I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad* Stefano Brugnolo** - Laura Luche** I. Tratteremo qui il tema del Purgatorio in una chiave tra il letterale e l’analogico. Diciamo in generale che il Purgatorio come spazio istituzionale di contatto e negoziazione tra i vivi e i morti è stato rivisitato dalla letteratura moderna che lo ha trasformato in una dimensione dell’immaginario poetico. Secondo Greenblatt fu la Riforma a trasformare «le contrattazioni con i morti da processo istituzionale governato dalla chiesa in un processo poetico governato dalla colpa, dalla proiezione e dall’immaginazione»1. Inoltre, a proposito del motivo purgatoriale nell’Amleto, osserva che «La forza del teatro di Shakespeare dipende dal suo appropriarsi di strutture istituzionali indebolite e logore»2. Se le anime del Purgatorio tradizionale sono costrette a vagare e penare in una condizione di sospensione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, diremo allora che il moderno motivo purgatoriale si è prestato a esplorare tutte le condizioni esistenziali e sociali sospese tra una vita e una morte metaforicamente intese, e cioè tra un passato che non passa e un futuro che ancora non avviene, tra tradizione e modernità, e naturalmente tra peccato e perdono. Il tema purgatoriale, infatti, ben si adatta a trasfigurare responsabilità e colpe storicamente intese. Esplicitiamo subito la nostra tesi: le anime in pena che si aggirano nella letteratura, i tanti morti-vivi che vi incontriamo, traspongono una condizione di vita alienata, di vita-sbagliata, di vita-morte. Per quanto riguarda poi la letteratura latino-americana, diremo che le immagini dei morti-vivi vanno lette sullo sfondo di una modernità sbagliata, che gira a vuoto, e di un passato non ancora superato e ela* Del paragrafo I è autore Stefano Brugnolo, del paragrafo II è autrice Laura Luche. ** Università di Sassari. 1 S. Greenblatt, Amleto in Purgatorio. Figure dell’aldilà, Carocci, Roma 2002, p. 240. 2 Ivi, p. 241. 6 Stefano Brugnolo - Laura Luche borato, e cioè di una tradizione-fato-maledizione che perseguita i vivi nel loro tentativo di liberarsene. I morti-vivi della letteratura latinoamericana si muovono appunto in questo spazio-tempo sospeso: quello tra una tradizione che è morta ma non del tutto, e una modernità che si è affermata ma non del tutto, e comunque in una forma distorta. Partiamo dunque da Pedro Páramo3. Ebbene, tutto il libro è costruito proprio su un motivo che possiamo ben definire purgatoriale. L’eroe del romanzo, Juan Preciado, è propriamente un pellegrino che visita un paese di morti-vivi, Comala, un «mundo lejano» (PP 73), dove si aggirano anime in pena che continuamente gli si affollano intorno, chiedendo di intercedere per loro, ma alla fine risucchiandolo nel loro mondo. Il pathos che il romanzo comunica ha a che fare con queste immagini e simboli religiosi: il peccato, il perdono, la salvezza, l’Inferno, il Paradiso, il Purgatorio. Simboli che ancora vivono nella coscienza popolare messicana, ma che qui si sono caricati di nuovi valori e significati, tutti umani e storici. Per capire meglio questa operazione di rimotivazione e risemantizzazione ci conviene distinguere tra due tipi di soprannaturale. Il primo è quello che Francesco Orlando chiama di tradizione, e cioè quel «soprannaturale […] accreditato al massimo, convalidato da durevoli reificazioni dell’immaginario collettivo»4. L’altro è il soprannaturale di trasposizione: quest’ultimo può sì «riportare, come se niente fosse, alla tradizione: alle sue localizzazioni, ambientazioni leggendarie o lontane», però «l’importante è che in momenti essenziali le antiche motivazioni, indebolite o perdute, siano sostituite da rimotivazioni efficaci. L’inattuale acquista allora un’attualità tanto maggiore in quanto supremamente problematica»5. Un tale soprannaturale si basa su un «rinvio [...] allegorico-referenziale», e cioè su un rinvio a «referenti […] che trovano nel soprannaturale un’espressione enigmatica adeguata. I primi sono i soli che abbiano bastante pregnanza per rimotivare il secondo; il secondo è il solo che abbia bastante mistero per esprimere i primi»6. Applicando questo schema a Rulfo diremo che il purgatorio metafisico “traspone” efficacemente un purgatorio storico, e cioè che la Comala oltretombale di 3 J. Rulfo, Pedro Páramo, Cátedra, Madrid 2003. D’ora in poi citeremo nel corpo del testo con due iniziali maiuscole tra parentesi (PP). 4 F. Orlando, Gli statuti del soprannaturale, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. I, pp. 208-209. 5 Ivi, p. 218. 6 Ibidem. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 7 Rulfo traspone una esperienza storica di fallimento e colpa senza redenzione possibile. Specifichiamo meglio ora come funziona il purgatorio rulfiano. Prima di tutto è un mondo dove i confini tra morti e vivi paiono labili, per cui non sappiamo mai chi è vivo e chi è morto. Comala pare abitata da ombre, da spiriti piuttosto che da esseri in carne e ossa: «Mi hermana […] murió cuando yo tenía 12 años […]. Y mírala ahora, todavía vagando por este mundo» (PP 102); «Aquí esas horas están llenas de espantos. […] de ánimas que andan sueltas por la calle» (PP 111). Ma spesso non si tratta di visioni bensì di voci, che però hanno sempre la caratteristica di essere voci incorporee, fantasmi di voci o voci di fantasmi: «Este pueblo está lleno de ecos. Tal parece que estuvieran encerrados en el hueco de las paredes o debajo de las piedras» (PP 101); «Y lo peor de todo es cuando oyes platicar a la gente, como si las voces salieran de alguna hendidura» (PP 102); «Y de las paredes parecían destilar los murmullos come si filtraran de entre las grietas y las descarapeladuras» (PP 118). Questi sospiri, echi, mormorii, che costituiscono il basso continuo del romanzo, sono evidentemente quelli delle anime in pena e vaganti; sono i mormorii di gente morta male, e che s’aggira senza trovare pace. Per Weinrich i morti che ritornano in letteratura sono l’espressione di un «oblio non pacificato»7, e infatti tutte queste ombre vaganti, questi «Ruidos. Voces. Rumores» (PP 106), costituiscono l’eco lontana ma persistente di un passato che non passa, che non è placato, che non è redento. Rulfo recupera potentemente il presupposto teologico del Purgatorio, secondo cui le preghiere dei vivi e le sofferenze dei morti metteranno capo a una purgazione di questo passato. Queste ombre infatti, con il loro mormorare e gemere, vagano in attesa di una “purgazione” futura, magari propiziata dalle preghiere dei vivi: «Y tu alma […] Debe andar vagando por la tierra como tantas otras; buscando vivos que recen por ella» (PP 124). Ma è proprio questa possibilità di “purgazione” che viene loro negata: «Y ésa es la cosa por la que está lleno de ánimas; un puro vagabundear de gente que murió sin perdón y que no lo conseguirá de ningún modo» (PP 112). Per dirla con Le Goff, la Comala morta di Rulfo è un purgatorio «infernalizzato»8, e cioè un purgatorio senza speranza. Scrive infatti Le Goff che essen7 8 H. Weinrich, Lete: arte e critica dell’oblio, Il Mulino, Bologna 1999, p. 187. J. Le Goff, La nascita del purgatorio, Einaudi, Torino 1996, p. 353. 8 Stefano Brugnolo - Laura Luche zialmente «Il purgatorio è speranza»9, e spiega che è speranza perché è legato a un’idea di solidarietà tra le generazioni. I morti e i vivi di Comala si rifanno ancora a questa teologia della solidarietà, ma sanno altresì che essa ha perduto di validità: «perdí todo mi interés desde que el Padre Rentería me aseguró que jamás conocería la Gloria […]. Ya de por si la vida se lleva con trabajos. Lo único que la hace a una mover los pies es la esperanza de que al morir la lleven a una de un lugar a otro; pero cuando a una le cierran una puerta y la que queda abierta es nomás la del Infierno, más vale no haber nacido…» (PP 124). Il Purgatorio immaginato da Rulfo è senza speranza perché i vivi e i morti si sono resi colpevoli di colpe irredimibili, di colpe troppo “vergognose”: «Son tantas, y nosotros tan poquitos, que ya ni la lucha le hacemos para rezar porque salgan de sus penas […]. Ninguno de los que todavía vivimos está en gracia de Dios. Nadie podrá alzar sus ojos al Cielo sin sentirlos sucios de vergüenza. Y la vergüenza no cura» (PP 111). Insomma, la ragione per cui i vivi non possono aiutare i morti e viceversa, è perché sono stati tutti complici nel peccato. Continuamente Rulfo allude a peccati e a colpe, a rimorsi e a richieste di perdono, che però non possono essere soddisfatte, in terra prima ancora che in cielo: «Yo […] le confesé todo: “Eso no se perdona” me dijo. “Estoy avergonzada”. “No es el remedio”» (PP 111). Da tutto il libro sale una sorta di invocazione continua, che però resta e resterà senza risposta «nei secoli dei secoli»: «El Yo pecador se oía más fuerte, repetido, y después terminaba: “por los siglos de los siglos, amén”, “por los siglos de los siglos, amén”, “por los siglos [...]”» (PP 132). Alla fine, secondo uno degli effetti di amplificazione e iperbole che caratterizzano tutto il romanzo, sembra che la vita in sé sia peccato senza redenzione: «¿Y qué crees que es la vida […] sino un pecado?» (PP 164). Tuttavia il peccato non è metafisico ma storico. E proprio questo dona al romanzo la sua risemantizzata forza dantesca: ai messicani è stata data una possibilità di salvezza, e se essi se la sono giocata, la colpa è loro, su di loro ricade la vergogna e la pena. Certo è che questo peccato è così originario, così intrinseco a quelle genti, da essere divenuto un peccato originale. E come tale, sempre secondo la logica di una teologia secolarizzata, esso ricade sui figli. In questo caso sul figlio di Pedro Páramo, Juan Preciado, che ha intrapreso il viaggio 9 Ivi, p. 248. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 9 purgatoriale proprio alla ricerca del padre. Quei sospiri, quei mormorii delle anime che gli chiedono disperatamente di pregare per loro alla fine lo faranno morire soffocato: Me mataron los murmullos […] Eran voces de gentes; pero no voces claras, sino secretas […] pero las oía igual, igual que se vinieran conmigo, delante o detrás de mí. […] Vi que no había nadie, aunque seguía oyendo el murmullo como de mucha gente en día de mercado. Un rumor parejo, sin ton ni son, parecido al que hace el viento contra las ramas de un árbol en la noche, cuando no se ven ni el árbol ni las ramas, pero se oye el murmurar. Así. Ya no di un paso más. Comencé a sentir que se me acercaba y daba vueltas a mi alrededor aquel bisbiseo apretado como un enjambre, hasta que alcancé a distinguir unas palabras casi vacías de ruido: «Ruega a Dios por nosotros.» Eso oí que me decían. Entonces se me heló el alma. Por eso es que ustedes me encontraron muerto (PP 118-119). Ora, le voci senza suono che fuoriescono dai muri della città fantasma sono la trasposizione del potere mortifero, risucchiante che può esercitare sui vivi un passato non redento. In questo caso il passato è quello messicano, segnato fin dalle sue origini moderne da una violenza traumatica, che si è subita ma di cui anche si è stati complici, e che si trasmette nel tempo, come una maledizione. Che Juan Preciado muoia soffocato dai mormorii dei morti sta a significare che è impossibile ereditare dai padri nulla che non sia inficiato dalla colpa; e sta a significare anche che su questo passato “sordido di vergogna” non è possibile fondare nessun futuro, nessun riscatto. Walter Benjamin, pur muovendosi in un’ottica teologica lontana da quella cattolica, si è posto questioni simili: «c’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»10. Ebbene la morte di Juan Preciado dimostra invece che le generazioni attuali non hanno nessun potere di redenzione, non possono cioè riscattare le colpe del passato, non riescono a liberare i morti dal loro vagare, dalle loro pene. Accade invece che siano i morti a attirare a sé i vivi. E ciò succede anche perché, mentre i morti da redimere di Benjamin sono essenzialmente vittime della Storia, quelli di Rulfo sono vittime e contemporaneamente colpevoli. Qual è la loro colpa? Anzi il loro peccato? Ebbene, essi hanno di10 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus novus (trad. di R. Solmi), Einaudi, Torino 1962, p. 77. 10 Stefano Brugnolo - Laura Luche strutto una terra che era florida, benevola, materna. Essi hanno sprecato una grande occasione. Quella di abitare in pace in una sorta di paradiso terrestre. Il testo è pieno di riferimenti a un passato edenico, a una terra che fu un paradiso terrestre, prima di divenire «la imagen del desconsuelo» (L 43)11. Per esempio questa: «[...] Llanuras verdes. [...] el viento que mueve las espigas [...] una lluvia de triples rizos. El color de la tierra, el olor de la alfalfa del pan. Un pueblo que huele a miel derramada[...]» (PP 80). È questo «pueblo fértil, lleno de agua, de árboles, clima maravilloso»12 che i messicani hanno lasciato morire, e infine hanno abbandonato al suo destino di terra desolata, morta. E naturalmente questa terra meravigliosa non corrisponde solo a un dato naturalistico, ma a una possibilità storica, quella che le terre nuove e “meravigliose”, scoperte da Colombo, hanno costituito dapprima per i conquistatori e poi per i loro discendenti. Noi sappiamo infatti che già i primi conquistatori oscillarono tra «meraviglia» e «possesso», o se vogliamo tra principio di piacere e principio dell’utile, e cioè tra una possibilità di godere di quel nuovo e intatto mondo, e l’impulso a impossessarsene, a sfruttarlo, a depredarlo. Ecco cosa scrive Todorov a proposito di Colombo: «Gli alberi sono le vere sirene di Colombo. Dinanzi a loro egli dimentica [...] la sua ricerca del profitto, per insistere su ciò che non serve a niente, non porta a niente e quindi non può essere che ripetuto: la bellezza»13. E Todorov cita lo stesso ammiraglio, là dove quest’ultimo si dice spinto nella sua impresa «dal desiderio che provava e dal piacere che gli derivava dal vedere e ammirare la bellezza e la freschezza di quelle terre, ovunque le toccasse», tanto che, sempre con le parole di Colombo, «non avrebbe voluto staccarsene più»14. A sua volta Scott Fizgerald ha cercato di ricostruire quale doveva essere stata la meraviglia allorché gli scopritori-conquistatori entrarono per la prima volta in contatto con il «seno fresco, verde, del nuovo mondo»: And as the moon rose higher the inessential houses began to melt away until gradually I became aware of the old island here that flowered once for Dutch 11 J. Rulfo, Lavina, in El Llano en llamas, Cátedra, Madrid 2004, pp. 112-121. D’ora in poi citeremo nel corpo del testo con l’iniziale maiuscola tra parentesi (L). 12 J. Rulfo, Autobiografía armada, Corregidor, Buenos Aires 1973, p. 62. 13 T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1984, p. 30. 14 Ibidem. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 11 sailors’eyes – a fresh, green breast of the new world. Its vanished trees [...] had once pandered in whispers to the last and greatest of all human dreams; for a transitory enchanted moment man must have held his breath in the presence of this continent, compelled into an æsthetic contemplation he neither understood nor desired, face to face for the last time in history with something commensurate to his capacity for wonder15. Sappiamo che sulla capacità di meraviglia prevalse l’istinto di possesso, ma sappiamo anche che quel sogno utopico non ha mai cessato di affascinare gli americani. E così questa dialettica tragica avviata dalla Conquista ha continuato a infiltrarsi in tutte le successive imprese di modernizzazione. Il libro di Rulfo constata che quella promessa di felicità è fallita, ma lo fa con il tono straziato di chi sente che le cose avrebbero potuto andare diversamente, che quella terra, «la più bella che occhio umano abbia mai visto»16, poteva anche essere salvata. Il senso di questa occasione mancata, «l’ultima nella storia», rende la constatazione di quel fallimento tanto più amara e struggente. Il sogno di ricominciare da capo è stato distrutto una volta per sempre da coloro che hanno colonizzato il «seno fresco, verde del nuovo mondo». E questa distruzione è un peccato assoluto perché quel sogno, quella possibilità riguardavano tutta l’umanità, erano «l’ultima» occasione. Consideriamo adesso il racconto Luvina, per molti aspetti connesso a Pedro Páramo, quasi un suo primo abbozzo. Allorché il personaggio che narra, dopo che ha finito di descrivere come si è ridotto Luvina, il paese dove ha trascorso buona parte della sua esistenza, ricorda l’entusiasmo giovanile con cui era partito alla sua volta, e l’amarezza con cui è ritornato, sta descrivendo in termini trasfigurati anche il fallimento del sogno («l’esperimento») di rivoluzionare o riformare, e insomma “salvare” il Messico e i messicani: «Allá viví. Allá dejé la vida[...]. Fui a ese lugar con mis ilusiones cabales y volví viejo y acabado. [...] En esa época tenía yo mis fuerzas. Estaba cargado de ideas […]. Hice el experimento y se deshizo» (L 115-120). Anche in Pedro Páramo si fa cenno almeno una volta a questa possibilità, a questa speranza: «Hay aire y sol, hay nubes. Allá arriba un cielo azul y detrás de él tal vez haya canciones; tal vez mejores voces [...]. Hay esperanza, en 15 F. Scott Fitzgerald, The Great Gatsby, Cideb, Genova 1994, pp. 195-196. È un’altra citazione dal diario di Cristoforo Colombo sempre citato da T. Todorov, op. cit., p. 29. 16 12 Stefano Brugnolo - Laura Luche suma. Hay esperanza para nosostros, contra nuestro pesar» (PP 86). Ma questa speranza si è rivelata vana, un seme che non ha attecchito in quell’ambiente sociale e umano. Io direi però che questa possibilità di un altro Messico è implicitamente evocata proprio con la descrizione della rovina attuale di quelle terre che furono «belle e fresche». L’enfasi amara sulla distruzione ci fa sentire che la responsabilità per quella rovina è tutta e solo umana, storica; per esempio: «esas lomas pelonas tan trabajadas y que todavía seguían aguantando el surco, dando cada vez más de sí [...]» (PP 98); «Vivimos en una tierra en que todo se da, gracias a la Providencia; pero todo se da con acidez. Estamos condenados a eso» (PP 130); «Desde entonces la tierra se quedó baldía y como en ruinas. Daba pena verla llenándose de achaques con tan plaga que la invadió en cuanto la dejaron sola» (PP 137). E un personaggio commenta lapidariamente questo meccanismo di sfruttamento e distruzione della terra: «Vivímos rompiendo nuestro mundo a cada rato, si es válido decirlo» (PP 158). Con queste descrizioni di un paese morto si allude sia agli effetti di una pratica di sfruttamento latifondistico e predatorio della terra, sia anche all’abbandono di quelle terre, all’emigrazione di massa dalle campagne verso le metropoli, emigrazione che viene rappresentata come tradimento, e dunque ancora una volta come una colpa imperdonabile, l’effetto di una modernizzazione forzata e sbagliata. Sono molte le descrizioni che traspongono su un piano mitopoietico quest’ultimo evento: «Así comenzaron todos. Que voy a ir aquí, que voy a ir más allá. Hasta que se fueron alejando tanto, que mejor no volvieron» (PP 115); «[…] el pueblo se fue quedando solo; todos largaron camino para otros rumbos» (PP 120). In Luvina c’è una rappresentazione ancora più memorabile di questo esodo: «Sólo quedan los puros viejos y las mujeras solas, o con un marido que anda donde sólo Dios sabe dónde [...]. Mientras tanto, los viejos aguardan por ellos y por el día de la muerte, sentados en sus puertas, con los brazos caídos [...] Solos, en aquella soledad de Luvina» (L 119). L’immagine è potente e travalica la realtà messicana, diventando metafora di un torto immane e irrimediabile, fatto alla Terra innocente, sfruttata e poi abbandonata dai suoi figli. Si tratta di un peccato epocale e planetario, quello che coincide con l’avvento della modernità industriale, avvento che dovunque corrispose a questo abbandono e tradimento, ma che in Messico assunse aspetti specifici molto peculiari e tragici. Non si diede infatti in Messico nessuna mediazione o compromesso “ono- I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 13 revole” tra questo e quel mondo, questa e quella fase. Come dice Paz, si fuggì via dal proprio passato per entrare nella Storia: «el mexicano rompe sus ligas con el pasado, reniega de su origen y se adentra solo en la vida histórica»17. Chi parte vuole fuggire via dai suoi morti; chi resta mantiene un legame con i morti che impedisce ogni progresso. Il purgatorio rulfiano corrisponde dunque anche a questo, a un paese che si svuota, che deperisce, che lentamente muore. Intorno agli anni ’50 la civiltà agraria messicana cominciò infatti a morire di una lunga e straziante morte. Come afferma Danny J. Anderson il romanzo con i suoi effetti di incertezza onirica tra la vita e la morte, e tra diversi piani di realtà, indaga alcune fenomenologie tipiche dei processi di modernizzazione, e «coinvolge i lettori in un processo di comprensione della complessa relazione tra presente e passato»; in altre parole «Pedro Páramo rende i lettori consapevoli della inquietante presenza di un Messico tradizionale che muore ma non è completamente morto, e continua a incombere anche se già si dissolve – una realtà che indugia, presente ancora per poco, passata ma non del tutto»18. Come a dire che gli spettri, i morti-vivi che affollano la città fantasma, riempiendola di rumori, sussurri, lamenti, traducono l’esperienza di un mondo storico «che muore ma non è completamente morto». Continuamente nel romanzo troviamo situazioni in cui, come lettori, si è incerti se ci si trova davanti a esseri viventi o a morti, e la domanda che Juan Preciado rivolge a due personaggi che abitano una casa distrutta – «¿No están ustedes muertos?» (PP 107) – è una domanda che di fatto si può rivolgere ai rappresentanti di quegli «ordinamenti sociali che non muoiono mai completamente allorché un nuovo ordine sociale è stabilito»19.Che cioè vivono una vita oltre la morte. Ma occorre aggiungere che questa morte ha anche delle ricadute esistenziali, che sono anch’esse di ordine purgatoriale. Coloro che restano ancorati a quei mondi, e cioè a quei paesi quasi-morti, a quelle 17 O. Paz, El laberinto de la soledad, Fondo de Cultura Económica, Mexico D.F.-Madrid 2001, p. 105. 18 D.J. Anderson, The Ghosts of Comala: Haunted Meaning in “Pedro Páramo”. An Introduction to Juan Rulfo’s “Pedro Páramo”, in http://www.utexas.edu/utpress/excerpts/ruled-intro.htm1 A sua volta Silvia Lorente-Murphy ha scritto: «la desolazione di Comala [...] non è altro che la conseguenza dell’esodo rurale che seguì la Rivoluzione; esodo di un proletariato agrario che si trasferì in città alla ricerca di nuove fonti di lavoro, generalmente inesistenti»: Juan Rulfo: Realidad y mito de la Revolución Mexicana, Pliegos, Madrid 1988, p. 98. 19 D.J. Anderson, op. cit. 14 Stefano Brugnolo - Laura Luche economie quasi-morte, sopravvivono in una condizione che è appunto di vita-morte. Il senso di un tempo fermo, o che gira su se stesso, che s’è fatto eterno, così come lo ritroviamo nel romanzo, traspone l’esperienza di inutilità vergognosa di tutti coloro che sono stati superati dalla progresso: «los pasos, como de gente que ronda» (PP 86); «Como si hubiera retrocedido el tiempo» (PP 114). Uguale funzione hanno le ripetizioni che così spesso troviamo nel testo, e che quasi sempre alludono a una temporalità incantata: «El reloj de la iglesia dio las horas, una tras otra, una tras otra, como si se hubiera encogido el tiempo» (PP 77); «se dio vuelta sobre sí misma una y otra vez, una y otra vez» (PP 86); «“por los siglos de los siglos, amén”, “por los siglos de los siglos, amén”, “por los siglos...”» (PP 132). Ma è ancora in Luvina che noi troviamo esplicitati al massimo grado questi aspetti di una temporalità che gira su se stessa perversamente: «Perdí la noción del tiempo desde que las fiebres me la enreversaron; pero debió haber sido una eternidad... Y es que allá el tiempo es muy largo. Nadie lleva la cuenta de las horas ni a nadie le procupa cómo van amontonandóse los años. Los días comienzan y se acaban. Luego viene la noche. Solamente el día y la noche hasta el día de la muerte, que para ellos es una esperanza» (L 118). Ecco dunque che l’immagine dei morti-vivi assume un ulteriore significato: le anime che «girano intorno» «eternamente» per Comala/Luvina rappresentano le vite vuote e sempre uguali di coloro che sono rimasti irrimediabilmente indietro rispetto alla Storia. Rappresentano cioè le esistenze di uomini che sono già morti mentre ancora sono vivi. Come a dire che la ciclicità innocente, inconsapevole della società agropastorale si trasforma in ciclicità colpevole solo dopo la grande svolta moderna. Se infatti la vita delle comunità agricole tradizionali era fondamentalmente ripetitiva, e cioè circolare, vale a dire ancora fondata sulla successione delle stagioni e delle operazioni a esse collegate, ebbene quella circolarità è divenuta colpevole e maledetta da quando è entrata in contatto con la modernità, che è invece fondata sul tempo lineare e progressivo. E colpevole lo è tanto più perché quegli uomini e quelle donne hanno collaborato alla loro caduta, con la loro incuria, con il loro egoismo meschino, con la loro mancanza di costruttività e solidarietà, con la loro paura e complicità verso un potere irresponsabile. Il risultato è proprio questa cattiva modernità, che a sua volta liquida per sempre un passato sbagliato, senza imparare da esso, ma in un certo senso ereditandone e ripetendone gli errori. L’esito di questo passag- I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 15 gio, di questa svolta è che d’improvviso, in questi paesi tagliati fuori dal progresso, il tempo è diventato «molto lungo», e gli anni «si ammucchiano» invece che trascorrere, e i giorni «incominciano e finiscono» senza mettere capo a nulla, e coloro che sono rimasti si sentono vergognosamente inutili. Questa cattiva infinità o eternità è una condizione purgatoriale del tutto nuova e originale che alla fine accomuna Comala a tutti i paesi marginalizzati dalla storia. Sovradeterminati sono anche i fenomeni metereologici, sempre rovinosi in Rulfo, essi costituiscono qualcosa di più e di diverso di ciechi fenomeni naturali. È per esempio questo il caso del vento che imperversa a Comala: «Los vientos siguieron soplando todos esos días [...]. La lluvia se había ido; pero el viento se quedó […]. De día era pasadero; retorcía las yedras y hacía crujir las tejas en los tejados; pero de noche gemía, gemía largamente» (PP 148); ma più ancora a Luvina: «Ya mirará usted ese viento que sopla sobre Luvina. [...] rasca como si tuviera uñas: uno lo oye a mañana y tarde, hora tras hora, sin descanso, raspando las paredes, arrancando tecatas de tierra, escarbando con su pala picuda por debajo de las puertas, hasta sentirlo bullir dentro de uno como si se pusiera a remover los goznes de nuestros de nuestros mismos huesos» (L 113). Questo vento biblico è la manifestazione tangibile di una sorta di forza distruttiva, annichilente, che ha cause e radici storiche. Esso è in altre parole la manifestazione e l’effetto di una furia distruttrice tutta e solo umana. Octavio Paz ha ben individuato le origini e le cause di questa furia allorché ha parlato del verbo chingar come di una parola chiave per comprendere il mondo messicano: «[…] la pluralidad de significaciones no impide quela idea de agresion […] se presente sempre, como significado último. El verbo denota violencia, salir de si mismo y penetrar por la fuerza en otro. Y también, herir, rasgar, violar – cuerpos, amas, objetos –, destruir»20. E continua: «Es un verbo masculino, activo, cruel: pica, hiere, desgarra, mancha»21. Si può proprio dire che Comala sia un paese «chingado», e cioè appunto violato, ferito, distrutto. Poco più avanti Paz spiega l’espressione «vete a la Chingada» come un mandare «a nuestro interlocutor a un espacio lejano e indeterminato. Al país de las cosas rotas, gastadas. País gris, que no está en ninguna parte, immenso y vacio»22. 20 21 22 O. Paz, op. cit., p. 92. O. Paz, op. cit., p. 93. Ivi, pp. 96-97. 16 Stefano Brugnolo - Laura Luche Come non notare che «la Chingada», questo paese leggendario, «lontano e indeterminato», questo paese «delle cose rotte, guastate», questo paese «immenso e vuoto», è proprio la Comala inventata da Rulfo. E si direbbe quasi che Rulfo punti a mostrarci proprio il vuoto, il niente, il silenzio, il deserto a cui alla fine si riduce Comala: «yo preguntaba por el pueblo, que se ve tan solo, como si estuviera abandonado. Parece que no lo habitara nadie. [...] No es que lo parezca. Así es. Aquí no vive nadie» (PP 69); «Me acerqué para ver [...] y vi esto: lo que estamos viendo ahora. Nada. Nadie. Las calles tan solas» (PP 101). È questo il purgatorio inventato da Rulfo, una landa desolata e vuota: «Pero aquello es el purgatorio. Un lugar moribundo donde se han muerto hasta los perros y ya no hay ni quien le ladre al silenzio» (L 120). Ripetiamo: non si tratta di una visione astrattamente, metafisicamente nichilistica. La causa storica di quella furia annientatrice che «morde, scoperchia, gratta, strappa, scava» tutto, è da ritrovare nelle relazioni sociali e umane «dure», improntate cioè alla violenza. Il vento distruttore è una sorta di correlato obiettivo di questa furia distruttrice e autodistruttrice, e contemporaneamente ne rappresenta un controeffetto, una specie di risposta, di vendetta della natura offesa, chingada. Diamo ancora la parola a Paz per comprendere meglio la natura di questa forza o furia di distruzione: «Para el mexicano la vida es una posibilidad de chingar o de ser chingado. Es decir, de humillar, castigar y ofender. O la inversa»23. E «en un mundo de chingones, de relaciones duras, presididas por la violencia [...], en el que nadie se abre ni se raja y todos quieren chingar, las ideas y el trabajo cuentan poco. Lo único que vale es la hombría, el valor personal, capaz de imponerse»24. Sono queste le cause storiche e sociali del cosiddetto machismo messicano e latino-americano in genere. E questa pulsione machista naturalmente si incarna nella figura del Padre, un Padre potente e distruttivo: «Lo característico de lo mexicano reside, a mi juicio, en la violenta afirmación del Padre»25. Come si sarà capito siamo più che mai dalle parti di Pedro Páramo: questa figura di un padre violento infatti corrisponde perfettamente a quella del personaggio di Rulfo. Non è il vento che ha trasformato questo «pueblo fértil, lleno de 23 24 25 Ivi, pp. 94. Ivi, p. 95. Ivi, p. 96. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 17 agua, de árboles» in una landa desolata, è il Padre chingador. È lui l’incarnazione ultima di questa volontà di possedere e nello stesso tempo annichilire la terra. Della figura mitica del Padre Paz scrive: «El “macho” […] abre al mundo; al abrirlo, lo desgarra. […] las reduce [las cosas] a polvo, miseria, nada»26. Si confronti questo padremacho che riduce le cose a «polvere, miseria, niente» con il Pedro Páramo del finale, quando, dopo aver sfruttato (chingado) fino all’osso uomini e cose, decide di lasciare andare tutto alla malora: «Le perdió interés a todo. Desalojó sus tierras y mandó quemar los enseres» (PP 137); così che alla fine «la tierra en ruinas estaba frente a él, vacía» (PP 178). A sua volta, la terra posseduta, violentata e alla fine annientata sta per la Madre. E anche qui il riferimento è molto più che vagamente simbolico. In tutto il romanzo il potere del Padre si manifesta come potere fallico, distruttivo invece che fecondo, come potere di penetrare e violare le donne. Anche questo tratto è costitutivo dell’identità messicana e latino-americana in genere, e ha basi storiche precise. Lasciamo ancora una volta la parola a Octavio Paz, allorché così commenta la voce chingar: «La voz está teñida de sexualidad, pero no es sinónimo del acto sexual […] Y cuando se alude al acto sexual, la violación o el engaño le prestan un matiz particolar. El que chinga jamás lo hace con el consentimento de la chingada»27. Ne risulta che «La Chingada es la Madre abierta, violada o burlada por la fuerza. El “hjio de la Chingada” es el engendro de la violación, del rapto o de la burla»28. Come a dire che i messicani sono figli di una madre che essi stessi disprezzano, in quanto chingada dal Padre brutale. Ora, l’attitudine machista nei confronti della donna e del mondo in realtà non fa che ripetere un trauma storico originario, che corrisponde alla violenza con cui il conquistador possedette e violò un continente e le sue donne: «Es imposible no advertir la semejanza que guarda la figura del “macho” con la del conquistador español»29. Da quella violenza originaria sono nati i messicani, che non hanno potuto o saputo fare altro che perpetuarla identificandosi con un Padre violento che a sua volta li ha subito disconosciuti, e rinnegando una madre percepita co26 27 28 29 Ivi, p. 98. Ivi, p. 93. Ivi, p. 96. Ivi, p. 99. 18 Stefano Brugnolo - Laura Luche me vergognosamente «passiva» e «aperta», anzi ripetendo all’infinito quella violenza originaria su di lei. Ancora Paz: «Si la Chingada es una representación de la Madre violada, no me parece forzado asociarla a la Conquista, que fue también una violación, no solamente en el sentido histórico, sino en la carne misma de las indias»30; e ancora: «La Chingada es aún más pasiva. Su pasividad es abyecta [...]. Pierde su nombre, no es nadie ya, se confunde con la nada, es la Nada»31. Perciò la terra meravigliosa, che alla fine viene ridotta a «polvere e niente» da un Padre violento e violentatore, si identifica a sua volta con questa Madre mitica, che agli occhi dei messicani «si confonde con il niente, è il niente». La violenza che pervade l’epopea di Pedro Páramo non è dunque che ripetizione di un trauma originario: quello della conquista. E sempre dentro la logica della coazione a ripetere si spiegano le prepotenze e le violenze che accompagnano l’ascesa e la caduta di Pedro Páramo. Anche lui infatti è vittima oltre che colpevole di quel deterioramento delle relazioni tra gli uomini e col mondo. Anche Pedro Páramo è stato infatti irretito nella grande catena di violenze e abusi che è la storia moderna del Messico. La sua violenza non è altro che la ripetizione di una violenza patita da lui in gioventù: la violenza subita da suo padre, che si trasforma per il ragazzo scontroso e sognante che era il giovane Pedro in una violenza da restituire e perpetuare, fino a quando essa alla fine ricadrà su di lui. Quasi che l’unico modo per dimenticare la violenza patita sia restituirla all’infinito. Quasi che l’unico modo disperato per non essere offeso, violato, umiliato, chingado, sia essere a propria volta chingador. Consiste anche in ciò la maledizione di questo mondo, che è perciò paragonabile al meccanismo di una nevrosi, là dove il malato, nell’intento di liberarsi dal peso del trauma che lo perseguita, non fa che ripeterlo, rovesciandolo sugli altri. Come sappiamo da Freud, l’unico modo per liberarsene consiste in una elaborazione catartica di quel trauma. È questa l’unica salvezza umana e storica concepibile, l’unica liberazione possibile dalla pena purgatoriale che induce a ripetere eternamente le stesse azioni; e è proprio questa strada di speranza che il Messico non sa o non può imboccare, rimanendo invece prigioniero di una logica storica disperata. E che sia uno dei tanti figli, nati dalle sue violenze e subito disco30 31 Ivi, p. 103. Ibidem. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 19 nosciuti, a uccidere Pedro Páramo, sta a significare che non si esce da questa logica disperata. Il figlio della chingada infatti è sempre disconosciuto dal padre chingador. Ancora Paz: «Nada más natural, por tanto, que su indiferencia frente a la prole que engendra. No es el fundador de un pueblo; no es patriarca que ejerce la patria potestas; [...]. Es el poder, aislado en su misma potencia, sin relación ni compromiso con el mundo exterior. Es la incomunicación pura, la soledad que se devora a sí misma y devora lo que toca»32. Anche queste ultime parole valgono come una descrizione della condizione pressoché mitica di soledad a cui è condannato Pedro Páramo, che campeggia «isolato nella sua stessa potenza», e la cui figura «enorme»33 si erge sullo sfondo delle terre desolate di cui è signore: «Quedaba él, solo, como un tronco duro comenzando a desgajarse por dentro» (PP 163); «No dormía. Se había olvidado del sueño y del tiempo» (PP 172). Questa solitudine, come dice Paz, si propaga da lui a tutti gli altri, e infine al mondo naturale e alle cose tutte, creando intorno a sé un universo di tante solitudini «incomunicanti», che è poi quello che in definitiva ci trasmette la visione purgatoriale di Rulfo: una landa di anime vaganti dove nessuno può pregare per l’altro, dove nessuno può perdonare l’altro, dove nessuno può ascoltare l’altro: «Tú y yo allí, rezando rezos interminables, sin que ella oyera nada, sin que tú y yo oyéramos nada, todo perdido en la sonoridad del viento debajo de la noche» (PP 134). Questo mondo è fondato sulla non-comunicazione perché è essenzialmente fondato su un rifiuto o su una incapacità del padre ad essere padre, e cioè a costruire, educare, governare, amare il suo mondo. Tutti sono orfani di questo padre «enorme», presente e assente: «De ahí que el sentimento de orfandad sea al fundo constante […] de nuestros conflictos íntimos. Mexico está tan solo como cada uno de sus hijos»34. Sempre Paz scrive che questo mitico padre lontano ossessiona i messicani. Perché esso sta alla base del mistero delle loro origini, di nazione e di persone: «En suma, la cuestion del origen es el centro secreto de nuestra ansiedad y angustia»35. E tale questione sta anche alla base del romanzo, sta alla base del viaggio che Juan Preciado intraprende nel purgatorio di Comala, co32 33 34 35 Ivi, p. 99. «el cuerpo enorme de Pedro Páramo» (PP 161). Ivi, p. 96. Ivi, p. 97. 20 Stefano Brugnolo - Laura Luche me dimostrano le prime parole del romanzo: «Vine a Comala porque me dijeron que acá vivía mi padre, un tal Pedro Páramo» (PP 65). Questo viaggio prevede due finali: in uno dei due il figlio viene ucciso dal padre. Che infatti Juan Preciado muoia soffocato dai mormorii dei morti sta a significare che è impossibile ereditare dai padri nulla che non sia inficiato dalla colpa; e sta a significare anche che su questo passato «sordido di vergogna» non è possibile fondare nessun futuro, nessun riscatto. L’altro finale, quello effettivo, è che il figlio uccide il padre. Come farà Abundio Martínez, che fin dalle primissime battute del libro è l’alter ego di Juan Preciado: «Yo también soy hijo de Pedro Páramo» (PP 67). E lo farà in una forma quasi rituale, e cioè scannandolo, come un capro sacrificale. In un caso come nell’altro non è possibile elaborare il trauma delle origini, se non in una forma catastrofica e fatale, distruttiva e autodistruttiva. Le ultime battute del libro, «Se apoyó en los brazos de Damiana Cisneros e hizo intento de caminar. Después de unos cuantos pasos cayó, suplicando por dentro; pero sin decir una sola palabra. Dio un golpe seco contra la tierra y se fue desmoronando como si fuera un montón de piedras» (PP 178), ci dicono sì che l’epoca di Pedro Páramo si è conclusa con un fallimento tragico e definitivo, ma non ci dice se e quando sarà possibile riscattarla. II. Se Pedro Páramo narra di una possibilità storica ormai perduta e il paradiso originario è evocato solo nel ricordo, García Márquez in Cien años de soledad36 mette il lettore di fronte a una nuova possibilità, a un nuovo paradiso dal quale viene bandita la violenza del padre mitico. Macondo, il paese fondato da José Arcadio Buendía e da sua moglie Úrsula Iguarán, che costituisce il nucleo spaziale del romanzo, nasce da un esplicito ripudio della violenza. Prima della fondazione il patriarca della stirpe dei Buendía, che è al centro dell’opera, uccide per motivi di onore un amico che ha messo in dubbio la sua essenza di macho, di chingador, insinuando una sua presunta impotenza sessuale. Per sfuggire alla colpa e al fantasma del morto che li perseguita, José Arcadio e Úrsula abbandonano il loro paese di origine e dopo un viaggio di oltre due anni in terre impervie e incontaminate fondano Macondo, nel quale sono proibite le armi e i galli da combatti36 G. García Márquez, Cien años de soledad, Cátedra, Madrid 1986. D’ora in poi citeremo nel corpo del testo con tre iniziali maiuscole tra parentesi (CAS). I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 21 mento, simbolo questi ultimi di una violenza gratuita, fine a se stessa. Macondo appare così come un mondo primordiale privo del peccato ancestrale. Macondo, si legge in apertura del romanzo, «era entonces una aldea de veinte casas de barro y cañabrava construidas a la orilla de un río de aguas diáfanas que se precipitaban por un lecho de piedras pulidas, blancas y enormes como huevos prehistóricos. El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo» (CAS 71). In pochi anni il villaggio diventa «una aldea más ordenada y laboriosa que cualquiera de las conocidas hasta entonces por sus 300 habitantes. […] una aldea feliz, donde nadie era mayor de treinta años y donde nadie había muerto» (CAS 80). Il paese è, insomma, la riproposizione dell’orizzonte di possibilità che si offre agli occhi di Colombo e dei primi conquistatori37 ma, da un punto di vista più generale, può essere letto allo stesso tempo come la riproposizione dell’orizzonte di opportunità che si apre in seguito alle guerre di Indipendenza dell’Ottocento, quando l’America Latina, come scrive Paz, «se transforma […] en un proyecto», in un «futuro que realizar»38, quando, dopo secoli di colonialismo, i latinoamericani possono acquisire un’identità propria e diventare soggetti del proprio divenire storico. Sono questi i traguardi che l’esodo pone davanti ai Buendía: «El éxodo […] les da una oportunidad […] de fundarse una historia a su imagen y semejanza, el cumplimiento de una vida trazada con un proyecto existencial concreto y vivo por ellos mismos»39. In Cien años de soledad, infatti, il territorio da conquistare, non è tanto lo spazio naturale, quanto lo spazio-tempo della modernità, della civiltà progredita. È questo l’obiettivo che ossessiona il patriarca, entrare in «contacto con la civilización» (CAS 82), «recibir los beneficios de la ciencia» (CAS 85), collegare Macondo alle terre dalle quali 37 Per uno studio puntuale dei rapporti fra la Macondo iniziale e l’immagine dell’America che emerge dalle cronache della Conquista di veda S. Calasans Rodrígues, “Cien años de soledad” y las crónicas de la conquista, in J. G. Cobo Borda (a cura di), Repertorio crítico sobre Gabriel García Márquez, t. I, Instituto Caro y Cuervo, Bogotá 1995. Scrive Calasans Rodríguez: «La descripción geográfica de Macondo y sus alrededores a partir de los viajes, y las tentativas de ligarlo con la civilización tiene como intertexto la visión de los descubridores y conquistadores del Nuevo Mundo» (ivi, p. 585). 38 O. Paz, op. cit., p. 144. 39 R. Jara Cuadra, Las claves del mito en “Cien años de soledad”, in C. Goic et al., La novela ispanoamericana. Descubrimiento e invención de America, Ediciones Universitarias, Valparaíso 1973, p. 185. 22 Stefano Brugnolo - Laura Luche provengono le invenzioni portate dagli zingari che vi si recano annualmente, e che suscitano in lui e negli altri abitanti la stessa meraviglia che la visione delle terre nuove suscitò nei conquistatori: «En el mundo están ocurriendo cosas increíbles», afferma José Arcadio Buendía, «Ahí mismo, al otro lado del río, hay toda clase de aparatos mágicos, mientras nosotros seguimo viviendo como los burros» (CAS 79). Di fatto, gran parte della magia che caratterizza il romanzo non si deve tanto a enti o a eventi soprannaturali, quanto all’atteggiamento stupito e affascinato degli abitanti di Macondo di fronte ai prodotti della modernità, fra i quali figurano la calamita, la bussola, la lente di ingrandimento. Come ben ha sintetizzato Rosalba Campra, «cada uno de estos elementos que en nuestro mundo forman parte de lo cotidiano, se carga de una fulguración mágica, por el sólo hecho de su aparición subitánea. Del mismo modo pero en sentido inverso, los hechos que en la realidad fuera del texto resultarían extraordinarios, como la invisibilidad, […] o la ascensión al cielo […] aparecen reducidos a la cotidianidad»40. Così, se José Arcadio rimane impassibile davanti a un fantasma o a un uomo che si trasforma in una pozzanghera di catrame, rimane invece attonito «por la evidencia del prodigio» (CAS 91) davanti al ghiaccio, e «fulminado […] por el tecleo autónomo» di una pianola, che gli appare come un «milagro» (CAS 137). L’aura magica di cui viene investita la tecnica evidenzia l’immensa distanza sia spaziale sia temporale che separa Macondo dalla modernità. Ed è tale distanza che fa sì che i suoi prodotti tecnologici non vengano recepiti correttamente. Il patriarca dei Buendía, per esempio, pensa di servirsi della calamita per estrarre l’oro dalla terra (CAS 72), o di utilizzare la lente di ingrandimento come arma bellica (CAS 73); ancora, all’arrivo del cinema gli abitanti di Macondo si indignano «porque un personaje muerto y sepultado en una película, y por cuya desgracia se derramaron lágrimas de aflicción, reapareció vivo y convertido en árabe en la película siguiente» (CAS 300). Se al principio Macondo appare come una paradiso nel contempo arcadico e utopico41, ben presto perde le sue caratteristiche edeniche e l’orizzonte di possibilità che rappresenta inizialmente si assottiglia gra40 R. Campra, Gabriel García Márquez: un itinerario de lectura, in J.G. Cobo Borda (a cura di), Repertorio crítico sobre Gabriel García Márquez, t. I, Instituto Caro y Cuervo, Bogotá 1995, p. 601. 41 Cfr. Michael Palencia-Roth, Gabriel García Márquez: la línea, el círculo y la metamorfosis del mito, Gredos, Madrid 1983, pp. 74-75. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 23 datamente fino a eclissarsi. Il paese acquisisce sempre più una dimensione purgatoriale, popolandosi di morti, ma soprattutto di vivi-morti, di personaggi che si astraggono dalla realtà e trascinano una lunga non-esistenza. Il fondatore, in preda a una lucida follia, trascorre anni sotto un castagno, «había perdido todo contacto con la realidad. […] era como hablarle a un muerto, porque José Arcadio Buendía estaba ya fuera del alcance de toda preocupación» (CAS 183). Anche il colonnello Aureliano, che quando il padre impazzisce porta avanti il progetto liberale di Macondo, dopo aver perduto trentadue guerre contro i conservatori, si tumula nel suo laboratorio di oreficeria: «Aureliano Buendía, […] poco a poco había ido perdiendo todo contacto con la realidad de la nación. Encerrado en su taller, su única relación con el resto del mundo era el comercio de pescaditos de oro» (CAS 275); «era una sombra […] apenas si abandonaba el taller para orinar» (CAS 333-334); «la familia terminó por pensar en él como si hubiera muerto»(CAS 338). Il colonnello, dal canto suo, aspetta solo che passi il proprio funerale (CAS 277). Anche il suo bisnipote José Arcadio Segundo, dopo aver tentato di ribellarsi contro il potere economico e politico che si impone su Macondo, trascorre la parte finale della sua esistenza interrato in una stanza e immerso «en un mundo de tinieblas […] infranqueable y solitario», terrorizzato alla «simple idea de abandonar el cuarto que le había proporcionado la paz» (CAS 409). Come loro, altri Buendía sono prigionieri di una vita inutilmente protratta, trascorsa ad attendere una morte che ponga fine alle loro pene. Fra questi Amaranta, che passa gli ultimi anni della sua vita a tessere il proprio sudario, e Rebeca Buendía, che dopo la morte del marito si seppellisce viva: «cerró las puertas de su casa y se enterró en vida» (CAS 210); era un espectro del pasado […] que […] se movía a través de una atmósfera de fuegos fatuos» (CAS 233). Quando il paese è investito dalla pioggia che segna l’inizio della fine, gli abitanti tutti appaiono come «fantasmas vivos» (CAS 333) che attendono che spiova solo per morire: «todos los habitantes de Macondo, estaban esperando que escampara para morir» (CAS 394). Non è un caso che nel romanzo venga richiamata la figura dell’ebreo errante che, secondo la leggenda, è destinato a peregrinare in eterno, a non poter godere della pace della morte per aver peccato nei confronti di Gesù. Come l’ebreo errante, i Buendía hanno un peccato da espiare, una penitenza da scontare con una vita vissuta loro malgrado: «Morirse», dichiara il colonnello Aureliano Buendía, «es mucho más difícil de lo que uno cree» (CAS 246). 24 Stefano Brugnolo - Laura Luche Mentre in Pedro Páramo la condizione purgatoriale è evocata in modo esplicito, in Cent’anni di solitudine è implicita. Il romanzo è ricchissimo di echi religiosi; come scrive Figueroa, «La Biblia funciona como un sistema significante, […] especie de intertexto que organiza arquetípicamente el materiale narrativo: éxodos, génesis, pecado original, castigos y profecías, Apocalipsis y juicio final»42. Tuttavia, a differenza di Rulfo, che si richiama direttamente alle immagini e ai simboli della tradizione cristiana pur rimotivandoli in senso storico, García Márquez li traduce in termini secolari. Valga come esempio il motivo dell’esodo che dà origine a Macondo. Se nel racconto biblico il popolo eletto si incammina verso la terra promessa da Dio, in Cien años de soledad viene specificato che i Buendía si dirigono «hacia la tierra que nadie les había prometido» (CAS 96). In questo modo il testo sottolinea che l’universo rappresentato è strettamente circoscritto al piano umano, che il compito dei Buendía è storico, ma allo stesso tempo dotato di un valore altissimo43. E storico è il loro peccato: come gli abitanti di Comala, anche quelli di Macondo, di cui i Buendía sono sintesi e riflesso44, sono colpevoli di aver sprecato un’opportunità, quella di essere artefici del proprio destino e di vivere in un mondo armonico di libertà e giustizia, la «aldea feliz» delle origini. Il paese, dopo la prima tappa della fondazione, caratterizzata dai falliti sogni di progresso del patriarca, diventa sempre più un oggetto della volontà altrui. Su Macondo si afferma dapprima il repressivo potere conservatore statale, autore di brogli elettorali e barbare violenze, e successivamente il potere stra42 C. Figueroa, “Cien años de soledad”: reescritura bíblica y posibilidades del texto sagrado, in Aa.Vv., “Cien años de soledad”, treinta años después, XX Congreso Nacional de Literatura, Lingüística y Semiótica, Instituto Caro y Cuervo, Santafé de Bogotá 1998, p. 115. 43 Osserva al riguardo Katalin Kulin (Mito y realidad en “Cien años de soledad” de Gabriel García Márquez, in E. de Bustos Tovar (a cura di), Actas del IV Congreso de la Asociación Internacional de Hispanistas, 1971, t. II, p. 95. Ora anche in http://cvc.cervantes.es/obref/aih/aih_ ivb.htm): «El éxodo, visto desde el siglo XX, es una empresa exclusivamente humana, ocasionada por acciones humanas y dirigidas hacia una meta plenamente humana: la mejora de la vida. García Márquez le presta al hombre la dignidad de la responsabilidad total por su destino y, valiéndose del lenguaje del mito, la expresa en lo sagrado». 44 Sui rapporti fra i Buendia e Macondo scrive M. Vargas Llosa (García Márquez: historia de un deicidio, Barral, Barcelona 1971, pp. 496-497): «la interdepencia de la historia del pueblo y la de los Buendía es absoluta. Estos sufren, originan o remedian todos los grandes acontecimientos que vive esa sociedad, desde el nacimiento hasta la muerte […]. La familia Buendía, como una mágica bola de cristal, apresa simultáneamente a la comunidad numerosa y abstracta y a su mínima expresión, el solitario individuo de carne y hueso». I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 25 niero di una compagnia bananiera a cui il governo nazionale si è asservito. La compagnia travolge e stravolge il paese: los suspicaces habitantes de Macondo apenas empezaban a preguntarse qué cuernos era lo que estaba pasando, cuando ya el pueblo se había transformado […]. Los gringos […] habían ocasionado un trastorno colosal, mucho más perturbador que el de los antiguos gitanos, pero menos transitorio y comprensibile. Dotados de recursos que en otra época estuvieron reservados a la Divina Providencia modificaron el régimen de lluvias, apresuraron el ciclo de las cosechas, y quitaron el río de donde estuvo siempre y lo pusieron con sus piedras blancas […] en el otro extremo de la población (CAS 303-304). L’impresa bananiera infatti darà luogo a un progresso accelerato, fugace e distruttivo a cui gli ultimi Buendía quasi non oppongono resistenza. Al contrario, Aureliano Segundo, rappresentante del capitalismo nazionale, accoglie a braccia aperte il potere straniero e dilapida i proventi del miracolo economico in feste faranoiche: «Aureliano Segundo […] no cabía de contento con la avalancha de forasteros. La casa se llenó de pronto de huéspedes desconocidos, de invencibles parranderos mundiales» (CAS 305). L’atteggiamento di Aureliano Segundo ben rispecchia quello di molti latinoamericani rispetto all’arrivo del capitale straniero nei primi anni del Novecento che così descrive Vargas Llosa: La invasión económica norteamericana no tiene oposición, e incluso, es bienvenida porque crea el espejismo de la bonanza: establece nuevas fuentes de trabajo, […] y da la impresión de contribuir a la modernización y el progreso. El saqueo de las riquezas naturales que significa, la camisa de fuerza que impone a las economías de los países latinoamericanos, impidiéndoles desarrollarse industrialmente y reduciéndolos a meros exportadores de materias primas, la corrupción política que propagan […] para aseguarse regímenes adictos que cautelen sus intereses, repriman los conatos de sindacalización […] pasan casi inadvertidos 45. Solo José Arcadio Segundo tenta di ribellarsi alle condizioni di lavoro e di vita inumane imposte dall’espansione imperialista organizzando uno sciopero generale. Ma la sua ribellione è di breve durata: la paura davanti agli esiti dello sciopero, più di tremila morti falcidiati dalle mitragliatrici dell’esercito, e davanti alla menzogna ufficiale che nega la strage e riesce a imporre un oblio generale, lo paralizzerà e lo indurrà a seppellirsi vivo. In seguito alla lotta sindacale la compagnia 45 M. Vargas Llosa, op. cit., p. 17. 26 Stefano Brugnolo - Laura Luche lascia Macondo. Il paese, perduta la base dell’economia, ormai completamente dipendente dall’esterno, va alla deriva: le piantagioni vengono abbandonate e i lavoratori emigrano lasciando il paese spopolato. Così il sogno del patriarca di incorporare Macondo nella modernità, di cui la compagnia è la massima espressione nel testo, si trasforma in un incubo: «Macondo estaba en ruinas […]. Las casas paradas con tanta urgencia durante la fiebre del banano habían sido abandonadas. La compañía bananera desmanteló sus instalaciones. […] La región encantada que exploró José Arcadio Buendía en los tiempos de la fundación, y donde luego prosperaron las plantaciones de banano, era un tremendal de cepas putrefactas» (CAS 403). Come sottolinea Farías, Macondo «había devenido lo que todos los centros de explotación colonial o imperialista de la América Latina. Cuanto mayor había sido la explotación productiva o la entrega de riqueza exhuberante, tanto mayor era la negación resultante. El texto termina así de narrar un capítulo entero de la historia colombiana, ejemplar y válido para América Latina»46. Il paese, in seguito al declino economico reso possibile dall’atteggiamento essenzialmente passivo della stirpe nei confronti di una modernità rapace, diventa un «pueblo muerto» (CAS 452), popolato di spettri che assediano gli ultimi Buendía sopravvissuti, Amaranta Úrsula e Aureliano Babilonia: «Muchas veces fueron despertados por el tráfago de los muertos. Oyeron a Úrsula peleando contra las leyes de la creación para preservar la estirpe, y a José Arcadio buscando la verdad quimérica de los grande inventos, […] y al coronel Aureliano Buendía embruteciéndose con engaños de guerra y pescaditos de oro, y a Aureliano Segundo agonizando de soledad en el aturdimiento de las parrandas» (CAS 486). I morti che non muoiono, congelati nelle ossessioni che hanno caratterizzato la loro esistenza, sono evidente manifestazione di un passato tormentato, che non trova pace, un passato, per usare le parole del romanzo, «cuyo aniquilamiento no se consumaba, porque seguía aniquilándose indefinidamente, consumiéndose dentro de sí mismo, acabándose a cada minuto, pero sin acabar de acabarse jamás» (CAS 478). Il Purgatorio di Márquez, al pari di quello di Rulfo, è quindi frutto di una modernità sbagliata, prima mal recepita e distorta, poi vio46 V. Farías, Los Manuscritos de Melquíades. “Cien años de soledad”, burguesía latinoamericana y dialéctica de la reproducción ampliada de negación, Vervuert, Frankfurt/Main 1981, pp. 311-312. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 27 lenta e forzata. Di nuovo una cattiva modernità che, ancora una volta, si traduce in uno sconvolgimento climatico: «Llovió cuatro años, once meses y dos días […]. Se desempedraba el cielo en unas tempestades de estropicio, y el norte mandaba unos huracanes que desportillaron techos y derribaron paredes, y desenterraron de raíz las últimas cepas de las plantaciones» (CAS 388). Al lunghissimo diluvio fanno seguito dieci anni di siccità flagellati da un vento caldo che desertifica il paese e preannuncia il vento biblico che lo spazzerà via: «[…] a partir de agosto […] empezó a soplar el viento árido que sofocaba los rosales y petrificaba los pantanos, y que acabó por esparcir sobre Macondo el polvo abrasante que cubrió para siempre los oxidados techos de zinc y los almendros centenarios» (CAS 406). I fenomeni naturali distruttivi altro non sono che espressione di azioni storiche distruttive, effetto e metafora della violenza di uno sviluppo accelerato e innaturale. Col diluvio, che nel testo è significativamente attribuito al potere divino del padrone della compagnia bananiera, Macondo ripercorre a ritroso il cammino intrapreso con la fondazione del paese: Todo andaba así desde el diluvio. La desidia de la gente contrastaba con la voracidad del olvido, que a poco a poco iba carcomiendo sin piedad los recuerdos, hasta el extremo que […] volvieron los gitanos, […] y encontraron el pueblo tan acabado y a sus habitantes tan apartados del resto del mundo que volvieron a meterse en las casas arrastrando fierros imantados como si de veras fuera el último descubrimiento de los sabios babilonios y volvieron a concentrar los rayos solares con la lupa gigantesca (CAS 418-419). La natura, a evidenziare la fuoriuscita della stirpe dallo spazio della cultura e della storia, riprende il sopravvento e invade la casa dei Buendía, sineddoche di Macondo tutta: la casa se precipitó de la noche a la mañana en una crisis de senilidad. Un musgo tierno se trepó por las paredes. […] la maleza rompió por debajo el cemento del corredor, lo resquebrajó como un cristal, y salieron por las grietas […] florecitas amarillas […]. Sin tiempo ni recursos para impedir los desafueros de la naturaleza, Santa Sofía de la Piedad se pasaba el día en los dormitorios, espantando los lagartos que volverían a meterse por la noche. Una mañana vio que las hormigas coloradas abandonaron los cimientos socavados […] Santa Sofía de la Piedad siguió luchando […] con la maleza (CAS 433). A mano a mano che i Buendía falliscono nel tentativo di inserirsi con una identità e un progetto propri nella modernità, l’uno dopo l’altro si dissociano dalla realtà e precipitano nella condizione purga- 28 Stefano Brugnolo - Laura Luche toriale di vita-morte di cui si è detto. Tratto distintivo di tale condizione è l’assenza del tempo cronologico, progressivo. Il tempo si cristallizza in un eterno lunedì per il patriarca quando prende atto del proprio fallimento, del succedersi di giorni sempre uguali nei quali la sua fervida immaginazione e i suoi strampalati esperimenti non apportano alcun progresso: «me he dado cuenta de que sigue siendo lunes como ayer. Mira el cielo, mira las paredes, mira las begonias. También hoy es lunes […] ¡La máquina del tiempo se ha descompuesto […]!» (CAS 154-155). Anche per il colonnello e per Úrsula, quando sentono avanzare il declino, la frustrazione, il tempo si fa pressoché statico: José Arcadio Segundo […] sin saberlo repitió una antigua frase de Úrsula. – Qué quería murmuró –, el tiempo pasa. – Así es – dijo Úrsula –, pero no tanto. Al decirlo, tuvo conciencia de estar dando la misma réplica que recibió del coronel Aureliano Buendía en su celda de sentenciado (CAS 408-409). La stessa sensazione di un tempo immobile, non scandito da ore, giorni e mesi, si diffonde fra gli abitanti di Macondo quando durante il diluvio spendono la loro esistenza ad attendere la morte: «los habitantes de Macondo, estaban […] sentados en la salas con la mirada absorta y los brazos cruzados, sintiendo transcurrir un tiempo entero, un tiempo sin desbravar, porque era inútil dividirlo en meses y años, y los días en horas, cuando no podía hacerse nada más que contemplar la lluvia» (CAS 394). Ancora, il tempo lineare cede il posto nella percezione dei personaggi al tempo circolare, all’eterno ritorno dell’uguale. Per Ursula, principale coscienza temporale del testo per la sua longevità, «Es como si el tiempo diera vueltas en redondo» (CAS 271); «el tiempo no pasaba […] sino que estaba dando vueltas en redondo» (CAS 409). Anche in questo caso non si tratta più della circolarità armonica delle società tradizionali bensì di una circolarità infelice che segna il senso di fallimento rispetto al tempo storico lineare della modernità. Tanto più infelice è la circolarità che caratterizza il tempo purgatoriale del romanzo in quanto essa riflette il perverso agire dei Buendía, la legge generale della famiglia che è all’origine del loro fallimento, ovvero il continuo costruire per distruggere che segna tutte le generazioni47, e che caratterizza in particolare l’azione storica del colonnello 47 Sul tema si veda V. Farías, op. cit., p. 199 et passim. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 29 Aureliano, la figura più emblematica del romanzo. Il colonnello alla fine delle sue trentadue guerre contro i conservatori si rende conto di essere prigioniero di un circolo vizioso: «se cansó […] del círculo vicioso de aquella guerra eterna que siempre lo encontraba a él en el mismo lugar, sólo que cada vez más viejo, más acabado, más sin saber por qué ni cómo, ni hasta cuándo» (CAS 242-243). Per rompere il circolo combatte la sua ultima battaglia contro il suo stesso esercito per costringerlo ad accettare l’armistizio che segnerà la vittoria definitiva degli avversari contro i quali ha lottato per venti anni: Necesitó casi un año de rigor sanguinario para forzar al gobierno a proponer condiciones de paz favorables a los rebeldes, y otro año para persuadir a sus partidarios de la conveniencia de aceptarlas. Llegó a inconcebibles extremos de crueldad para sofocar las rebeliones de sus propios oficiales, que se resistían a feriar la victoria y terminó apoyándose en fuerzas enemigas para acabar de someterlos (CAS 246). Cancellata così la sua azione storica si dedicherà a cancellare ogni traccia di sé, a «destruir todo rastro de su paso por el mundo» (CAS 250). Aureliano ripete in questo modo quanto già fatto dal padre nel momento in cui prende atto della sterilità delle sue avventure scientifiche: El viernes […] volvió a vigilar la apariencia de la naturaleza, hasta que no tuvo la menor duda de que seguía siendo lunes. Entonces agarró la tranca de una puerta y con la violencia salvaje de su fuerza descomunal destrozó hasta convertirlos en polvo los aparatos de alquimia, el gabinete de daguerrotipia, el taller de orfebrería […]. Se disponía a terminar con el resto de la casa cuando Aureliano pidió ayuda a los vecinos (CAS 155)48. Il colonnello sconta il proprio fallimento con una vita-morte spesa a costruire e distruggere pesciolini d’oro, una penitenza che appare come naturale contrappasso del suo peccato storico: «cambiaba los pescaditos por monedas de oro, y luego convertía las monedas de oro 48 Più avanti lo stesso atto distruttivo lo compirà Aureliano Segundo: «Aureliano Segundo […] con una furia perfectamente regulada y metódica fue agarrando uno tras otro los tiestos de begonias, las macetas de helechos, los potes de orégano, y uno tras otro los fue despedazando contra el suelo. […] rompió el cristal de la vidriera, y una por una, sin apresurarse, fue sacando las piezas de la vajilla y las hizo polvo contra el piso. Sistemático, sereno […] fue rompiendo luego contra las paredes la cristalería de Bohemia, los floreros pintados a mano, los cuadros de las doncellas en barcas cargadas de rosas, los espejos de marcos dorados, y todo cuanto era rompible desde la sala hasta el granero, y terminó con la tinaja de la cocina que se reventó en el centro del patio con una explosión profunda» (CAS 399). 30 Stefano Brugnolo - Laura Luche en pescaditos […] para satisfacer un círculo vicioso exasperante» (CAS 276); «desde que decidió no venderlos, seguía fabricando dos pescaditos al día, y cuando completaba veinticinco volvía a fundirlos en el crisol para empezar a hacerlos nuevos» (CAS 340). Come lui, anche sua sorella Amaranta appare impegnata a fare e disfare: «la vida se le iba en bordar el sudario. Se hubiera dicho que bordaba durante el día y desbordaba en la noche» (CAS 334); «en una época arrancaba botones para volver a pegarlos, de modo que la ociosidad no le hiciera más larga la espera» (CAS 351). Il movimento circolare e inutile del colonnello e sua sorella, oltre a simboleggiare la frustrazione individuale e collettiva, è la più chiara immagine di quello che Segre ha definito l’avversione della famiglia «al pratico, al costruttivo, al prosaico»49. I Buendía si lanciano con spirito disinteressato, generoso, chisciottesco in imprese ambiziose che, tuttavia, non portano a nulla: il patriarca, per esempio, affascinato dalla scienza e dalla tecnica, abbandona la famiglia e la comunità al loro destino per dedicarsi ai suoi esperimenti i cui risultati sono privi di qualsiasi utilità; non meno inutili sono le guerre del colonnello che, come si è detto, finiscono per assicurare ai conservatori un dominio sempre più solido del potere. Colossale, folle e fallita è anche una delle imprese di José Arcadio Segundo che si impegna a collegare Macondo al mare attraverso un canale in cui navigherà una sola volta, una sola nave trainata con grosse funi dalla riva e carica unicamente di prostitute francesi: «fue un sueño delirante, comparable apenas a los de su bisabuelo» (CAS 271). Il tempo vuoto, circolare, anti-moderno che Aureliano e Amaranta cercano di ingannare con la loro attività fine a se stessa, è legato sin dal titolo a una condizione che marca tutti i Buendía, la solitudine. È soprattutto questa che li isola dalla percezione del tempo come progresso individuale e collettivo, se è vero, come scrive Paz, che è quando la coscienza personale si unisce alle altre che «el tiempo adquiere sentido y fin, es historia, relación viviente y significativa con un pasado y un futuro»50. È pertanto la solitudine il fondamento del loro penare come anime in pena in un tempo senza scopo. Non è un caso che la solitudine appaia nel testo anche come la caratteristica princi49 C. Segre, Il tempo curvo di García Márquez, in I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, Einaudi, Torino 1969, p. 255. 50 O. Paz, op. cit., p. 248. I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 31 pale dell’aldilà, l’elemento che spinge i morti a far ritorno sulla terra in cerca di compagnia. Melquíades, lo zingaro, racconta che «Había estado en la muerte […], pero había regresado porque no pudo soportar la soledad» (CAS 125). La stessa ragione spinge Prudencio Aguilar, l’uomo ucciso da José Arcadio Buendía, a ricongiungersi con il suo assassino: «Después de muchos años de muerte, era […] tan apremiante la necesidad de compañía […] que Prudencio había terminado por querer al peor de sus enemigos» (CAS 154). Ancora una volta ci pare che la solitudine che condanna i Buendía alla condizione purgatoriale sia da legare alla figura del padre, nel romanzo rappresentata in primo luogo da José Arcadio Buendía. Il patriarca delle stirpe, infatti, preda della sua immaginazione e dei suoi esperimenti strampalati si isola sempre più dalla famiglia: «José Arcadio Buendía pasó los largos meses de lluvia encerrado en un cuartito que construyó en el fondo de la casa para que nadie perturbara sus experimentos. […] Fue esa la época en que adquirió el hábito de hablar a solas, paseándose por la casa sin hacer caso a nadie […]» (CAS 74-75). Come il padre mitico descritto da Paz, José Arcadio appare incapace di essere genitore, di educare e amare i suoi figli: «Así fue siempre, ajeno a la existencia de sus hijos, en parte porque consideraba la infancia como un periodo de insuficiencia mental, y en parte porque siempre estaba demasiado absorto en sus propias especulaciones quiméricas» (CAS 88). Da lui si diffonde la solitudine che segna tutti i personaggi, tutti ugualmente incapaci di essere genitori. Infatti il rapporto tra genitori e figli in Cent’anni di solitudine è inesistente. Se il patriarca si disinteressa della sua prole, il colonnello Aureliano Buendía a stento conosce i suoi diciotto figli, chiuso nel circolo della guerra e della propria solitudine, e il fratello, José Arcadio, fugge fisicamente dalla paternità unendosi a un gruppo di zingari quando gli viene comunicato che diventerà padre. Così Arcadio, suo figlio, cresce senza sapere chi siano i genitori ed è accolto nella casa dei Buendía «de mala gana» (CAS 112). Viene educato insieme alla zia Amaranta, di cui è quasi coetaneo, ma nessuno si prende veramente cura di loro: «Había por aquella época tanta actividad en el pueblo y […] en la casa, que el cuidado de los niños quedó relegado a un nivel secundario» (CAS 112). Úrsula la matriarca, che nei rapporti con i discendenti è tanto carente quanto José Arcadio Buendía, trascura anche l’educazione di Rebeca e Amaranta, che diventano adolescenti senza che la madre se ne renda conto: «Tan ocupada esta- 32 Stefano Brugnolo - Laura Luche ba [Ursula] en sus prósperas empresas, que una tarde miró por distracción hacia el patio, […] y vio dos adolescentes desconocidas y hermosas […]. Eran Rebeca y Amaranta» (CAS 130). Anche Aureliano José, primogenito del colonnello, cresce nella casa avita privo di amore genitoriale perché la zia Amaranta, che se ne prende cura, intrattiene con lui rapporti semi-incestuosi. I fratelli Aureliano Segundo e José Arcadio Segundo e Remedios, la bella, che costituiscono la terza generazione dei Buendía, crescono senza il padre, Arcadio, fucilato dai conservatori. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi perché nessun Buendía ha con i propri figli, naturali o adottivi, rapporti e cure genitoriali. Ma forse il caso che meglio illustra le manchevoli relazioni fra genitori e figli nel testo è quello dell’ultimo Buendía, figlio di Amaranta Úrsula e Aureliano Babilonia, il bambino «predispuesto para empezar la estirpe otra vez por el principio y purificarla de sus vicios perniciosos y su vocación solitaria, porque era el único en un siglo que había sido engendrado con amor» (CAS 486). Preso dal dolore per la morte di Amaranta Úrsula, il padre, Aureliano Babilonia, lo abbandona per un’intera notte in una cesta dove sarà divorato dalle formiche: «Al amanecer […] Aureliano […] se acordó del niño. Era un pellejo hinchado y reseco, que todas la hormigas del mundo iban arrastrando trabajosamente hacia sus madrigueras […]» (CAS 490). In conclusione, se José Arcadio Buendía nel fondare Macondo bandisce la violenza del proto-padre, del chingador, non riesce però a eludere l’altra parte dell’eredità maledetta, l’incapacità di essere padre e la solitudine che ne discende. La solitudine nel testo si traduce, naturalmente, in una mancanza di comunicazione fra le generazioni. Emblematico di tale mancanza è il rapporto tra i due grandi protagonisti di Macondo, il patriarca e il figlio Aureliano. Quando il colonnello subentra al padre nella guida della comunità e nella difesa del progetto originario, il testo si incarica di sottolineare che per José Arcadio Buendía, immerso nella follia, il figlio è uno sconosciuto: «[…] Prudencio Aguilar […] le llevaba noticias espléndidas de un desconocido que se llamaba Aureliano y que era coronel en la guerra» (CAS 216). Aureliano, a sua volta, è l’unico a non vedere lo spettro del padre, che dopo la morte permane sotto il castagno: «El coronel Aureliano Buendía era el único habitante de la casa que no seguía viendo al potente anciano agobiado por medio siglo de intemperie» (CAS 318). Significativamente, a conferma della distanza che lo divide dal padre, il colonnello poco prima I morti che non muoiono in Pedro Páramo e Cien años de soledad 33 della propria morte orina sul fantasma del patriarca: «José Arcadio Buendía dormitaba todavía bajo el cobertizo de palmas podridas por la llovizna. Él no lo vio, como no lo había visto nunca, ni oyó la frase incomprensibile que le dirigió el espectro de su padre cuando despertó sobresaltado por el chorro de orín caliente que le salpicaba los zapatos» (CAS 339). Solo in un’occasione Úrsula cercherà di comunicare l’esperienza storica per evitare un ulteriore fallimento della stirpe. Quando si rende conto che José Arcadio Segundo, nelle vesti di sindacalista, sta ripercorrendo le fallite orme belliche del colonnello cerca, invano, di metterlo sull’avviso: «Úrsula tuvo la impresión de estar vivendo de nuevo los tiempos azarosos en que su hijo Aureliano cargaba en el bolsillo los glóbulos homeópaticos de la subversión. Trató de hablar con José Arcadio Segundo para enterarlo de este precedente, pero Aureliano Segundo le informó que […] se ignoraba su paradero» (CAS 370). La mancanza di comunicazione, di trasmissione del sapere e dell’esperienza fa sì che di padre in figlio, di generazione in generazione non ci sia autentico succedersi, ma eterno ricominciare, eterno ripetere, poiché si ignorano gli errori delle generazioni precedenti: «la historia familiar», si sintetizza alla fine del cammino della stirpe, «era un engranaje de repeticiones irreparables, una rueda giratoria que hubiera seguido dando vueltas hasta la eternidad, de no haber sido por el desgaste del eje» (CAS 470). Come il Purgatorio di Rulfo, anche quello di Márquez è privo di speranza, non c’è espiazione possibile per coloro che hanno distrutto la possibilità storica di diventare protagonisti del proprio destino in una terra meravigliosa: «las estirpes condenadas a cien años de soledad no tenían una segunda oportunidad sobre la tierra» (CAS 493), sentenziano le parole finali del romanzo. Il passato, come in Pedro Páramo, non solo non può essere riscattato ma ha un potere letale: Aureliano Babilonia soccombe oppresso dal «peso abrumador de tanto pasado […]. Herido por las lanzas mortales de las nostalgias propias y ajenas» (CAS 490). Lui e Macondo sono spazzati via da un «huracán bíblico» (CAS 492), da un vento «lleno de voces del pasado […] de suspiros de desengaños», concretizzazione della forza distruttiva di un passato colpevole, che non muore, e che richiama i mormorii e i sospiri che uccidono Juan Preciado.