Il primo canto del Paradiso

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Il primo canto del Paradiso
ARNALDO DI BENEDETTO
Università di Torino
RIASSUNTO:
Più che puntare sulle componenti allegoriche e dottrinali della
Commedia – peraltro non trascurate -, la presente «lettura» tende a mettere
in evidenza l’originalità della ricca e sfumata poesia dantesca. Il poeta non
si ripete mai, né mai ripete passivamente i suoi riferimenti letterari, e anche
questo aspetto del suo fare artistico conferma la sua straordinarietà.
Parole chiave: Dante, Inferno, Purgatorio, Paradiso, esordio
ABSTRACT:
Rather than point to the allegorical and doctrinal elements of the
Commedia -though without obviating them- this reading tends to make clear
the richness and definition of Dante's poetry. The poet never repeats
himself, nor does he passively repeat his literary references, and this aspect
of his art confirms his uniqueness.
Key words: Dante, Inferno, Purgatorio, Paradiso, exordium
1.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita…
Con questa immissione del lettore nel vivo della situazione ha
inizio l’Inferno, anzi la Commedia di Dante. Un protagonista
partecipe d’una condizione comune e che dice io, e il cui nome
coincidente con quello dello scrittore verrà fatto a circa due terzi
della favola, è presentato in una situazione che prelude al viaggio
attraverso i tre regni oltremondani. Se al primo canto della prima
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cantica occorre attribuire il valore di proemio generale del poema, va
detto che esso è svolto per intero in modi narrativi, contiene cioè la
motivazione narrativa dell’azione successiva. In esso si spiega, in
termini appunto diegetici, il perché del viaggio del personaggio
Dante nell’aldilà: il suo rischio di perdizione definitiva, da cui dovrà
riscattarsi. Si illustra inoltre, sommariamente, lo stato di corruzione
in cui versa l’umanità, e l’Italia in particolare, profetizzando per
bocca del personaggio Virgilio la venuta del veltro salvatore. In
séguito, Dante sarà per di più investito d’una missione. Tralascio in
questa sede i sovrasensi allegorici.
Siamo, com’è evidente, lontani dagli esordi o prologi epici, vòlti
ad anticipare un abstract, per dirla scherzosamente nell’odierno
gergo accademico, della favola dell’opera o di una sua parte rilevante
(la propositio del poema), e a catturare l’interesse del lettore,
disponendolo in un atteggiamento di rispettosa attesa, mediante
l’invocatio a un essere ultraterreno dal quale il poeta attende
ispirazione e aiuto - o che addirittura dovrà cantare direttamente,
essendo il poeta null’altro che il suo scriba o portavoce,
immeritevole di designazione diretta:
Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide,
rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei,
gettò in preda all’Ade molte vite gagliarde
d’eroi, ne fece il bottino dei cani,
di tutti gli uccelli - consiglio di Zeus si compiva da quando prima si divisero contendendo
l’Atride signore d’eroi e Achille glorioso.
[Traduz. di R. Calzecchi Onesti].
Dall’esordio dell’Iliade, così assoluto, passiamo a quello
dell’Odissea:
Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto vagò, dopo che
distrusse la rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città e
conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell’animo suo, per
acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni. Ma i compagni
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neanche così li salvò, pur volendo: con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole Iperione: ad essi egli tolse il dì
del ritorno. Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.
[Traduz. di G. Aurelio Privitera].
Qui la persona del poeta si fa espressamente visibile:
, a me
riferisca la musa (v. 1), si legge nell’originale. Pochi versi oltre (v.
10), la dea è invitata a raccontare e ì , a noi, cioè al poeta e ai suoi
uditori: l’indicazione del tramite è confermata. È all’incirca il tipo di
esordio ricalcato dall’ellenizzante Trissino nell’Italia liberata da’
Gotti:
Divino Apollo e voi celesti muse,
ch'avete in guardia i gloriosi fatti
e i bei pensier de le terrene menti,
piacciavi di cantar per la mia lingua,
come quel giusto, ch’ordinò le leggi,
tolse all’Italia il grave et aspro giogo
de li empi Gotti…
Nell’Eneide, invece, il poeta si presenta direttamente come
l’artefice dell’opera: lui «canta» le imprese di Enea, e la musa è
invocata perché gli fornisca il materiale, lo illumini sulle causae
degli avvenimenti:
Arma virumque cano, Troae qui primus ab oris
Italiam fato profugus Lavinaque venit
litora…
Canto le armi e l’uomo che per primo dalle terre di Troia
raggiunse esule l’Italia per volere del fato e le sponde lavinie,
molto per forza di dèi travagliato in terra e in mare, e per la
memore ira della crudele Giunone, e molto avendo sofferto in
guerra, pur di fondare la città, e introdurre nel Lazio i Penati, di
dove la stirpe latina, e i padri albani e le mura dell'alta Roma. O
Musa, dimmi le cause: per quali offese al suo nume, di cosa
dolendosi, la regina degli dei costrinse un uomo insigne per pietà a
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trascorrere tante sventure, ad imbattersi in tanti travagli?…
[Traduz. di L. Canali].
Virgilio fece scuola in Lucano («Bella per Emathios plus quam
civilia campos, / iusque datum sceleri canimus…») e tra i poeti del
nostro maturo e tardo Rinascimento: Ariosto («Le donne, i cavallier,
l’arme, gli amori, / le cortesie, l'audaci imprese io canto…»), che
però omette l’invocazione alla musa o alle muse; Tasso («Canto
l’arme pietose e ‘l capitano / che ‘l gran sepolcro liberò di
Cristo…»), più aderente al dettato di Virgilio. Tasso sintetizza nella
prima ottava la materia della Liberata, moderno «poema eroico»
ovvero epico, e nella seconda ripristina l'invocazione alla «Musa»:
una musa però ricondotta entro l'ortodossia cristiana (siamo negli
anni della Controriforma e degli scrupoli ad essa legati), e
usualmente identificata in Urania, intesa come celeste intelligenza, o
addirittura nella Vergine:
O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori…
Come scriveva Quintiliano a proposito dei prologhi dei poemi
omerici, modelli ai poeti successivi, «con l’invocazione delle divinità
che si credeva avessero potere sui poeti [Omero] si rende benevolo
l’ascoltatore; con la presentazione della grandiosità dei fatti ne fissa
l’interesse; e con la breve esposizione della trama lo rende ben
disposto a seguirlo» (X, i, 48). «Rendere l’ascoltatore benevolo e
attento e docile» (benivolum et attentum et docilem reddere […]
auditorem): tale la funzione del prologo secondo le parole di Dante
stesso nella lettera di dedica della terza cantica a Cangrande (posto
che sia sua),1 con richiamo alla Nova rethorica (sic), cioè al De
inventione di Cicerone (I, 20).
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Nel secondo canto dell’Inferno, preludio non più generale, come
il primo, ma circoscritto alla cantica, dopo un breve avvio narrativo
(vv. 1-6), Dante finalmente si rifà ai modi epici consueti nell’antica
letteratura (vv. 7-9), ad essi quindi collegando la propria comedìa,
genere narrativo, come allora si riteneva: O muse, o alto ingegno, or
m’aiutate…
L’invocazione alle muse era, secondo E. R. Curtius, un elemento
non ovvio nella cultura medievale, pur se non impraticato; lo
studioso tedesco vi vedeva un aspetto della libertà mentale di Dante:
«Il dubbio meschino: “sarà consentito a un poeta cristiano fare
appello alle muse?”, non può neanche sfiorarlo», scriveva nel suo
libro più celebre. È anche ovvio che per il poeta fiorentino parole
come muse, Apollo, o Minerva, detenevano un valore simbolico e nel
contempo rinviavano a illustri e per lui esemplari convenzioni
letterarie.
Alle muse Dante associa l’ingegno, anzi l’alto ingegno, poi
menzionato anche all’inizio del Purgatorio, ossia l’animus ispiratore
del canto menzionato da Ovidio ad apertura delle Metamorfosi o la
mens congesta del De raptu Proserpinae (I, v. 4) di Claudiano, e la
mente, qui da intendere, avvertono i commentatori, come ‘memoria’:
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi…
Ancor più conforme ai dettami dell’epica antica è l’apertura della
seconda cantica: alla propositio, che occupa i primi sei versi ed
espone il suo argomento, e dove torna la menzione dell'ingegno,
segue l’invocazione alle muse, che occupa altri sei versi, e ha quindi
una maggiore ampiezza dell’invocatio
del secondo canto
dell’Inferno:
Per correr migliori acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
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Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dante non si ripete, e un’impostazione in parte diversa
caratterizza l’esordio del Paradiso. Rispetto ai tre versi (vv. 7-9) del
secondo canto dell’Inferno, e ai dodici versi del prologus del
Purgatorio, abbiamo nella terza cantica un ulteriore ampliamento. Il
prologo al Paradiso si distende per ben trentasei versi; è Dante
stesso, nella lettera a Cangrande, a indicarne per primo la consistenza
e i confini. La tertia cantica que «Paradisus» dicitur si divide
essenzialmente, avverte, in duas partes: il prologus, e la pars
executiva. Quest’ultima inizia con le parole: «Surgit mortalibus per
diversas fauces», versione d’autore del verso 37: «Sorge ai mortali
per diverse foci». Divisione in parti assai diseguali, e dove la
seconda comprende la quasi totalità della cantica.
Il poeta procede poi, nella stessa lettera, all'indicazione di altre
distinzioni, interne al prologo: esso è a sua volta divisibile in partes
duas: nella prima si anticipa, secondo l’uso, quid dicendum sit, cioè
l’argomento; la seconda incipit ibi: «O bone Apollo, ad ultimun
laborem», comprende cioè l'invocatio (vv. 13-35):
O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso…
Comedìa o poema sacro, l’opera di Dante ambisce a èsiti epici,
come dichiara anche l’invocazione del primo canto del Purgatorio a
Calliope, musa della poesia epica già invocata da Virgilio nel nono
libro dell'Eneide. Il richiamo a Enea, nel secondo canto dell’Inferno,
vale anche come significativo riferimento a un'esemplarità letteraria,
non smentita nel corso del racconto e confermata dal tessuto
linguistico stesso. Come si è osservato, proprio il poema virgiliano
offrì, con l’episodio della discesa del protagonista all’Averno, il
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modello più prossimo alla Commedia dantesca. I dannati del suo
Inferno, gli asceti espianti del suo Purgatorio e i beati del suo
Paradiso sono individuati come non accade nelle figurazioni
letterarie e pittoriche medievali dell'aldilà, e come accade invece per
le ombre del sesto libro dell'Eneide. Individuati, in Dante, al punto
che il tratto prevalente di alcuni di loro addirittura non coincide con
la condizione morale di cui sono exempla: di Brunetto Latini resta
l'immagine del maestro e della gratitudine serbatagli da Dante, ben
più che quella del sodomita; di Ulisse, quella del magnanimo audace
fino all'eccesso, più che quella del consigliere fraudolento; di Casella
vale la perizia dell'artista. E lo stesso protagonista, il viator
dell'aldilà, non è unilateralmente riducibile a un esemplare e generico
Ognuno: egli è anzitutto Dante, con la sua storia personale e il suo
individuale destino.
Ma non solo il nuovo esordio è più lungo dei due precedenti; in
esso non si invocano più unicamente le muse, come in quelli
dell'Inferno e del Purgatorio, ma anche Apollo stesso, dio della
poesia (se ne ricorderà, come s'è visto, Trissino), secondo la
convenzione accolta anche dal cristiano ma letteratissimo Dante non credo che, come voleva già Guido Mazzoni, in quanto Apollosole, il dio stia qui come figura o altro nome del vero Dio, pur
riconoscendo che nella Commedia Dio è chiamato, senza reticenze,
anche con nomi pagani (Giove, Eliòs). L'Ottimo Commento suppose
a sua volta che Appollo significasse qui la sapienza; ma non
sottovaluterei il compiacimento dantesco di rievocare le favole
antiche ammirate nei poeti latini.
E a rincalzo, nel canto successivo, si afferma:
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
L’invocazione ad Apollo non era frequente negli esordi dell'epica
antica: si possono ricordare le Argonautiche d'Apollonio Rodio, dove
il richiamo al dio ha una particolare motivazione; e, con piena
pertinenza al presente discorso, l’Achilleis di Stazio, nota a Dante,
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che ne riecheggia un luogo in questo stesso canto (v. 29), e ammirata
nel Medioevo, nella quale, come in Dante e in Trissino, si invocano
la diva, cioè la musa, e Febo.
A buon conto, comedìa in quanto scritto in volgare e a lieto fine,
il poema dantesco aspira in realtà a confrontarsi con le ammirate
tragedìe degli antichi.
2. I primi versi del Paradiso propongono, o meglio impongono un
vertiginoso sguardo intellettuale su un universo pre-galileiano,
tomisticamente concepito come un tutto penetrato della presenza
divina e provvidenzialmente ordinato:
La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
È un’affermazione impersonale, «apodittica» (U. Dotti), risonante
- ricorda la stessa lettera a Cangrande - di armonici sia biblici sia
della grande poesia pagana (Lucano), e avvertita come verità
assoluta. È una constatazione, e insieme una celebrazione, poi ripresa
e illustrata da Beatrice nello stesso canto, e variamente ripetuta e
approfondita nella cantica; e che, collegandosi anche verbalmente al
finale del poema («l’amor che move il sole e l’altre stelle»),
rinchiude, come è stato detto (G. Reggio), «circolarmente il Paradiso
nel nome di Dio», designato per via di perifrasi. Né è questo l'unico
punto di richiamo tra i due canti: basti qui indicare come nel XXXIII
finalmente si plachi (o raggiunga il suo culmine, per poi placarsi, a
seconda delle interpretazioni) il disire nominato nella terza terzina
del primo canto, in quell'Empireo menzionato già nel quarto verso (il
«ciel che più de la sua luce prende»):
E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, sì com'io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.2
Nella prima terzina del Paradiso non compare traccia dell'io del
poeta; non così nei primissimi versi delle altre due cantiche: «Nel
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mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva
oscura…»; «Per correr migliori acque alza le vele / omai la navicella
del mio ingegno…» Il pronome io fa la sua apparizione nella seconda
terzina: Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io…
Appunto l'esperienza d'eccezione compiuta dal personaggio
motiva l'uso di io nel poema. La giustificazione addotta nel Convivio
(I, 2) vale anche per la Commedia. Due cagioni, vi si legge,
soprattutto rendono plausibile il parlare di sé: l'esigenza di
difendersi, anche preventivamente, e qui l'esempio principe era
fornito da Boezio; e l'utilità che può seguirne ad altri «per via di
dottrina», come si vede nelle Confessioni di Agostino. Né l'una né
l'altra ragione mancano al racconto del viaggio oltremondano di
Dante. «Io non Enëa, io non Paulo sono…»; ma è evidente che il
protagonista della Commedia si propone, a dispetto di quella
protesta, appunto come un nuovo Enea e soprattutto un nuovo Paolo:
«di Silvïo il parente» e il «Vas d'elezïone» poterono accedere
all'aldilà in virtù delle altissime missioni di cui erano investiti: porre
le condizioni alla fondazione dell'«alma Roma», e trarre conferma e
sostegno a quella fede senza la quale è impossibile la salvezza eterna.
La missione di Dante rientra in quest'ultimo àmbito, ma contiene in
più un forte messaggio di attuale e urgente profezia politica,
riguardante il bene mondano e non solo quello ultraterreno, ad esso
intrecciato. Un accenno alla degradazione della società terrena è
presente anche in questo canto, là dove nel prologo si stigmatizzano
le umane voglie ormai distolte dall'aspirazione alla gloria.
Come un nuovo Enea si pone Dante nello stesso Paradiso,
nell'episodio chiave del poema, allorché Cacciaguida accorre a lui e
festosamente lo accoglie (XV, vv. 25-27):
Sì pïa l'ombra d'Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s'accorse.
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E Paolo, archetipo del misticismo cristiano, il quale narra d'essere
stato rapito al «terzo cielo», è persino riecheggiato all'inizio del
Paradiso (I, vv. 73-75):
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ‘l ciel governi,
tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti
(«sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio, Deus scit», II Cor.,
XII, 2 e 3). Forse un'allusione paolina conviene cogliere inoltre nella
metafora del vaso («fammi del tuo valor sì fatto vaso») del
medesimo canto; certo anzitutto paolina è anche la caratteristica e
ritornante sottolineatura dell'ineffabilità dell'esperienza paradisiaca,
dell'«impotenza della forma», come chiosava De Sanctis, che
«produce un sublime negativo». «Raptus est in Paradisum, et audivit
arcana verba», scriveva l'apostolo, «quae non licet homini loqui»
(ivi, XII, 4); e Dante:
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
È notevole il commento dell’epistola a Cangrande:
E dopo aver detto con la sua perifrasi d’essere stato in quel luogo
di Paradiso, [Dante] prosegue dicendo d'aver visto alcune cose che
non può ridire chi discende. E adduce la ragione dicendo «che
l'intelletto si profonda tanto» nello stesso «suo disire», che è Dio,
«che la memoria dietro non può ire». E per capire ciò è da sapere che
l'intelletto umano in questa vita, per la connaturalità e affinità che ha
alla sostanza intellettuale separata, quando s'eleva, s'eleva tanto, che
dopo il ritorno manca la memoria per aver trasceso la facoltà umana.
E questo ci è comunicato per l'Apostolo che parla ai Corinzi, quando
dice: «So un uomo, non so se col corpo o senza corpo, lo sa Iddio,
rapito fino al terzo cielo, e vide gli arcani di Dio, che non è lecito
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all'uomo di riferire» [Et hoc insinuatur nobis per Apostolum ad
Corinthios loquentem, ubi dicit: «Scio hominem, sive in corpore sive
extra corpus nescio, Deus scit, raptum usque ad tertium celum, et
vidit arcana Dei, que non licet homini loqui»]. [Trad. A. Del Monte].
Lo stesso Dante cita qui l’apostolo Paolo, con qualche libertà:
vidit arcana Dei, in particolare, è certo più aderente al racconto della
Commedia di audivit arcana verba. A rincalzo, il poeta aggiunge
riferimenti a Matteo, Ezechiele, Riccardo di San Vittore, Bernardo e
Agostino. Una traccia imperfetta della realtà conosciuta è quella che
il poeta può offrire al suo lettore. Proprio l’altezza inconcepibile
della materia della terza cantica e l’esigenza di un’inconsueta forza
espressiva, la quale tradisca il meno possibile quell’inesprimibile
materia, giustificano l'altisonanza dell'esordio. Il rischio per Dante di
cadere nella presunzione, o piuttosto, con termine forse più proprio al
linguaggio dottrinale del suo tempo, nella superbia (in quanto amor
proprie excellentie, per dirla con parole di Tommaso) è impellente;
di qui l’ammonimento implicito alla rievocazione del mito ovidiano
di Marsia: brutale punizione di un musico troppo superbo della
propria perizia, come superbe erano state le Pieridi trasformate in
gazze e ricordate nel proemio del Purgatorio, le quali avevano osato
cimentarsi con le nove muse con un canto per di più blasfemo,
un’esaltazione della rivolta dei Giganti - come racconta Ovidio nelle
Metamorfosi e nei Fasti. La «coscienza di un’impresa totalmente
nuova e senza pari», di una «novità assoluta» (J. Risset), è subito
viva ed evidente, e dichiarata: «L’acqua ch’io prendo già mai non si
corse», si legge nel secondo canto della terza cantica, con ritorno del
caratteristico, come lo chiamava Contini, «topos del nuovo». Il poeta
non esita a mettere in guardia, all'inizio di quel canto, i lettori dal
proseguire con leggerezza una lettura troppo ardua e inconsueta;
come scriveva Ezra Pound, essi sono «avviati e messi in guardia
insieme». Esortazione, che ha fatto la delizia degli interpreti
esoteristi di Dante - e forse leggibile come un invito, più che ad
abbandonare la lettura, a proseguirla con maggiore impegno.
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3. Col v. 37 riprende il racconto, già interrotto col finire della
seconda cantica; e - seguendo la Chiavacci Leonardi - si distende in
tre momenti: l'ampia indicazione temporale; la presentazione della
situazione iniziale e suo sviluppo; i dubbi di Dante e gli schiarimenti
di Beatrice che collocano l'azione entro un quadro universale. Il
narratore ricorda, una volta di più, il tempo propizio, la «dolce
stagione» del primo canto dell'Inferno, quella dell’equinozio di
primavera, tempo naturale e simbolico di rinnovamento, tanto più
avvalorato dal suo essere tempo pasquale:
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Anche le tre croci, ora aggiunge, formate dall'orizzonte che
s’interseca con l’Equatore, il Coluro e l’Eclittica nel punto dove
sorge il sole, alludono al carattere propiziatorio della stagione: la
croce commemora una morte che preluse a una rinascita. E i cerchi
simboleggiano forse l’eternità.3
Con la stagione, l’ora: ci viene ricordato che è mezzogiorno,
come già era stato puntualizzato alla fine del Purgatorio. La valenza
simbolica dell’ora meridiana in Dante, come dell'alba, della sera e
della notte, non richiede lunghi indugi dimostrativi; e qui si può solo
accennare come esse siano, per dir così, simboli archetipici, presenti
cioè non solo nella cultura cristiana. Nel primo canto dell’Inferno è
presentato il personaggio Dante che, dopo aver errato nella notte per
la selva, vede il sorgere del sole: segno d’una speranza e d'una
promessa che non verranno tradite; il viaggio nel regno infernale
inizia però sul far della notte (Inf., II, vv. 1-6). Il mezzo giro in
direzione della destra, nel quale consiste l’itinerario ascendente del
viator nel Purgatorio, è iniziato all’alba della domenica di Pasqua: in
quell’ora si è compiuta la sua seconda nascita, nel passaggio
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dall’Inferno al Purgatorio; all'alba del mercoledì successivo egli è
penetrato nel Paradiso terrestre; e a mezzogiorno avviene il suo
distacco da esso e l'ingresso nel Paradiso. Il mezzogiorno, si legge
nel Convivio (IV, 23), è «lo colmo dello die»; era quasi «l’ora sesta
quando [Cristo] morio»: «la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più
nobile di tutto lo die e la più virtuosa». La metamorfosi di Dante, la
sua théosis o deificatio, il suo trasumanare (Tommaso parlava di
deiformitas;4 Bonaventura, nell’Itinerarium, di transformare in
Christum), che è una morte e una rinascita, si compie nell’ora della
morte redentrince di Cristo – anch’essa una morte/rinascita. Ancora
una volta la redenzione del personaggio (Dante e Ognuno) è messa in
relazione con la vicenda del sacrificio di Cristo, a cui già alludeva la
posizione del Purgatorio, posto da Dante agli antipodi di
Gerusalemme, anzi del Calvario.
Simboli a parte, è questa l’ultima indicazione temporale intessuta
alla situazione stessa del viaggio dantesco. Il Paradiso, come
l’Inferno, è un luogo senza tempo; i richiami temporali avvengono,
nella prima cantica (a parte i due canti proemiali), come richiami
esterni al luogo e alla situazione del racconto. Non così nel
Purgatorio, concepito da Dante come luogo di terrestre idealità, dove
lo scorrere del tempo ha una viva presenza e incidenza nello
svolgimento dell'azione. Il Purgatorio è sede di transito, non di
collocazione definitiva; è il luogo della partecipazione attiva, della
volontà orientata, della speranza e dell’attesa: in esso le anime, dice
Virgilio a Dante, «speran di venire, / quando che sia, alle beate
genti» (Inf., I, vv. 119-20). Per motivi diversi, né all'Inferno né in
Paradiso si spera più. La loro dimensione è fuori del tempo; non così
quella del Purgatorio, le cui pene sono temporali: «ignis purgatorius
est […] temporalis quantum ad effectum purgationis», spiega
Tommaso nella Summa theologica (Appendix, Articuli duo, 2), e lo
stesso Dante parla di «temporal foco», opposto a quello etterno
dell'Inferno (Purg., XXVII, v. 127; nonché Inf., I, v. 114, e III, vv. 2,
8, 29, 87).
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4. E ancora nel Purgatorio, o meglio sull’estrema propaggine della
montagna, nel Paradiso terrestre, si trovano i due personaggi
protagonisti del primo canto del Paradiso. Ma non solo è omesso,
alla ripresa della narrazione, ogni spunto paesaggistico; ora non si
menzionano più altre presenze in forma umana: è scomparsa
Matelda, nulla si sa di Stazio, già avviato con Dante, nell'ora
meridiana, alla riva dell’Eunoè per l’ultimo rito purificatore e
rigeneratore (Purg., XXXIII, vv. 134-35). Rispetto alla cantica
precedente - e agli stessi canti del Paradiso terrestre, che pure
costituiscono un lontano preludio al terzo regno -, il mutamento
dell’ambiente descritto è radicale, e Dante e Beatrice sono soli.
Quando l’azione inizia, lo sguardo di Beatrice è già rivolto verso
l’alto, al sole; Dante guarda prima a lei e poi anch’egli, d’istinto, al
sole. L’idillico paesaggio del Paradiso terrestre, in cui chi abbia letto
gli ultimi canti del Purgatorio li sa immersi, è già escluso dalla vista
dei due personaggi, e dal racconto. Con la sua nuova guida, il viator,
il pellegrino dell’aldilà (il termine compare proprio in un paragone
del I del Paradiso)5 può compiere il trapasso da un mondo all’altro,
da una condizione all'altra, e innalzarsi alla sfera del fuoco e
attraversarla. La narrazione procede per due fasi: prima Beatrice e
poi anche Dante fissano il sole dal Paradiso terrestre;
successivamente Dante torna a guardare l'immagine della donna,
specchio di trascendenza, e ha inizio allora il suo rapimento mistico e
l’ascesa alla sfera del fuoco, nel corso della quale Beatrice risponde
ai dubbi del compagno-discepolo. Il momento del distacco da terra è
alluso, ma non rappresentato; Dante si concentra sulla
trasformazione interiore. In séguito, avvertirà i progressi della sua
ascesa dall'aumentata luminosità, e dalla bellezza e dal riso via via
più intensi, della sua guida. L’azione del canto si apre con Beatrice
«rivolta» in alto a sinistra e intenta a «riguardar nel sole», e
circolarmente si chiude col personaggio ritratto nell’identico
atteggiamento, del quale però ora cogliamo la motivazione: Quinci
rivolse inver’ lo cielo il viso.
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5. Già nel primo canto assistiamo all’imporsi di quella poesia della
luce clamorosamente caratteristica della terza cantica. Lo stesso
significato della sua prima parola, gloria («La gloria di colui che
tutto move»), implica anche quello - spiega Dante stesso nell’epistola
a Cangrande - di divinum lumen, di divinus radius. La gloria di Dio,
si dice inoltre (v. 2), risplende, in misura maggiore e minore, nelle
cose. L’Empireo è designato, nel quarto verso del canto, come il
«ciel che più de la sua luce prende». È il preludio al dilagare della
luce e del colore, e alla loro varia fenomenologia, che domineranno
in quella che è stata chiamata «la cantica della luce» (F. Flora).
Con muta intesa, veicolata dal senso della vista, Beatrice orienta
lo sguardo di Dante, fatto suo discepolo e quasi figlio, in alto, verso
il sole. La funzione carismatica di mediatrice e d'iniziatrice assegnata
a Beatrice è immediatamente evidente, al di qua - o al di là - dei
sovrasensi che sulla sua immagine femminile si addensano
(Teologia, Grazia, Verità rivelata, specchio di Cristo).
«Parve giorno a giorno / essere aggiunto», commenta il narratore.
Il personaggio ancora non ne ha coscienza, ma sta salendo; ha
abbandonato il Paradiso terrestre per il vero Paradiso. È l’avvio della
dimensione verticale caratteristica anch’essa della terza cantica. Il
viaggio nel mondo celeste è un'ascesa senza sforzo, immateriale,
perché Dante condivide ormai la condizione dei beati o è assai
prossimo ad essa. Contemplando Beatrice, sente compiersi in sé un
oltrepassamento che è la deificatio dell'esperienza mistica,
inesprimibile per definizione («significar per verba / non si potria»),
e attribuita alle anime beate. La stessa forza divina artefice della
metamorfosi e dell’innalzamento di Dante è designata come lume:
«col tuo lume mi levasti». E il ritorno dello sguardo di Dante al cielo
lo immerge in una distesa indistinta di luce:
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
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Tenzone nº 7
2006
Nel Paradiso gli unici sensi attivi sono la vista e, in misura
minore, l’udito: i due privilegiati fin dall’antichità come i più
spirituali. (Non mi convince l’assoluto rilievo assegnato invece al
gusto da qualche dotto studioso). Il linguaggio della «metafisica della
luce» adottato da Dante nella Commedia – d’origine neoplatonica e
agostiniana, com’è noto, ma ben presente anche nel linguaggio
vetero e neotestamentario, in quello tomistico e nella stessa liturgia
cattolica, dove Dio è detto sol salutis (e si pensi alla convenzione del
fondo dorato, allusivo all’infinito, nella pittura e nei mosaici
medievali) -, come anche la concezione pitagorica e platonica
dell’armonia delle sfere (mediata dal Somnium Scipionis), pur già
rifiutata, come Dante sapeva, da Aristotele e dai suoi seguaci antichi
e medievali, sono i mezzi espressivi a cui anch’egli ricorre per dire
l’indicibile: il bene della beatitudine.6 Ovunque esista un tabù o
un’insufficienza linguistica, ogni scrittore di razza trova gli strumenti
per aggirare l’ostacolo, e la difficoltà si trasforma per lui in stimolo
inventivo. Circa l’armonia che Dio «tempera e discerne» (la musica
mundana del De musica del platonico Boezio), la sua presenza nel
beato regno prosegue il tema della musica avviato nel secondo canto
del Purgatorio. Lì il canto profano di Casella era condannato come
sopravvivenza di distraente affetto terreno, e nella seconda cantica,
pur echeggiante di suoni, non si odono che canti liturgici. Il canto
umano si fa udire anche nel Paradiso, ma quella che domina è
l’armonia sovrumana delle sfere.
Luce sta anche per «bontà, sapienza e virtù divine», avverte
Dante stesso nell’epistola a Cangrande:
Patet ergo quomodo ratio manifestat divinum lumen, id est
divinam bonitatem, sapientiam et virtutem, resplendere ubique.
La contrapposizione di tenebre e luce attraversa l'intero poema: la
tenebra occupa l'Inferno, mentre nella luce diurna si compie l'opera
di purificazione del Purgatorio, sospesa invece di notte.7 Ma ben
altra è la luce, non più terrena, contemplata da Dante nel Paradiso:
una luce rappresentata con incredibile varietà di risorse espressive.
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Arnaldo DI BENEDETTO
Il primo canto del Paradiso
Proprio le immagini a cui ricorre Dante ci avvicinano il mondo del
suo Paradiso, altrimenti a noi comprensibile, oggi, solo per un
adeguamento intellettivo. (Borges sostenne addirittura che «alcuni
punti del Paradiso che per il poeta furono luce […] per noi sono
ombra»).
I due dubbi manifestati dal viator: quale sia la causa dell'armonia
che ora risuona, e della grande luminosità, e perché mai il suo corpo
pesante trascenda l’aria e il fuoco, «corpi levi», inoltrano il lettore in
quella che sarà una caratteristica componente della poesia della terza
cantica, ma già presente nelle altre due: la poesia dell’apprendere e
dell’insegnare, quella «poesia didascalica» o «dottrinale», le cui
particolari intonazioni nella Commedia furono bene illustrate da
Croce, che per primo la valorizzò in quanto poesia e al di là del
contenuto dottrinale, e da Umberto Bosco. Dante non ha ancora
compreso che sta salendo, e che, dopo l’avvenuta purificazione, si è
distaccato dalla terra, perché ormai non può che salire. L’ascesa sul
monte del Purgatorio implicava ancora una volontà e uno sforzo (via
via minore), che ora sarebbero superflui. Dante sale perché una forza
lo attira, nulla più inframettendosi tra lui ed essa, tra lui e l’oggetto
del suo desiderio, che è il desiderio di ogni spirito moralmente puro.
6. Beatrice risponde sollecita, come mai era stata in vita; Pound
parlò della sua gentilezza. Addirittura ella previene la formulazione
della prima domanda, e corregge sorridendo il «falso imaginar» di
Dante; ha con lui il «sembiante» affettuoso e preoccupato di una
madre che si chini «sovra figlio deliro», secondo un atteggiamento
già annunciato nel XXX del Purgatorio («Così la madre al figlio par
superba, / com'ella parve a me», con quel che segue). Questo suo
nuovo ruolo di materna superiorità volle sottolineare, con
procedimento arcaizzante, Sandro Botticelli nei propri disegni,
creando una Beatrice di proporzioni sovrastanti il discepolo. Ma
convien cogliere, in paragoni come quelli, anche i riflessi di quella
poesia degli «affetti familiari» individuata e inseguita attraverso la
Commedia dal già ricordato Bosco in due bei saggi. Essa risuona
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Tenzone nº 7
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persino nell’Empireo, nel cielo incorporeo che è pura e immateriale
«luce intellettüal, piena d’amore» (XXX, vv. 82-84):
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua…
E anche nell’ultimo canto, all’interno della sezione dedicata al
mistero dell’unità e trinità di Dio, il poeta usò un termine di
confronto quale il «fante / che bagni ancor la lingua alla mammella».
Per paragoni come questi, si potrà ricordare quella che Rudolf Otto e
Erich Auerbach chiamavano la creaturalità. Si potrà ricordare inoltre
che la Commedia fu scritta in un’età storica che ignorava la ben più
rigida partizione degli stili caratteristica del classicismo del pieno
Rinascimento e di altri classicismi successivi.
Thomas Carlyle menzionò, da parte sua, la tenerezza come una
delle componenti essenziali della poesia della Commedia. Con
questo richiamo al saggista britannico, così poco ideologico e
dottrinale, mi piace chiudere questa conversazione.
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Arnaldo DI BENEDETTO
Il primo canto del Paradiso
NOTE
1 Sulla questione dell’attribuibilità della lettera, vd. l’esauriente sintesi di E.
MALATO, Dante, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. I,
Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 907-13 e 941-44.
2 Par., XXXIII, vv. 46-48.
3 Secondo gli antichi commenti, il v. 39 («che quattro cerchi giugne con tre croci»)
conterrebbe altri simboli: delle quattro virtù cardinali, e delle tre teologali. Qualche
eco di questa interpretazione si coglie tra le antiche miniature del canto. Essa fu
intelligentemente ripresa da G. Mazzoni: ricordate le quattro stelle presenti all'inizio
del Purgatorio (le virtù cardinali), così lo studioso continuava: «Ma alla vita
contemplativa occorre altro e più; occorre che alle quattro virtù cardinali si
congiungano le tre teologali, fede, speranza, carità: e come là, nel Purgatorio, si ha,
sul principio, il simbolo delle quattro stelle, qui, nel Paradiso, si ha, sul principio, il
simbolo dei quattro cerchi con le tre croci» (Il canto I del «Paradiso», in Letture
dantesche, a cura di G. Getto, vol. III, Firenze, Sansoni, 1966 [2ª ristampa], p.
1358).
4 Summa theol., I, 12, 6; in I, 12, 5: «deiformes, id est, Deo similes». Di qui
deiforme di Par., II, v. 20.
5 Tale era l’interpretazione di Francesco di Bartolo da Buti del v. 51, seguita da
molti moderni.
6 Quanti sostengono che il poema sia il racconto d’una reale visione dell’autore
dovrebbero accettare l’attendibilità dell’intera narrazione, e quindi anche che Dante
credesse davvero nella harmonia mundi, così autorevolmente confutata (anche da
Tommaso). La risposta di Beatrice al quesito sulla «novità del suono e ‘l grande
lume» è in certo senso evasiva; si limita a far notare l’ascensione in atto: Dante non
è più sulla terra, ed è quindi ovvio (sottintende) che percepisca la musica delle sfere
e una più intensa luminosità (vv. 91-93). Pur trattandosi di materia così controversa,
non fornisce una vera spiegazione.
7 S’è indicato lo spunto dell’invenzione dantesca nel vangelo di Giovanni, XII, 25:
«Ambulate dum lucem habetis, ut non vos tenebrae comprehendant: et qui ambulat
in tenebris, nescit quo vadat».
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