesto, non è difficile comprendere la pagina della legge sui lebbrosi, costretti a portare
vesti strappate e capo scoperto, a coprirsi la barba e a gridare: «immondo!»: tutti segni di lutto, che
rappresentano una situazione di morte da cui i viventi dovevano tenersi lontani. Nella mentalità
antica, con “lebbra” si indicava una serie di affezioni cutanee che per il loro carattere contagioso
erano particolarmente pericolose a livello sociale. Per questo il lebbroso aveva il dovere di tenersi
fuori dell’accampamento, lontano dal mondo.
A motivo di ciò, si comprende anche come il lebbroso sia diventato, fino ad oggi, un emblema di
tutti gli esseri che, per una ragione o per l’altra, sono costretti a restare ai margini. Il lebbroso è
diventato il simbolo di chi attenta alla sicurezza dell’“accampamento”. I meccanismi con cui gli
uomini in passato venivano segregati possono sembrarci rudimentali, ma se togliamo quella patina di
perbenismo sociale e religioso con cui ci travestiamo, dobbiamo riconoscere che le discriminazioni
continuano ad avere un peso rilevante anche nelle moderne democrazie e che i meccanismi di
segregazione sono divenuti sempre più raffinati.
La cosiddetta modernità si adopera con ogni mezzo per tenere fuori dell’accampamento coloro che
essa ritiene “impuri” e fa del tutto per erigere steccati di leggi e leggine che escludono. È in questo
contesto che scende la parola del vangelo: non per mettere in discussione le leggi necessarie alla vita
sociale, ma per smascherare le menzogne che si annidano dentro l’accampamento, là dove si pensa
che i problemi sono ovviamente altrove e i pericoli sono rappresentati da coloro che vivono “fuori”.
Il Vangelo: Mc 1,40-45
Il vangelo di Marco aveva già messo in contatto Gesù con gli indemoniati e i malati (cf. le due
domeniche precedenti). Ora è la volta dei lebbrosi: una categoria particolare di infermi, che – lo
abbiamo detto – evoca non solo un sentimento di ripugnanza, ma anche un particolare problema
sociale. È strano che il lebbroso si presenti spontaneamente, data la segregazione in cui era obbligato
a vivere, ma non c’è dubbio che Marco voglia mostrare come l’annuncio di Gesù arrivi a tutti, anche
a quelli “che-sono-fuori”. Infatti il brano pone una stretta connessione tra il vangelo annunciato da
Gesù «in tutta la Galilea» (1,39) e l’arrivo del lebbroso (1,40). A livello di redazione, dunque, il
lebbroso si avvicina perché ode l’annuncio di Gesù e conosce la particolare fama di liberazione che
accompagna la sua azione. L’osservazione non è di poco conto. Un uomo segregato e reietto trova
nel messaggio e nell’agire di Gesù una speranza nuova per sé e per tutti coloro che sono costretti a
vivere fuori dell’accampamento.
La domanda non è la guarigione, ma la purificazione: «se tu vuoi, puoi purificarmi!». L’affezione
della lebbra segregava l’uomo o la donna che ne erano affetti non solo dalla comunità, ma anche da
Dio: la sfera religiosa gli era interdetta e, spesso, la lebbra viene evocata nella Bibbia come un castigo
di Dio. A ragione di ciò ne erano stati colpiti anche la sorella di Mosè (Nm 12) e il re Ozia (2Cr 26).
Chiedendo la purificazione, il lebbroso non chiede solo di essere reintegrato nella comunità dei
fratelli, ma anche nella comunione con Dio. Niente di strano che anch’egli considerasse la sua
malattia come una forma di rigetto non solo da parte degli uomini, ma di Dio stesso.
Alla domanda del lebbroso, Gesù risponde anzitutto con un moto di collera (altre versioni
attribuiscono a Gesù un “moto di compassione”, ma è più probabile che qualche copista abbia
cambiato l’inspiegabile ira con la più plausibile compassione). L’ira di Gesù fa difficoltà, perché non
se ne comprende la ragione. Gesù è sdegnato verso il lebbroso? Oppure il suo sdegno ha origine dalla
notorietà che si diffonde sempre più e diventa sempre più ambigua? Forse la spiegazione è un’altra.
Potrebbe trattarsi di una reazione analoga a quella che Gesù prova davanti all’indemoniato nella
sinagoga di Cafarnao (Mc 1,25): una collera provocata dal regno del male e della morte, che tengono
gli esseri umani schiavi e segregati. È l’indignazione verso tutto ciò che imprigiona l’essere umano.
In ogni caso, alla supplica del lebbroso, Gesù risponde con un gesto e con una parola: «Lo voglio; sii
purificato!». Toccando il lebbroso, Gesù non ha paura di contaminarsi: il suo tocco è un tocco
salvifico che reintegra l’uomo nell’accampamento, restituendogli la dignità di uomo, in relazione con
Dio e con la comunità dei fratelli. L’isolamento è ormai concluso, grazie a colui che non ha paura di
avvicinarsi agli intoccabili.
La conclusione dell’episodio presenta una serie di eventi alquanto strani e, per certi versi,
inspiegabili. C’è un’improvvisa indignazione di Gesù verso il lebbroso, con l’ordine di tener segreto
l’accaduto e di mostrarsi invece al sacerdote secondo quanto previsto dalla legge; c’è la disobbedienza
del lebbroso che incomincia a “divulgare la Parola” e la fuga di Gesù dalla folla che ormai lo cerca
in ogni luogo. A questa serie di eventi, piuttosto singolari nella loro concatenazione logica, sono state
date diverse spiegazioni, ma il dato che soggiace a tutto è, a mio parere, la presentazione del mistero
del messia, così lontano dalle attese umane. Gesù insegna ma non è uno scriba, guarisce ma non è un
santone, accoglie gli emarginati ma non è un sobillatore, parla di Dio e del suo Regno ma non è un
sognatore… Chi è veramente Gesù? I personaggi del racconto dovranno trovare una risposta, ma la
stessa domanda è rivolta a tutti i lettori.
18 FEBBRAIO 2024
LA PAROLA DI DIO NELLA
1A DOMENICA DI QUARESIMA
Il tema della Domenica
Il tempo di quaresima, quest’anno, inizia sotto il segno dell’alleanza, del patto che Dio stabilisce
con l’umanità e con ogni essere vivente che si muove sulla terra. Il simbolo è un arcobaleno posto tra
le nubi. Nel Primo Testamento, il termine tradotto con “arcobaleno” di solito sta ad indicare l’arco di
guerra; Dio, dunque, dopo la catastrofe del diluvio, mostra l’intenzione di deporre il suo arco
minaccioso e di stabilire con l’essere umano un nuovo patto. Ma l’arcobaleno è anche l’archetipo di
tutti i nuovi inizi che avverranno nella storia, posti sotto il segno del dono e del perdono: dalla
liberazione dell’esodo a quella dell’esilio, dalla salvezza portata da Gesù a quella escatologica dei
cieli nuovi e terra nuova. Anche il tempo di Quaresima, in cui siamo entrati da qualche giorno, può
essere letto e vissuto alla luce di un nuovo inizio, perché a ognuno/a è dato di ricominciare sotto il
segno di un’alleanza d’Amore.
La prima lettura: Gn 9,8-15
Il brano proposto in Gen 9 racconta l’inizio della creazione nuova dopo la sciagura abbattutasi sulla
terra con il diluvio. Il racconto del diluvio è una suggestiva rappresentazione dello sfacelo e della
rinascita dell’umanità. La perversione aveva corroso dall’interno l’umanità nelle sue relazioni
fondamentali: lotte fratricide (Caino e Abele), tracotanza spregiatrice di ogni vita altrui (canto di
Lamech), degrado morale (esseri angelici con le figlie degli uomini)… A poco a poco la storia, creata
“buona” da Dio, aveva incominciato a corrompersi, e l’ordine della creazione aveva assunto i caratteri
del caos primordiale. Il testo lo metteva in evidenza mediante un significativo parallelismo tra due
testi: Gen 1,31 e Gen 6,12. Nel primo si diceva che «Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco era
cosa molto buona», mentre in Gen 6,12 la situazione si è totalmente rovesciata: «Dio vide la terra,
ed ecco era corrotta».
Il diluvio – con il motivo ambivalente delle acque – è un battesimo purificatore: la prima umanità
muore nel segno della violenza creata dall’essere umano e, dalle sue ceneri, ne nasce una nuova. Non
sfugge però la diversità, perché l’alleanza che contraddistingue questa fase nuova della storia è
fondata sull’impegno unilaterale di Dio, il quale – senza ambiguità e senza ripensamenti – decide di
essere, da ora in poi, il Dio della vita, il Dio-per-l’umanità: «Io stabilisco la mia alleanza con voi:
non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra…
Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza tra me e
voi…».
Un passo tratto dal Talmud coglie lo stesso dinamismo quando, descrivendo la giornata di Dio,
ricorda che «ha dodici ore. Nelle prime tre il Santo, benedetto egli sia, sta seduto occupandosi
dell’insegnamento della Legge. Nelle altre tre egli siede per giudicare il mondo intero. E, non appena
vede che il mondo merita di essere annientato, abbandona il seggio del diritto per sedersi su quello
della misericordia. Nelle tre successive, sempre seduto, alimenta il mondo, partendo dai buoi cornuti
per arrivare alle uova delle pulci. Nelle ultime tre il Santo, benedetto egli sia, scherza col Leviatano,
poiché si dice: «il Leviatano che tu hai creato per giocare con lui». Dio, che gioca con i mostri marini
e si occupa degli animaletti più insignificanti, è il segnale inconfondibile di un mutamento di rotta:
dal seggio del giudizio a quello dell’alleanza perenne e senza pentimenti.
Ma c’è anche un’altra dimensione nel suggestivo passo della Genesi, proposto come lettura d’inizio
quaresima. L’alleanza con Noè e con i suoi figli abbraccia le speranze di tutti gli esseri umani e del
creato, senza esclusioni: è un patto cosmico e universale, come cosmico è l’arcobaleno che lo
contraddistingue. Questa alleanza con la terra e con l’umanità che la abita si renderà poi visibile nella
scelta di Abramo e di Israele come popolo di Dio, nel patto con il padre dei credenti e con l’alleanza
del Sinai. E tuttavia, l’archetipo di ogni impegno divino è posto proprio qui, all’origine: nell’essere-
di-Dio-per-l’umanità e per le speranze per ogni essere che vive sulla faccia della terra. Dio non chiude
la sua promessa entro i recinti di una razza, di una religione, di una sapienza… Dio invita tutti a farsi
carico dell’umanità e delle speranze umane, ovunque esse si annidino, perché Dio abita proprio lì,
non altrove.
Il Vangelo: Mc 1,12-15
Il testo marciano della tentazione di Gesù nel deserto traghetta il messaggio appena ascoltato nel
contesto della salvezza neotestamentaria. Il passo è conciso, ma pregnante. Marco non parla di
tentazioni specifiche, come gli altri due Sinottici, ma racconta il nudo evento: «stava nel deserto
quaranta giorni, tentato da Satana». È interessante notare che la tentazione viene espressa in greco
da un participio presente passivo, che rallenta il ritmo ed esprime una durata. Sembra quasi che si
voglia presentare la tentazione di Gesù (e dei suoi seguaci) non come un evento puntuale, ma come
una condizione di vita. In fondo le donne e gli uomini si trovano sempre di fronte all’alternativa, che
è poi la stessa dell’umanità al tempo di Noè: distruggere la creazione di Dio, il suo piano di salvezza,
o accettarlo, aiutandolo a fiorire. Il testo di Marco presenta questa alternativa unendo due motivi, con
un’associazione paradossale e inaspettata, ma stimolante: da un lato la tentazione nel deserto e
dall’altro la condizione paradisiaca suggerita dalla convivenza di Gesù con le bestie selvagge. Il nesso
dice, da una parte, che nell’arco della vita umana il progetto di Dio è continuamente in procinto di
soccombere, dall’altra, mostra che la vittoria è possibile, il deserto può fiorire, la terra – inondata
dalle acque del diluvio – può di nuovo germogliare e il paradiso perduto può essere ancora raggiunto.
Recuperare questa speranza non significa sognare. Al contrario, significa credere nella creazione e
nella promessa.
L’appello alla conversione, che Gesù rivolge all’inizio del suo ministero, è un invito a prendere sul
serio questo progetto, a ritrovare la relazione fondamentale, che fa vivere, a cominciare di nuovo nel
segno della creazione nuova. È per questo che la tentazione è associata al deserto, il luogo dove tutto
aveva avuto inizio, e dove Israele aveva stretto un patto d’amore con il suo Dio: «Io mi ricordo
dell’affetto della tua giovinezza, del tuo amore da fidanzata, quando mi seguivi nel deserto, in una
terra non seminata» (Ger 2,2). Il deserto riporta l’essere umano alle sue origini, allo spogliamento di
sé e alla fiducia incondizionata nell’autore della vita.
L’appello alla conversione è un invito a ricominciare proprio dalla relazione fondamentale che ci
costituisce. Ricominciare, allora, significa lasciarsi progettare sempre di nuovo, secondo il piano di
Dio. Come dopo il diluvio. Bisogna, però, ricominciare ogni giorno; non basta una volta per tutte. Lo
avevano compreso i padri del deserto, i quali raccontano come una volta abba Arsenio, assalito dai
demoni, gridasse: «O Dio, non abbandonarmi! Non ho fatto niente di buono davanti a te, ma nella tua
bontà concedimi di ricominciare». Concedimi di ricominciare è la preghiera dell’uomo che sa
cogliere nei suoi spazi, segnati dal peccato, un tempo di grazia e d’attesa, donatogli da Dio, per
riprendere il cammino, giorno dopo giorno. «La conversione infatti è sempre una questione di tempo:
l’uomo ha bisogno di tempo… Ci faremmo un’immagine dell’uomo assolutamente errata, se
pensassimo che le cose importanti della vita possono realizzarsi immediatamente una volta per tutte.
L’uomo è fatto in modo tale che ha bisogno di tempo per crescere, maturare… Dio lo sa meglio di
noi e per questo aspetta» (Louf).
25 FEBBRAIO 2024
LA PAROLA DI DIO NELLA
2A DOMENICA DI QUARESIMA
Il tema della Domenica
Nel travaglio dell’esistenza, oggi la speranza non è di casa. Non solo a motivo delle armi nucleari
o batteriche, delle inimicizie tra civiltà e nazioni o della crisi del mito del progresso, ma anche a
motivo dei semi di distruzione che albergano nel profondo di ciascuno. La disillusione pervade
individui e comunità, ed è diffusa un’inquietudine profonda, una stanchezza mortale. Viene meno la
speranza e cresce la paura. Le letture di oggi, belle e impegnative, ci chiamano a confrontarci con
questa notte della speranza, senza finzioni e senza fughe nell’aldilà, ma anche nella consapevolezza
che la sapienza di Dio va cercata dentro lo scandalo, dentro la notte della creazione e della creatura.
La prima lettura: Gn 22,1-2.9a.10-18
Il racconto conosciuto come “il sacrificio di Isacco” è uno dei testi più affascinanti e suggestivi
della letteratura mondiale. Non sempre la bellezza si sposa con la profondità, ma questa pagina della
Genesi è un capolavoro letterario e di fede.
Tutto inizia con una nota che è inquietante: «Dio mise alla prova Abramo». In realtà, tutta la vita
di Abramo era stata una prova: la partenza dalla terra verso un paese sconosciuto, la sterilità di Sara,
la promessa di una discendenza in vecchiaia, l’attesa… E, sempre, la risposta di Abramo era stata la
stessa: credere: «il tempo passava, la possibilità rimaneva: Abramo credeva; il tempo passava, la
possibilità svaniva: Abramo credeva. Ci furono altri uomini che pure vissero nell’attesa… ma
sprofondarono nello sconforto…. Di Abramo non abbiamo nessuna lamentazione. Non contava con
malinconia i giorni, mentre il tempo passava veloce; non osservava sua moglie con occhio sospettoso,
per vedere se invecchiava; non fermava la corsa del sole, per mantenere Sara giovane e la sua speranza
possibile; non faceva assopire il suo sconforto con un triste canto. E Abramo divenne vecchio e Sara
fu schernita nel paese… Che cosa significa essere l’eletto di Dio? Significa vedere svanire nella
giovinezza l’attuazione dei desideri, per essere esauditi nella vecchiaia con grande difficoltà? Eppure
Abramo credette» (von Rad).
Ma un giorno venne il momento cruciale, la prova suprema: quando lo stesso Dio, che una notte lo
aveva portato fuori della tenda per fargli ammirare il cielo stellato - metafora della futura
ineguagliabile discendenza - lo condusse nella notte oscura, senza stelle e senza futuro, chiedendogli
l’unico figlio che aveva. L’impensabile avviene: con l’ordine della partenza dalla terra ad Abramo
era stato chiesto di immolare il suo passato, ora gli viene chiesto il sacrificio del futuro, della speranza
riposta nel figlio. Come non vedere qui la storia di Giobbe, di Tobia, di Israele, di ogni credente…
nei momenti della delusione cocente, quando la promessa va in frantumi? Come non leggere tra le
righe l’esperienza dell’esilio – di ogni esilio e di ogni incomprensibile dolore – con il grido degli
uomini disperati, che nella notte si rivolgono a Dio gridando: «Dio, tu ci hai messo alla prova, ci hai
passati al crogiuolo, come l’argento» (Sal 66,10)?
Abramo non grida, non piange; va solo dove Dio lo conduce. Lo aveva notato già un grande esegeta,
come von Rad: la prima parola del racconto è “Dio”. Colui che chiede di entrare nella notte non è un
sovrano crudele e sadico, che si compiace nel tormentare l’uomo, ma colui che – nonostante tutto –
mantiene la sua parola. Questa è la fede: dare credito alla promessa, anche quando essa viene smentita
dai fatti; dar fiducia a Dio anche quando sembra contraddittorio e inaffidabile. Abramo credette e si
addentrò nella notte che gli stava davanti.
Una tradizione riportata dal secondo libro delle Cronache identifica il territorio di Moria con il
monte dove Salomone costruì il tempio. Ma non è proprio la fede il vero sacrificio gradito a Dio?
Jhwh non vuole il sangue dei primogeniti, ma l’obbedienza della fede. E Abramo credette. Il gioco
sul verbo ebraico ra’ah / “vedere” che il testo contiene alla fine del racconto (vedere, provvedere)
mostra come, nella fede, l’essere umano è capace di incontrare Dio anche nella notte, perché è Dio
stesso che nella notte si lascia vedere.
Il Vangelo: Mc 9,2-10
Il racconto della trasfigurazione di Gesù, proposto nel Vangelo, approfondisce il motivo della notte
e della luce della fede nel cammino di Cristo e dei credenti. Il testo va letto non tanto in chiave di
“che cosa” è accaduto sul monte, ma piuttosto in chiave di “senso”, perché i generi utilizzati
dall’autore hanno la funzione di illuminare la vita e non di soddisfare la curiosità. La trasfigurazione
si presenta come un genere letterario misto, dove, accanto a tratti tipici dell’epifania (apparire,
vedere...), della teofania (nube, voce, ...) e dell’apocalittica (le vesti bianche, la nube, la voce...),
Marco ha inserito altri motivi cristologici allo scopo di mostrare, in una sorta di “midrash”, il senso
profondo della storia di Gesù e di coloro che si sono messi alla sua sequela.
Nel passo che precede il racconto della trasfigurazione, il lettore aveva imparato che la strada del
figlio dell’uomo e dei suoi discepoli è la strada della croce. Gesù aveva detto: «Se qualcuno vuol
venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). Con il racconto
della trasfigurazione, la rivelazione sulla strada di Cristo e dei discepoli diventa luminosa, perché
viene detto che Dio ha il potere di trasfigurare la croce, trasformandola in resurrezione e vita. La
menzione della trasfigurazione come opera di Dio («fu trasfigurato davanti a loro» ha Dio stesso
come soggetto) offre al lettore la chiave interpretativa degli eventi che accadono sulla strada di
Gerusalemme, sulla strada che porta alla croce. E così viene chiaramente detto che la croce di Gesù,
e quella di chi lo segue, non è il segno di un terribile destino, ma la manifestazione di una Sapienza
divina, capace di trasformare il non senso della storia umana in cammino di vita.
Vanno lette in questa luce anche le figure di Elia e Mosè, che appaiono accanto al Cristo splendente.
La tradizione cristiana li ha compresi per lo più come rappresentanti della legge e dei profeti, ma forse
è stato sorvolato il fatto che Mosè ed Elia sono profeti che hanno sofferto e, nella sofferenza, hanno
fatto esperienza della salvezza di Dio. Nella tradizione ebraica non solo Elia, ma anche Mosè è visto
come il profeta perseguitato. Le due figure testimoniano la presenza del Dio salvatore nel destino di
morte inferto dagli uomini ai suoi inviati. E, come Dio è stato presente nella storia di Israele, salvando
i suoi profeti, così ora è presente nel destino di sofferenza del suo Figlio e dei suoi discepoli,
liberandoli dalla morte.
In questo modo, il Vangelo si aggancia al racconto della notte di Abramo, affermando che il Dio
della Bibbia è il Dio della vita. La notte oscura dell’uomo, la notte del dubbio e dell’abbandono, è
una notte abitata dalla Presenza. E proprio quando uno immagina di essere ormai solo e abbandonato,
proprio allora Dio diventa la sua consolazione e il suo soccorso. La trasfigurazione della notte di
Abramo in cammino verso il monte Moria, e della notte di Gesù sulla strada per Gerusalemme, ci
dice che la Speranza raggiunge l’essere umano proprio là, dove egli si trova, sulla via che percorre,
nella situazione che gli è data in sorte. Un prodigio della fede.
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