Subido por Benjamin Oldani

La metalepsi e la metafora nuziale nel Vangelo di Giovanni cc. 1-4

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PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA
Facoltà di Teologia Biblica
La metalepsi e la metafora nuziale
in Giovanni 1–4
Corso: TBN156
Professore: LUCA PEDROLI
Studente: BENJAMIN OLDANI
Matricola: 161591
INTRODUZIONE
La presente indagine propone di esplorare in Gv 1–4 la presenza di rimandi implicati
sul motivo della metalepsi tramite la metafora nuziale. La metalepsi comprende un
artificio letterario narrativo che crea un incrocio di piani in cui si intromettono certi
elementi che non fanno parte della narrazione, fungendosi con gli eventi dei personaggi
della scena. Cioè, l’estrinseco e l’intrinseco vengono a confondersi. L’esito della
metalepsi, a sua volta, prende e trasforma la consapevolezza dei fatti, svelando in essi un
evento epifanico di senso e di verità, talvolta non linearmente appresa dal lettore. Si
assomiglia sotto quest’aspetto l’antica definizione della figura retorica come «una
metonimia dentro di una metonimia»1 che lascia un’ellisse da riempire con la propria
ricostruzione. Qui, però, non interessa tanto una figura di parola piuttosto che «una
correlazione improvvisa tra due contesti più estesi»2. Infatti, i personaggi del IV Vangelo
sono conoscitori delle scritture e della storia d’Israele. Questi due elementi allora
compongono lo sfondo di un ampio contesto che continuamente si intromette nella
narrazione delle vicende prossime ai dialoghi, non soltanto tramite delle forme di
citazione, allusione, metafora o eco, ma anche come metalepsi. Perciò, in grosso modo,
il verbo ἀναγγέλλω trova una corrispondenza interna al verbo εὐαγγελλω (Cf. Gv 4,25).
La valenza spirituale della metalepsi come forza ricapitolante si trova impiegata dal
πνευματικον εὐαγγελιον3 in più versi, e non casualmente si lega alla presenza delle figure
femminili sul motivo della metafora nuziale. Questa sin dal prologo viene abbinata alla
teologia della creazione e alla sua scenografia che rimanda ai primi capitoli della Genesi.
Rivisitando le origini, si può apprezzare la voce dello Sposo che elogia la profonda
complementarietà di “lei” che “mi corrisponde”; la forma paradigmatica della Sposa
(Gn 2,23-25)4. Poco dopo, una presa di coscienza sul medesimo fatto d’intimità viene
descritto con il verbo ἀναγγέλλω (Gn 3,11). L’uso giovanneo della metalepsi, pur
indicando sempre una consapevolezza improvvisamente raggiunta che rilancia il
significato della storia, presenta piuttosto una scoperta da contrappunto che capovolge la
sventura originaria.
Il tema di rovesciamento si offre al lettore in chiave di speranza e riconciliazione
Messianica nell’incontro personale con Gesù mediante la rilettura dei propri fatti con le
scritture. La metalepsi porta alla testimonia dell’intima verità di Gesù che “mi
corrisponde” nella fede, perché lui fa coincidere tutta la storia di salvezza con la mia
storia, ispirando delle confessioni come: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il
peccato del mondo!» oppure «tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo»
(Gv 1,29; 11,27). Questo viene scandito da Giovanni nella presentazione della figura
femminile integrata dalla metafora nuziale nei suoi diversi tratti di corrispondenza umana;
sia da madre, sposa (amante) o sorella5. Infine, una tale rilettura presume l’azione dello
Spirito Santo che irrompe e fa capire l’intima verità di Gesù, un ruolo indicato
dall’insistenza sul verbo ἀναγγέλλω in Gv 16,13-15. Su questo motivo della Sposa che
apprende il significato di essere conosciuta dallo Sposo, si rilancia l’annuncio dell’arrivo
del Messia, per cui il tessuto narrativo va intrecciato da scene di fede e di testimonianza.
1
E.W. BULLINGER, Figures of Speech Used in the Bible, London 1898, 609-612.
R.B. HAYS, Echoes of Scripture in the Letters of Paul, London 1989, 38.
3
EUSEBIO DI CESAREA, Hist. eccl. vi.14.7.
4
L.A. SCHÖKEL, Symbolos matrimoniales en la biblia, EVD Navarra 1999, 40.
5
M. NICOLACI, «Le donne del IV Vangelo: volti concreti e trasparenza della Sposa dell’Agnello», 21.
2
1
1. Dover prendere la Sposa (Gv 1,19-51)
Le prime scene narrate dal IV Vangelo mettono in luce la testimonianza di Giovanni
Battista e la fede di due discepoli suoi. Loro passano da lui ad entrare dove dimora Gesù
per rimanere con lui [παρ᾽αὐτῷ ἔμειναν] (Gv 1,39). Questo incipit, ormai carico della
metafora nuziale, presenta sin dall’inizio della narrazione un indizio della figura della
Sposa. Dall’altra parte, la testimonianza del precursore richiama i riti del hališà e del
šošbîn, due figure importanti nella realizzazione dei riti nuziali in Israele. Il primo
appartiene alla pratica del levirato (Cf. Ruth; Tobias; Dt 25,5-10) che stabilisce il diritto
del “prossimo in fila”, indicando il dovere di prendere in sposa la vedova del fratello. Il
che si fa sciogliendo e levando uno dei sandali6. Ciò sarebbe lo sfondo inteso
da Gv 1,15.27.30. L’altro rito è quello dell’«amico dello sposo» che figura nel bagno di
rituale purificazione della sposa previa alle nozze; un fatto a cui si allude il suo battezzare
con acqua (Gv 1,25-34). Questi versetti presentano come il šošbîn, dopo di prelevare la
sposa, la consegna allo sposo che la prende con sé nella stanza nuziale (Cf. Gv 1,39).
Il Battista articola il suo discorso in tal modo di evidenziare la sovrapposizione di un
significato ricapitolante in questi riti al suo affare nel fiume (Gv 1,28; 3;29-31). Così, il
suo contemplare [Τεθέαμαι al pf.] (Gv 1,32) si trova incastrato fra una doppia insistenza:
«non lo conoscevo, ma sono venuto», «non lo conoscevo, ma è proprio colui che mi ha
inviato», avvisando il lettore all’evento di una metalepsi, presumibilmente avvenuto nel
battesimo di Gesù. Risulta forse strana l’ellisse della narrazione nella forma comune ai
sinottici? La scelta sarebbe stata motivata proprio dal carico metaforico nuziale che il
battessimo qui porta perché corrisposta alla preparazione della figura della Sposa. Così,
il battesimo di Gesù deve essere raccontato in tal modo di non far confondere lo Sposo
con la Sposa. Anche se, secondo il gioco nuziale: «i due saranno un’unica carne»
(Gn 2,24), non è tutto consumato sin dall’inizio.
Qui emergono gli indizi di una nuova creazione che inaugura il regno messianico col
nuovo Adamo (Sap 7.21-22; 8,1-2), che fa coincidere il battessimo con la richiesta di
sposalizio con la sapienza (Sap 8,21-9,1-4), che attende la sua discesa dall’alto (Sap 9,712) come portento di salvezza (Sap 9,17-18). Perciò, il rilevo è messo sul segno dello
Spirito «discendendo come colomba» e «rimanendo» su Gesù, come evento di
«manifestazione a Israele» che il Battista ricollega con l’intima verità di Gesù: «Ecco
agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» perché «è lui che battezza nello Spirito
Santo» e per tanto, «questi è il Figlio di Dio», colui che ha il diritto di prendere con sé la
Sposa. Da una parte, questo incrocio di piani nel battesimo di Gesù raffigura la discesa
della Sposa paradigmatica come colomba di lassù (Cant 5,2; 6,9-10). Dall’altra parte, il
resoconto che Gesù battezza più persone di lui (Cf. Gv 3,29-31) chiude il suo compito di
šošbîn di rimanere “alla porta” in attesa della voce dello Sposo che dichiara lo stato
verginale della Sposa, quale condizione previa l’unione. Appunto, perché Gesù battezza
con lo Spirito, lui corrobora l’assenza del peccato e la verginità della Sposa. Perciò, forse
non è sbagliato intendere la figura della Sposa qui sotto una valenza duale: come venendo
di lassù si fa emergere quaggiù, per cui si intende la Sposa come una nuova creazione.
Il giorno dopo, segue l’allusione alla consegna della Sposa nella quale figurano i primi
due discepoli (Gv 1,39). Qui l’evangelista precisa: «ὥρα ἧν δεκάτη», possibilmente un
gioco di parola sull’accezione metaforica di δέκατος, quella della sineddoche; cioè, il
6
Cf. L. PEDROLI, Il trittico sponsale di Giovanni (Gv 2,1-11; 3,29-31; 4,5-42), in La letteratura Giovannea
(Vangelo, Lettere e Apocalisse), e-Biblicum 1, GBP, Roma 2013, 164.
2
decimo che è la prima parte che anticipa il tutto; sia della Sposa, sia dell’ὥρα7. Così, si
anticipa nella «prima parte» l’intera «edificazione [‫ יבן‬/ ᾠκοδόμησεν]» della Sposa,
affiancata allo Sposo (Cf. Gn 2,22)8. Qui la prolessi sul motivo dell’ὥρα si incrocia con
un rimando sino ai primi capitoli della Genesi. La voce del nuovo Sposo si fa sentire
nell’incontro con il fratello di Ἀνδρέας che presenta un parallelismo non debole con la
scenografia della creazione della Sposa [γυνή].
Gv 1,42
Gn 2,22-23
Lo condusse a Gesù
ἤγαγεν αὐτὸν πρὸς τὸν Ἰησοῦν
La condusse all’uomo,
ἢγαγεν αὐτὴν πρὸς τὸν Αδαμ
«Ti chiamerai Cefa» [Pietro]
σὺ κληθήσῃ Κηφᾶς
«La si chiamerà donna»
αὕτη κληθήσεται γυνή
Questa scena è abbinata allo «stare sotto il fico» di Natanaele (Gv 1,48.50) che fa un
simile incastro intorno all’evento di una metalepsi, come avvenuto previamente con il
Battista. La metalepsi presume, innanzitutto, che Natanaele realmente si trovava
impegnato nello studio delle Scritture sotto un fico, quale contesto prossimo che subisce
l’intromissione di un indizio superiore. Ecco, qualcosa di tutto questo fa tornare
nell’orecchio la sequenza presentata in Zac 3,8-10 che indica i compagni, «uomini del
segno» [‫]אנשי מופת‬, che devono «dimorare» [‫ ]הישבים‬davanti a Yehoshua [‫]יהושוע‬. Sono
loro il segno dell’invio del servo «germoglio» [‫]צמח‬, figura che coincide con il germoglio
[‫ ]נצר‬messianico che spunterà dal tronco di Iesse (Is 11,1). Viene poi indicata «la pietra»
che riceve un’iscrizione [nome?] dal Signore stesso, e «in quel giorno ogni uomo inviterà
il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico». Un gioco sul nome di «Nazaret»,
presumibilmente ‫נצרת‬, trova ulteriore consonanza con l’immagine di «stare sotto il fico»
in riferimento a Prv 27,18: ‫« ;נצר תאנה יאכל פריה ושמר אדניו יכבד‬Chi veglia [sotto] il fico ne
mangerà il frutto così come chi obbedisce il suo signore sarà onorato». Il dialogo con
Natanaele, allora, chiude il cerchio.
Dietro le parole pronunciate si celano rimandi da ricavare. Ad esempio, ci si figura lo
«stare sotto il fico» nell’osservanza della Torah, perché è il comandamento del Signore
Dio. Non a caso il Signore gli rende onore con le parole: «Ecco, un israelita in cui non
c’è falsità» (Gv 1,47)9. Così il rapporto di discepolato stabilito sulla base dell’osservanza
della Torah dice la capacità di discernere tra il bene e il male, che si incrocia, a sua volta,
con Gn 3 che mette in luce il contrappunto della conoscenza del bene e del male in quanto
riferimento all’albero dal quale la donna ne avrebbe acquistata, pur trasgredendo la parola
del Signore (Cf. Prv 3,18). Ora, però, tocca alla Sposa nuova.
Dall’altra parte, Zac 6,12-13, potrebbe suggerire un trasferimento di discepolato, dallo
stare sotto la Torah, allo stare sotto il Germoglio perché: ‫;מתחתיו יצמח ובנה את היכל יהוה‬
«sotto di lui si alzerà e si edificherà [ανατελεῖ καὶ οἰκοδομήσει] il Tempio [τον οἶκον] del
Signore», per riceverne gloria e sedere sul trono come sovrano di un regno di pace.
7
Il presente studio intende l’ὥρα, bensì riferito alla Passione, non indipendentemente dalla metafora
nuziale. La Passione rappresenta l’ὥρα perché ne figura il rito della consumazione nuziale. Sarà l’ὥρα di
esercitare il diritto dello Sposo con la carne della Sposa quando lui consegna la propria vita in essa. Tuttora
si muove nella fase precedente, quella dello sposalizio che prevede la condizione integra della Sposa.
8
La forma morfologica ᾠκοδόμησεν coincide sia con il 3s aor/ind/att (il senso nella Gn) sia con il fut/inf/att
(il senso inteso qui).
9
Cf. Ger 30,19 sull’onore corrisposta alla ristorazione di Giacobbe e Is 8,23 sull’onore del tempo
messianico corrisposta alla terra di Zabulon e Neftali, «oltre il Giordano, Galilea delle genti» (Cf. Gv 1,28).
3
Quest’ultimo indizio stabilisce, da una parte, l’associazione del Tempio/casa con il corpo
della Sposa che nascerà/sorgerà «dopo tre giorni» e completa dall’altra il perché della
confessione: «Tu sei il re d’Israele» (Gv 1,49).
Il collegamento è pronto per comparire nel Tempio di Gerusalemme ribadendo
sull’atto di purificazione pre-rituale della Sposa (Gv 2,21), confessando con Sa 68,10
LXX: «lo zelo per la tua casa consumerà me». La citazione fa ellisse sulla prima metà
della frase: «un alienato sono stato reso ai miei fratelli, uno estraneo per i figli di mia
madre» (Sa 68,9 LXX), indicando che il popolo (i fratelli) a Gerusalemme (la madre) non
riconosce Gesù come lo Sposo. La sua risposta sul segno di riconoscimento rileva il suo
dovere sponsale, indicando il proprio corpo come luogo di culto veritiero, “la casa” dove
abita il Signore (Gv 2,19.21). Infatti, dopo la sua ὥρα la Sposa y lo Sposo saranno una
sola carne, ed essa sarà fatta manifesta sorgendo «dopo tre giorni». Lo scenario domestico
di madre, fratelli e sposi viene anticipata, però, sempre sul gioco di un non riconoscimento
che comunque porta alla manifestazione della sua gloria, dove egli dimora (Gv 2,1.12).
Gn 2,21-23:
Zac 6,12-13:
ἀνεπλήρωσεν σαρκα / ᾠκοδόμησεν / ἐλήμφθη αὕτη
ανατελεῖ καὶ οἰκοδομήσει τον οἶκον κυρίου / λήμψεται ἀρετὴν
2. La Sposa celebra la voce dello Sposo (Gv 2,1–3,36)
L’esito dell’edificazione del corpo fedele che si affianca a Gesù fiorisce nell’occasione
di un altro invito. L’affare diventa famigliare e i nuovi seguaci di Gesù sono accolti tra i
commensali di casa «dopo tre giorni» (Cf. Gv 2,1.12). Per quanto riguarda l’allusione al
rito nuziale in Gv 1,39, si fa ellisse sul fatto stesso della consumazione. Ne segue, però,
la processione in gruppo al luogo di festa. Supponendo comunque quel passo, a questo
punto, la Sposa raffigura anche la madre della “casa” che nascerà da quell’unione. Perciò,
alle nozze di Cana non è un caso che la Madre e Gesù «a livello narrativo, sono loro i veri
“sposi” dell’episodio»10. La Madre, più di tutte le donne, rappresenta la vera
corrispondenza alla carne di Gesù. Altresì, lei dimostra la vera corrispondenza nella fede.
Poiché contemplatrice per fede, lei è anche madre del suo frutto (Cf. Gv 1,13-14). Così,
lei diventa protagonista di ciò che rimpiazza il contributo della donna avvenuto nell’Eden,
per così diventare madre di tutti i viventi nella fede.
Innanzitutto, lei è probabilmente l’autore dell’invito che viene estesa pure ai discepoli.
Sua anche è l’iniziativa di domandare Gesù sul significato della loro fede in lui con le
parole «non hanno vino» (Gv 2,3). Certo, il testo lascia ambiguo “chi” sono coloro che
non hanno vino. Di chi parla la Madre? Si suppone che parla della coppia anfitrione, ma
l’incrocio dei piani riconosce che, a livello narrativo, l’unico “loro” menzionato finora
sono i discepoli. L’esito del segno per la narrazione nemmeno riguarda la coppia
anfitrione, ma serve per manifestare la gloria di Gesù ai discepoli per rinsaldare la loro
fede attorno a lui (Gv 2,11)11. Simili rimandi che ricordano la manifestazione della «gloria
dell’inviato» attirano pure sulla metafora nuziale della gioia festosa della Sposa:
«Rallegrati, esulta, figlia di Sion perché ecco io vengo ad abitare in mezzo a te…e saprai
che il Signore degli eserciti mi ha inviato a te» (Zac 2,12.14-15). La personificazione del
resto fedele sotto il titolo della figlia di Sion non di rado si trova utilizzato in contesti
10
I. DE LA POTTERIE, «L’identità della donna e il mistero dell’Alleanza», in StMiss 40 (1991), 17.
Il Vorlage nozionale di την δοξαν è ‫ כבוד‬cui forma femminile ‫ כבודה‬significa «abbondanza» e cui forma
verbale ribadisce ancora sul motivo di essere onorato, reso pesante, quale manifestazione dell’autorità con
cui lui è stato inviato (Cf. Zac 2,12; 6:13).
11
4
drammatici e di oppressione straniera, tuttavia, come ricorda Is 62,1-12, l’arrivo del
Salvatore significa per lei che «la tua terra avrà uno sposo» perché lui «porta con sé il
premio, e la sua ricompensa lo precede».
In Israele alle nozze, la scorta di vino è responsabilità dello sposo. Una mancanza di
vino dice la mancanza dello sposo. Tale circostanza sarebbe il fallimento dello sposo nel
momento della sua ora. Appunto, l’ora dello sposo è svolta intorno al fatto gioioso di
essersi unito alla sua sposa; fatto che si prolunga nella festa che ne segue; festa che
presumibilmente gira intorno al rito delle birkat hatanim12; benedizioni che dipendono
della presenza abbondante del vino con il quale si effettua la «trasfigurazione santa»
dell’unione che «articola la consapevolezza della presenza divina con il desiderio di
partecipare alla redenzione in arrivo»13. In questo senso, esaurire la scorta del vino non è
soltanto una disgrazia per la festa, ai danni della gioia dei commensali, bensì è un guaio
che potrebbe sollevare dei dubbi sul destino dell’unione stessa, quale malaugurio nei
confronti con Dio. Uno sposo dovrebbe assolutamente evitare il suo esaurimento. Ecco,
dove inizia il dialogo tra la Madre e Gesù che apre su una metalepsi.
La Madre (esplicitamente commensale ma implicitamente Sposa) ricorre a Gesù
(esplicitamente commensale ma implicitamente Sposo) per una cosa che riguarda lo
sposo. Lui, risponde da commensale che non tocca a loro questa cosa perché lui non è lo
sposo di questa festa. Per chi segue la narrazione dell’evoluzione della metafora nuziale
finora, però, questa risposta zoppica. La rilevanza della figura dello Sposo si impone e
Gesù non se ne può prescinde. Si ravvede subito e si fa intendere: comunque lui è lo
12
Mentre in Babilonia ne sono sette le benedizioni ben documentate sin dal terzo secolo, in Palestina,
apparentemente, se ne parla di tre, purtroppo non vengono mai specificate e non c’è modo di sapere della
loro coincidenza con la forma d’oriente. Sin dall’antichità, andavano pari passo con le benedizioni di lutto
[birkat avelim], anche esse perse alla storia. Tal legame non manca nell’allusione giovannea perché il segno
è volutamente legato alla Croce. Queste, le benedizioni dello sposo cercavano di risituare il rito del
matrimonio, legalmente caricato come un acquisto (‫ = קנה‬acquisire), «nell’ambito dell’archetipo di
un’unione redentrice» (R. ADLER, Engendering Judaism: An Inclusive Theology and Ethics, Varda, Skokie
IL 2001, 180-183.256). Costruite su un complesso scritturistico molto denso, radunano dei testi rilevanti
all’episodio giovanneo (Gn 2,22; Sa 103; Ger 33,10-11; Is 6:3). Anche se non si può presumere che
Giovanni allude alla forma talmudica del rito, il contenuto costituisce senz’altro uno sfondo di rimando.
Giovanni indica precisamente sei giare di pietra «per la purificazione dei Giudei», esse ritenevano la loro
purezza rituale perché fatte in pietra. Difatti, la presenza di bicchieri e vasi in pietra nell’ambito sacerdotali
del I secolo era diffusa. Un paragone sulla loro coincidenza numerica è molto attraente, vista che secondo
alcuni tradizioni la settima benedizione, quella che specificava il vino per effettuare la trasfigurazione santa,
veniva recitata alla fine. Casomai, la forma conservata in oriente era conosciuta anche in Palestina, si
domanda se Giovanni avrebbe voluto tenere in riserva la “settima giara” per l’ora quando lo Sposo provvede
il vino figurato col proprio sangue d’unione redentrice (Cf. Gv 2,9-10)? Di fronte alla mancanza di dati,
una risposta tentativo può prendere in considerazione l’annotazione di Hoffman che, da una parte
confermerebbe la presenza della forma di sei benedizioni in Palestina, e d’altronde offrirebbe un motivo
che spiega l’abbinamento giovanneo dell’episodio a Cana con quello della purificazione del Tempio a
Gerusalemme: «A variant text found in a talmudic manuscript signs the sixth blessing: Blessed are You
who gladden Your people and build Jerusalem. This variant signature, which also appears in the prayerbook
of Saadia Gaon, may represent a Palestinian custom» (L.A. HOFFMAN, The Canonization of the Synagogue
Service, Notre Dame 1979, 145). La sesta benedizione secondo la forma d’oriente, però, sintetizza meglio
l’insieme del rito: «Benedetto sei Tu, Signore Dio, Re eterno, perché hai creato celebrazione e gioia, sposo
e sposa, felicità giubilo, piacere e delizia, amore e fraternità. Che si senta pronto, Signore Dio, nelle città
della Giudea e nelle strade di Gerusalemme, voci di gioia e di festoso rumore, la voce dello sposo e la voce
della sposa, il grido dello sposo dalla stanza nuziale, e dei giovani dal loro banchetto corale. Benedetto sei
Tu, Signore, perché fai rallegrare lo sposo insieme alla sposa» (B. Ketubot 8a).
13
Cf. R. ADLER, Engendering, 180-183.
5
Sposo, bensì, la sua ὥρα (di unirsi alla Sposa) non è ancora arrivata14. Almeno non nella
forma rituale previsto dal Padre. L’ironia però sboccia nel fatto che l’occasione di
festeggiare la fede nel Messia l’ha creata proprio lui nel farsi presentare alla festa di nozze
con un seguito di discepoli. Chissà che quel gruppo di “volti nuovi”, improvvisamente
accolti insieme a lui, fossero un fattore non indifferente all’esaurimento della scorta di
vino, che avrebbe abbastata per un numero minore di commensali15.
Il testo non lo dice, ma, seguendo la mossa della metafora nuziale, la circostanza
permette di suggerire che, in loro, la Sposa festeggia ormai insieme allo Sposo. Qui il
piano immediato si incrocia con quello universale. Quindi, il vino di scorta – qualora
segnalerebbe la gioia di aderirsi al Messia, il hesed del Padre in persona – sta per finire
ai danni della coppia anonima che, verosimilmente seguendo la rotta del Purim
(Est 9,22)16, sarebbero stati disposti ad accogliere persino una banda di scrocconi con
grande generosità. Se qualora la zelante osservanza delle tradizioni non dice la volontà
del popolo-sposa di trovarsi preparato per l’arrivo del Messia, allora la madre ne ha
ragione: il vino della benedizione è veramente finito e nessuno se n’è accorta. In questo
la sua osservazione domanda: Che cosa può significare questa mancanza di vino se i
discepoli devono inaugurare così la loro fede nel Messia? Gesù non vuole che la festa sia
la sua, ma non lo decide lui, lo decide la fede delle persone che li hanno accompagnato
alla festa. Tuttora si sente la voce gioiosa della Sposa che celebra insieme allo Sposo. La
madre, forse sulla mossa di Sap 8,3-10, incarica l’esito della situazione alla voce dello
Sposo dicendo: «qualsiasi cosa vi dica, fatela».
La soluzione elegante rimanda di nuovo alla Genesi (Gv 1,27); al sesto giorno in cui
furono creati uomo e donna; e realizza, in vasi ritualmente puri (Cf. Gv 3,25), quella
trasfigurazione santa che ratifica l’unione come impresa che attende la redenzione in
arrivo. Lo sfondo del rito delle birkat hatanim permette di ricordare pure le sette colonne
di Prv 9,1-617 e traduce molto bene questa, «l’ἀρχὴν dei suoi segni». Ciò, a sua volta, fa
prolessi alla nozione di «cominciare da capo» [ἄνοθεν] con «l’ἄρχων dei Giudei»:
Nicodemo. Questi fa fatica ad assimilare la rinascita nella fede che fa entrare nella
famiglia dei discepoli. Figura qui un gioco sul ruolo della madre: quella di quaggiù
(Gv 3,4) in confronto con quella di lassù: l’acqua e l’azione dello Spirito (Gv 3,5-8).
In simile modo, non è un caso che questi due episodi vengono inquadrati fra due feste
di redenzione: Purim (in cui la protagonista è una donna che organizza un banchetto di
vino) e la Pasqua (che fa nascere un popolo attraverso le acque sotto la guida dello
14
A. FEHRIBACH, The women in the life of the Bridegroom, 31.
Una tradizione Giudaica stipula che se una persona estranea ai commensali (un volto nuovo) arrivasse
dopo l’inizio delle festività scatta il dovere gioioso di celebrare le birkat hatanim con un quorum di dieci
uomini per tutte le sette notti (B. Ketubot 7b). Non sarebbe la prima volta che Gesù arrivasse in ritardo.
16
La festa di Purim cadde attorno al 14 di Adar, un mese prima della Pasqua, il 14 di Nissan. Gv 2,12-13
inquadra le nozze di Cana poco prima del tempo in cui «si avvicinava la Pasqua dei Giudei». La festa risale
agli eventi del rotolo di Ester che commemora la salvezza degli Ebrei a Susa, grazie all’intervento della
protagonista regina che organizza un banchetto di vino, iniziato «il terzo giorno» (Est 5,1). Mentre la data
di ricezione del rotolo come meghillà è dibattuta, la devozione attorno ad esso fu piuttosto diffusa in ambito
greco-romano (i.e. la Galilea). La sua tradizione rituale distingue tra opere di carità e di reciprocità legati
non soltanto ai giorni della festa stessa, ma addirittura alle nozze quando si tratta di donare giare di vino;
Cf. J.E. BURNS, «The Special Purim and the Reception of the Book of Esther in Hellenistic and Early
Roman Eras», in Journal for the study of Judaism in the Persian, Hellenistic, and Roman Period 37,1
(2006), 1-34; T. NOVICK, «Charity and Reciprocity: Structures of benevolence in Rabbinic Literature», in
The Harvard Theological Review 105,1 (2012), 33-52.
17
«La Sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne…ha mandato le sue
ancelle…bevete il vino che io ho preparato» (Prv 9,1-6).
15
6
Spirito). Le feste destano la memoria salvifica di Israele, cui storia comincia ad incrociarsi
con le vicende quotidiane di Gesù. L’emergente carico messianico rinvia infine alla
Pasqua di Ez 45,17 in cui le libazioni di vino sono a carico del Principe, «ma non ne
specifica una quantità fissa, lasciando aperta la possibilità di presumere che lui dovrebbe
offrire “tanto quanto li pare”, com’era il caso per le offerte di grano e l’olocausto non
perpetuo (Ez 46,5)»18. L’evangelista dirà poi alla fine della sezione: «senza misura egli
dà lo Spirito» (Gv 3,34). Proprio questa, la bontà [‫ ]חסד‬sconfinata, è la ricompensa che lo
precede. Essa traduce la fedeltà all’alleanza e la sua manifestazione rende piena la gioia
del popolo-sposa che spera in lui (Cf. Gv 3,29)19.
3. Lo Sposo attende ancora la voce della Sposa (Gv 4,1-54)
La sezione previa chiude con delle parole aspre: «chi rimane impersuaso [ἀπειθῶν] dal
figlio non vedrà la vita» (Gv 3,36). Dice così perché il figlio racconta le cose di lassù,
testimoniando che «Dio è veritiero [ἀληθής]» (Gv 3,33; 4,23-24). In ciò egli dà lo Spirito
come sapienza a chiunque crede nel figlio, e in conseguenza, chi confida in lui «ha [ἔχει]
la vita eterna». Sul tema della persuasione, però, la suspense della scena che ne segue si
arricchisce con il ricordo di Proverbi 7–9 sulle figure di «donna straniera» e «donna
sapienza». Lì si fa una promessa di beatitudine a chi ascolta la sapienza: «chi trova me
trova la vita e ottiene il favore del Signore; ma chi pecca contro di me fa male a sé stesso»
(Prv 8,35-36). Questo non costringe il presente episodio sotto una determinazione
categorica, ma rileva un messaggio di sfondo: il converso deve diventare testimone di una
scelta, perché invitato a superare i limiti della propria storia personale e comunitaria.
L’introduzione di una conversa nella donna samaritana, con l’increscendo della
sventura che la circonda, allude forse alla figura l’archetipica della donna d’inciampo,
che a sua volta ha subito una persuasione: «ἠάτησέν με» (Gn 3,13). L’ironia della svolta
matura sul fatto che è Gesù che la cerca di persuadere. Anche lei sembra di capire una
persuasione, ma forse nel senso sbagliato. La confusione si deve in parte al canovaccio di
sposalizio che in Israele veniva fatto intorno ai pozzi20. L’arrivo dei discepoli alla fine del
colloquio sfrutta ancora il contesto frainteso: forse con imbarazzo non dicono niente
malgrado averlo trovato con una donna straniera, ma quando poi Gesù dice di attendere
un cibo, forse da lei – che sarebbe stata una conferma del loro sposalizio – scoppiano gli
interventi, pregandoli di mangiare qualcosa o di confermare almeno che avrebbe già
mangiato da qualche parte, per così smentire quella suspense a loro scandalosamente
inconcepibile (Gv 4,31-33). Il Messia appartiene al popolo. La Samaria era invece
ritenuta non-popolo per la presenza di nazioni e culti stranieri in mezzo loro. Una siffatta
unione non si può.
Meno male per loro lei non era andata a cucinare un pasto per il Signore. Gesù aspetta
una conferma di diversa indole e si fa intendere citando un proverbio forse sconosciuto
(Gv 4,35-38). Lui attende sempre la voce della Sposa. Chissà che, in chiave di questa
figura, l’indirizzo in parte intendeva Mic 4,12-13: «ma [molte nazioni] non conoscono i
pensieri del Signore e non comprendono il suo consiglio, poiché le ha radunate come
covoni sull’aia. Àlzati e trebbia, figlia di Sion, perché renderò di ferro il tuo corno e di
18
M. HARAN, «The Law code of Ezekiel XL-XLVIII and its Relation to the Priestly School» in HUCA 50
(1979), 62. La traduzione all’italiano è mia.
19
«Quanto è prezioso il tuo hesed, o Dio! Si rifugiano i figli d’Adamo all’ombra delle tue ali, sono inebriati
dell’abbondanza della tua casa: li dai da bere dal torrente delle tue delizie. È in te la sorgente della vita, alla tua
luce vediamo la luce. Riversa il tuo hesed su chi ti riconosce, la tua giustizia raddrizza il cuore» (Sa 36,7-11).
20
Cf. Gn 24,10-61; 29,1-10; 38,13-19 Es 2,16-21; L. PEDROLI, Il trittico sponsale, 171.
7
bronzo i tuoi zoccoli e tu le macchinerai in molti popoli: così consacrerai al Signore i loro
guadagni e le loro ricchezze al padrone di tutta la terra»21. Similmente, Os 6,11: «Anche
a te, Giuda, io riserbo una mietitura, quando ristabilirò la sorte del mio popolo».
3.1 Lo Sposo persuade la Sposa alla fedeltà
Ecco, questa prima parte della metalepsi contempla il disegno messianico, in quanto
prevede il ritorno di Israele, dispersa tra le nazioni. Questo va oltre il senso geografico a
quello del culto. La ricostituzione del popolo, com’era all’inizio, deve farsi carico di una
storia fatta d’infedeltà, scisma e allontanamento per così stabilire un regno di pace. Difatti
l’episodio presenta l’esito di una tale confidenza [πεποιθὼς] che potrebbe indicare
Dt 33,3-28 da collegamento di passo. È il capitolo delle benedizioni di Mosè sulle dodici
tribù che stanno per entrare nella Terra Promessa. Inizia affermando: «Così [Dio] ama il
[suo] popolo: tutti i [suoi] santificati sono nelle tue mani; mentre essi sono seduti ai tuoi
piedi, si fanno ricevere dalle tue parole». Chiude dicendo: «Israele siederà in confidenza,
da sola alla fonte di Giacobbe, in mezzo a un campo di grano e vino nuovo, dove i suoi
cieli stillano rugiada»22; così con Mic 5,6: «il resto di Giacobbe sarà in mezzo a molti
popoli come rugiada mandata dal Signore»; oppure Os 14,5-6: «Io li guarirò dalla loro
infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come
rugiada per Israele» (Cf. Gv 4,6.35; Zac 8,9-13; Sa 132). La rugiada trova affinità nella
nozione del «dono di Dio» come acqua-Spirito che scende dal cielo. Sin dal primo
capitolo, questo è il dono che possiede Gesù. Ora si aggiunge che si trova dentro di lui
come fonte perché proprio lui è disceso dal cielo. Così, tutti quelli che si ritornano a lui
nella fede diventano rugiada, un’acqua viva che «zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).
Sull’incrocio dei piani, i fatti personali della donna Samaritana diventano specchio e
portavoce per il destino salvifico del popolo samaritano. I fatti della Samaria vengono a
confondersi in lei, perché sin dalla deportazione Assira di 721 a.C. la Samaria è stata unita
a cinque nazioni diversi ciascuna legata alla propria divinità, stabilendone luoghi di culto
straniero (2Re 17, 24-34). Nonostante gli sforzi di riforma religiosa, questa storia finisce
per definire l’identità della Samaria come “adultera” dell’Alleanza con YHWH23, ma più
propriamente come ripudiata sotto la sciagura degli dei stranieri. Era l’oppressione
straniera che ha creato questo suo impedimento, e il ripudio di Gerusalemme la ha lasciata
senza possibilità di un culto legittimo. In questo senso, Gesù riconosce nelle parole di lei
tutti gli allontanati di Israele: «οὐκ ἔχω ἄνδρα» (Gv 4,17).
21
Il passaggio di ‫ גוים רבים‬a ‫ עמים רבים‬sfrutta la sfumatura tra ἔθνη e λαος; significa un passaggio di essere
tra le genti ad essere integrati nel popolo di Dio. Questa macinatura del grano corrisponde secondo la
metafora alla mietitura delle persone, una raccolta dalle genti, e la Samaria ne rappresenta le primizie.
22
Cf. Gn 27,28; sono le parole di Isacco che benedice Giacobbe, dopo la persuasione del figlio. La
traduzione qui è una miscela di MT con LXX che favorisce rileggere i termini nel contesto di Gv 4. Secondo
Prv 3,19-20, la rugiada stilla grazie alla sapienza e bontà creatrice, «il meglio dei cieli» (Dt 33,13).
23
Un’alleanza con YHWH a Sichem predata lo stabilimento del culto a Gerusalemme; Cf. Dt 27,1-13
Gs 24,1-28. Anzi, l’origine del culto “benedetto” sul monte Garzim nasce proprio da questo episodio,
avvenuto ai suoi piedi, in cui il popolo fece promessa di rimanere fedele, sotto minaccia dell’abbandono di
Dio. La realizzazione di un tempio sulla sua cima fu posteriormente modellata secondo il piano del Tempio
a Gerusalemme, creando così un culto rivale che difendeva, con argomenti non banali, di essere il luogo
scelto da YHWH. Il funzionamento di quel tempio in epoca post-esilica, sotto le tensioni per l’integrazione
del culto, portò alla sua distruzione dalla parte del sommo sacerdote di Gerusalemme nel s.II a.C. Avvenuta
il 21 di Kislev, essa ricorda la scissione definitiva tra samaritani e giudei; Cf. J. BOURGEL, «The Destruction
of the Samaritan Temple by John Hyrcanus: A Reconsideration», JBL 135,3 (2016), 505-523.
8
Subentra qui la doppia valenza della parola ἀνήρ secondo l’uso di Osea: la sposa
infedele deve chiamare Dio ἀνήρ μου e non più Βααλιμ, perché il culto straniero dice un
legame adultero (Os 2,18). La risposta di Gesù «νῦν ὃν ἔχεις οὐκ ἔστιν σου ἀνήρ τοῦτο
ἀληθὲς εἴρηκας» ribadisce sul legame di culto facendo analessi sulle parole ἀληθὲς e ἔχει
di Gv 3,33.36. Poiché avere un marito significa «avere la vita», essere ripudiata significa
aver perso pure la verità del legame, cioè la fedeltà vitale che vi si intende. Lo sfondo di
culto riconosce il Dio di Israele, ma senza poter rendergli un culto vero. Difatti, il tempio
di YHWH sul monte Garzim era distrutto già da molto tempo e non poteva significare
per lei altro che un culto degli antenati (Gv 4,20). Tuttavia, e più decisivamente, lei si
dimostra in attesa del Messia (Gv 4,25), anche se Gesù dice: «voi adorate ciò che non
conoscete» (Gv 4,22) rilevando così l’incompiutezza della loro fede. Comunque sia,
Giovanni Battista confessava: «non lo conoscevo ma sono venuto», presentando il
significato dell’incompiutezza piuttosto nell’arrivo del Messia-Sposo. Lui deve venire
per completare tutto.
Il dialogo si sposta improvvisamente sul culto dopo la negazione che “questi cinque”
fossero più un impedimento per stringere un nuovo legame con Gesù. Anzi, sulla
metalepsi, questo significa che proprio l’Alleanza con YHWH, che predata tutti coloro,
ha impedito che essi furono mai altra cosa che unioni d’adulterio24. Ma, se è ancora in
vigore l’Alleanza vera, perché Gesù dice «colui che hai adesso non è il tuo marito»? La
risposta potrebbe riguardare qualora il ripudio stipulato a Sichem in Gs 24,20-25. Ma può
il Signore tenersi al ripudio nonostante la loro insistenza: «Siamo testimoni!» (Cf.
Dt 29,21-27)? Pur essendo vero che Os 8,5 conferma che l’oppressione straniera si è
avvenuta per punire un’infedeltà adultera: «Ripudio il tuo vitello, o Samaria!»25, il fatto
è che ne rimane un “piccolo resto” che desidera adorare YHWH, nonostante quel
privilegio essendo statogli negato sotto la presente situazione di scisma con
Gerusalemme. In questo senso, la Samaria è rimasta senza ἀνήρ. Senza l’intervento dello
Sposo il vino per lei è rimasto esaurito a lungo.
Lei così figura la donna che è contemporaneamente vedova e promessa sposa (di
levirato). Questo rispecchia la storia di Giuda e Tamar (Gn 38). Lei attende «l’invio del
figlio» della parte del padrone (per altro essi si chiamava ‫)שלח‬. Il padrone (Giuda) per
molto tempo si era allontanato da lei, lasciandola nell’ambiguità senza accesso ad alcun
diritto dell’alleanza dovutole. La risoluzione avviene mediante un incontro per strada ad
un posto chiamato «patah ena‘im» che significa «l’entrata a due fonti», oppure
«l’apertura degli occhi». Un fraintendimento tra l’abito della sposa e l’abito del culto
straniero (di prostituzione votiva) sembra anche trovare una certa affinità con la presente
scena sulla domanda che riguarda l’identità della donna samaritana. Tuttavia, come lei
intende sé stessa e come la intende Gesù capovolge l’ordine secondo Gn 38. Si rovescia
pure che è Gesù che si trova seduto mentre lei arriva per strada alle due fonti (il pozzo di
Giacobbe e la fonte di acqua viva in Gesù). Questa volta, l’unione che avviene è piuttosto
spirituale, ma l’effetto di reintegrazione all’Alleanza è condivisa. Rovesciata infine è la
consapevolezza della propria indigenza che Gn 3,7 indica sempre con «l’apertura degli
occhi». Non più motivo di contesa, questa diventa uno slancio di testimonianza (Gv 4,39)
e riscoperta di avere uno Sposo nella vera dimensione del legame di culto (Gv 4,25-26).
Entrambi queste cose prefigurano le primizie dello Spirito per ricostituire la Sposa.
24
Il riferimento primario è al popolo samaritano, mentre la situazione personale della donna samaritana
rimane ambigua e potrebbe anche essere quella del levirato; Cf. G. O’DAY, «John», in C. NEWSOM – S.
RINGE, ed., The Women’s Bible Commentary, Louisville 1992, 293-304: 296.
25
Si intende il vitello a Bet-Aven, prima della caduta di Samaria (città capitale) alla deportazione Assira.
9
Quindi, la promessa di cambiare la sorte del popolo allontanato viene confermata
(Dt 30,1-6), purché facendo loro «tornare nel cuore» la realizzazione di tutti questi fatti;
purché questi portino alla conversione che «circoncida il tuo cuore» cosicché «possa
amare il Signore tuo Dio» e «viva», per essere adoratori in Spirito e verità. La
realizzazione dei fatti, prevista dal Dt, difatti si avvera nel presente episodio, insieme al
forte carico di riconciliazione sponsale che si ritrova sullo sfondo di Osea 2,16-25: «ti
farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,22). Il figlio-Messia così
cerca di persuadere la ripudiata, sempre sullo sfondo del canovaccio sposalizio. Infine,
l’esito dell’incrocio dei piani dà luogo ad un evento di riconciliazione personale e
comunitario: la donna conosce chi adora perché lui l’ha «conosciuto tutta» (Gv 4,39);
eppure, il popolo conosce lui e crede non più «per sentito dire» ma «ἐστιν ἀληθῶς»
(Gv 4,42), portando a compimento l’ὥρα καὶ νῦν ἐστιν dei veri adoratori del Padre
(Gv 4,23). Infine, come segno della loro reintegrazione nel corpus della Sposa, lui rimane
con loro per due giorni.
3.2 La risposta con fede e testimonianza
Un legame di contrappunto emerge con Gv 1,45-51 che rileva un ulteriore incrocio di
piani. Mentre l’incontro per Natanaele indica anche il giorno due, a differenza del nonpopolo di Samaria (Cf. Os 2,1-15) Natanaele rappresenta il popolo in senso ideale, perché
lui è «un israelita in cui non si trova falsità» (Gv 1,47); cioè, un uomo integro e osservante
della Torah in modo pienamente coerente, «sotto l’albero del fico». Si crea così uno
specchio di contrasto fra i due personaggi rispetto alla voce dello Sposo. Nell’uno si nota
in precedenza una fede osservante, nell’altra le nasce uno slancio di testimonianza inedita.
La forza della metalepsi nella Samaritana la converte in annunciatrice e non mera
osservatrice della volontà del Padre. Tutto mira così all’evento della riconoscenza
salvifica. Questa contempla l’ἀναγγελεῖ [fut 3s] della consapevolezza messianica in cui i
fatti della propria intimità rovesciano l’effetto del ἀνήγγέλεν [aor 3s] del peccato originale
(Gn 3,11) divenuto finora motivo di contesa tra l’uomo e la donna. Così, si può rileggere
in queste storie anche la storia nazionale di contesa e scisma fra i due regni. Anzi, l’attuale
scena contempla la reintegrazione della casa di Giacobbe (il regno Israele del nord,
figurato nella Samaritana), con la casa di Davide (il regno di Giuda del sud, figurato da
Natanaele)26. Sulla scia di riconciliazione messianica, pure l’invitazione fatta alla gente
samaritana coincide con quella che è stata fatta a Natanaele: «venite a vedere» (Gv 1,46;
4,29), pur sempre coincidente con quella che Gesù fa alla figura della Sposa (Gv 1,39).
Un leitmotiv emerge nel «dono di Dio», che fa gioco sull’etimologia del nome di
Natanaele. Il testo di Gv 4,10 lascia una invitazione al lettore a farsi partecipe della
metalepsi narrativa. Si apre una rilettura sulla frase: «Se tu conoscessi [Natanaele] e chi
è [il Figlio di Dio, il re di Israele] che ti dice “Dammi da bere”, tu avresti chiesto a lui [da
bere]». Il lettore già conosce la storia e deve fare i conti con due elementi: il primo è la
presenza di Natanaele alle nozze di Cana, ove il dono di Dio riguarda la richiesta di una
bevanda, attinta da anfore di pietra; il secondo è il fatto che Natanaele in persona stava in
26
Cf. Ger 33,23-26. La Samaritana associa sé stessa alla linea famigliare di Giacobbe (Gv 4,12), mentre
Natanaele, invoca la figura davidica del re di Israele (1,49). Sul piano storico, e sulla scia della ripartizione
delle classi [οἴκους] sacerdotali secondo il loro πατριῶν in 1Cr 24,3-19 (LXX), un’iscrizione trovata da
Dr. Walter W. Müller in 1970 riporta che l’undicesima divisione, quella della linea Davidica, casa di
Eliasìb, fu stabilita a Cohen Qana nella valle di Netofa; R. DEGEN, An Inscription of the Twenty-Four
Priestly Courses from the Yemen, in Tarbiẕ 42 (1973), 300–303. Il fatto che Gv 21,2 stabilisce Natanaele
come proveniente di Cana, evidenzia ancora il legame storico con la casa (sacerdotale) di Davide.
10
arrivo in quel momento con gli altri discepoli. Questo dettaglio di sottile ironia rimarca
ancora una delle tante dimensioni della metalepsi narrativa della scena.
Nonostante l’emergente suspense di risentire la testimonianza di Natanaele, anzi, sulla
bevanda che Gesù dà, s’impone l’avvio di un’altra testimonianza. La Samaritana fugge
dalla loro presenza, lasciando la sua anfora poggiata lì. Lei non ha bisogno di sentire la
confessione di Natanaele. Se ne anticipa con una fede propria che corrisponde a dei titoli
propri. Chissà che Gesù non era per i samaritani «il Figlio di Dio il re d’Israele», piuttosto
che «il Cristo», «che rivelerà [ἀναγγελεῖ] a noi ogni cosa» e perciò «il salvatore del
mondo» (Gv 4,25.42b). Il popolo crede in lui non perché Gesù avesse dato un senso
salvifico ai legami della donna, ma perché «abbiamo udito e capiamo» [ἀκηκόαμεν καὶ
οἴδαμεν], suggerendo altresì un rapporto di discepolato non lontano dal primo capitolo
con simile rinvio sul motivo della creazione della Sposa: «ὡς οὖν ἦλθον πρὸς αὐτὸν οἱ
Σαμαριται» figurando ancora la consegna allo Sposo. Questa volta, però, è la voce della
Sposa che si sente: «μεῖναι παρ᾽αὐτοῖς»!
Un secondo leitmotiv emerge nell’anfora [ὑδρίαν] che la donna «abbandonò»
[ἀφῆκεν] al pozzo per iniziare la sua testimonianza (Gv 4,28). Sicuramente non era di
pietra ma di terracotta. Come il popolo samaritano non era in grado di ritenere la purezza
rituale. In confronto con le sei ὑδρίαι di Gv 2,6, questa ne associa una settima, l’ultima in
tutto il IV vangelo. Essa comunque è servita per la purificazione del popolo, anzi, della
parte ritualmente impura. Altresì il verbo ἀφίημι indicherebbe il perdono dei peccati
figurando un atto di abbandono (Gv 20,23). Il verbo si trova nell’episodio seguente pure
come risultato di una scelta di fede. Perché «quell’uomo credette alla parola che Gesù li
aveva detto» in conseguenza «la febbre abbandonò» suo figlio (Gv 4,52). Infine, le due
episodi di Gv 4 condividono un legame temporale sull’ora che era circa mezzogiorno, ma
il greco potrebbe far alludere piuttosto ad una successione salvatrice non sullo sfondo
delle feste (Gv 2–3), ma sul passaggio numerico tra il settimo e l’ottavo: «ὥρα ἦν ὡς
ἕκτη» (Gv 4,6) seguito da «ὥραν ἑβδόμην ἀφῆκεν» (Gv 4,52), un linguaggio legato
sempre ai tempi previsti per la purificazione prima di essere gradito a Dio nel culto (Cf.
Lv 22,27; Ez 43,26-27).
Finalmente, di contrappunto, la menzione dei Galilei che «lo accolsero perché avevano
visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa» (Gv 4,45) abbina con
l’imputazione: «Se non vedete segni e prodigi voi non credete» (Gv 4,48). Il funzionario
del re, cioè, uno di Erode Antipa, rappresenta una figura di mezzo, membro del popolo,
ma compromesso politicamente in servizio all’oppressore straniera, i Romani. Mentre la
critica di Gesù rileva l’ipocrisia di una fede che si basa sulla visibilità, esigendo portenti
capaci di sottomettere all’ubbidienza persino alla cervice più dura, il secondo segno a
Cana è, invece, frutto di una risposta di fede basata sull’ascolto e sulla speranza nella
parola di Gesù, com’è stato per la conversione dei Samaritani eppure per tutti «gli uomini
del segno» che sono i suoi seguaci. Entrambi episodi parlano del regno messianico che,
superando gli ostacoli rimasti sul piano politico, promette l’arrivo di un regno di pace in
cui la voce del popolo-Sposa risponda unisona con la fede, per testimoniare con gioia la
chiamata dello Sposo: lui veramente è il Messia.
Conclusione
L’insieme di questi elementi chiude, ma non esaurisce, la presente indagine di mettere
a confronto gli scenari e i personaggi che si dimostrano contrassegnati dalla metalepsi nei
primi quattro capitoli del IV Vangelo sullo sfondo della metafora nuziale. L’intreccio
narrativo li ha messo in dialogo, dimostrando rimandi di prolessi ed analessi che portano
11
a considerare con nuovi occhi una impressionante raccolta scritturistica che mette in
rilievo gli elementi storici e teologici dei racconti. Il contesto delle feste e dei riti del culto
presenta una chiave di interpretazione che prende volo sulla metafora nuziale per
indirizzarla verso un profondo senso spirituale che emerge tra le righe della narrazione.
Il valore della figura femminile è stato trovato non soltanto nel protagonismo delle donne
ma riceve persino un carico allegorico in quanto raffigura la Sposa messianica. In questo
senso, il popolo che nasce nella fede si dimostra protagonista dei primi quattro capitoli,
offrendo al lettore in ciascun personaggio uno specchio per ravvedere le proprie scelte di
fede e di testimonianza. Tutto ciò va aumentando la portata della visione antropologica e
pneumatologica che sempre ha contraddistinta l’opera giovannea. Insieme a questo,
l’esplorazione della metalepsi ha portato ad articolare sotto una nuova luce le dimensioni
interne del messaggio evangelico come scoperta e realizzazione della riconciliazione
Messianica che ricapitola il senso delle Scritture con la storia della salvezza in mezzo alle
vicende quotidiane che portano all’incontro personale con Gesù. Infine, l’estensione
modesta dovuta al presente lavoro non ha permesso di esaminare l’intero IV Vangelo, ma
i capitoli 1–4 sono serviti come spunto d’inizio che si dischiude verso un
approfondimento futuro.
12
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