Subido por ilariaindirli96

economia

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Economia: deriva dal greco e corrisponde all’italiano “regole della casa”. Si tratta di una
scienza sociale, in quanto si occupa di alcune delle regole che definiscono il
comportamento della società.
Una delle branche dell’economia è la cosiddetta economia politica (o economics), che si
occupa delle regole che consentono l’utilizzo più efficiente possibile delle risorse scarse al
fine di soddisfare al massimo i membri di una società. Lo scopo dell’economia, in altre
parole, non è quello di produrre più risorse, bensì quello di aggiungere valore alle risorse
scarse attraverso l’organizzazione e il pensiero. Il problema di rendere massima la
soddisfazione delle persone è stato affrontato dagli economisti con due approcci diversi:
1) Libero mercato: è il pensiero dell’economia capitalistica di mercato e consiste nel
lasciare che le persone facciano affari tra di loro in piena libertà. Fu introdotto da
Adam Smith (pertanto, l’economia è uno dei rami che si sono staccati dalla
filosofia). Nel corso dell’Ottocento, però, si è visto che il libero mercato, pur
garantendo la massima soddisfazione delle persone, non rispettava l’idea di
giustizia, poiché non tutti si arricchivano allo stesso modo e il benessere non era
diviso equamente. Il tutto portò allo sviluppo del Socialismo di Proudhon e Marx:
quest’ultimo sosteneva che il libero mercato non fosse il modo migliore per
utilizzare le risorse scarse al fine di rendere massima la soddisfazione delle persone;
al contrario, lo stato doveva intervenire e pianificare la produzione, affinché vi fosse
anche il rispetto della giustizia (= ognuno potesse avere la possibilità di godere del
benessere derivante dall’uso efficiente delle risorse scarse). A questo proposito si
parla di…
2) Economia pianificata (o dirigista): le persone vengono private della loro libertà,
ma c’è giustizia. La storia ha dimostrato che questo modello non conduce a un
utilizzo efficiente delle risorse scarse, a causa delle sue contraddizioni intrinseche:
l’URSS è implosa per carestia e povertà. Tra l’altro l’economia pianificata è
degenerata nella dittatura, nel culto della personalità e nelle dinastie.
Dopo il fallimento dell’economia pianificata, si è comunque cercato di risolvere il problema
della giustizia, cercando di rendere fasce più ampie della popolazione compartecipi del
maggiore benessere. Si tratta di un problema di economia distributiva.
Senz’altro la Rivoluzione industriale e la proletarizzazione portarono a un notevole
miglioramento della vita media: nell’Ottocento gli operai vivevano in condizioni terribili, ma
pur sempre migliori rispetto a quando erano contadini; inoltre, vi fu un aumento della
durata della vita media. Marx però aveva individuato, a ragione, un difetto nel sistema del
capitalismo, ovvero la tesaurizzazione: i ricchi accumulavano sempre più denaro, che però
non veniva speso o reinvestito per favorire la crescita, rimanendo così improduttivo. Per
risolvere il problema, i tedeschi nell’Ottocento avviarono un processo per favorire il
passaggio di risorse dai più ricchi ai meno abbienti, affinché questi ultimi potessero
acquistare beni e servizi che altrimenti non potevano permettersi. Trattasi del cosiddetto
welfare state, promosso da Bismarck: lo stato attinge risorse da chi ha redditi e patrimoni
elevati per realizzare servizi di carattere medico o assistenziale a favore dei meno abbienti.
Ciò soddisfa l’esigenza di ripristinare la giustizia sociale, poiché attenua le differenze e
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fornisce maggiori opportunità di consumo, soprattutto nell’ambito della salute e
dell’assistenza.
MICROECONOMIA
L’economia, e nello specifico i microeconomisti*, si occupano di come funzionano i
mercati, intesi come luogo di scambio di beni o servizi in libertà.
*Parola che deriva dal nome inglese microeconomics: è una dottrina che si è sviluppata in
Gran Bretagna a partire dal pensiero di Ricardo, che teorizzò l’idea di rendita e profitto, e
di Marshall. I microeconomisti inglesi scoprirono che, a seconda del numero di persone
che comprano e vendono beni e servizi, e a seconda del tipo di informazioni disponibili, si
possono formare determinati livelli di prezzo per determinate quantità di merce. Quindi lo
scopo dei microeconomisti è quello di trovare un giusto equilibrio tra prezzo e quantità.
D’altro canto, i manager e gli imprenditori cercano continuamente di trovare un modo per
evitare di sottostare alla tirannia dell’equilibrio di mercato, basata sulla perfetta
coincidenza tra la quantità di prodotti offerta dalle imprese e la quantità richiesta dai
consumatori (= domanda) a un determinato prezzo. Per farlo, essi aggiungono elementi
innovativi ai loro prodotti, investendo sull’intangible, ovvero sul valore dell’immagine o
delle informazioni relative ai loro prodotti, in modo che i loro prezzi non debbano
coincidere con quelli degli stessi prodotti offerti della concorrenza. Si tratta della
differenziazione del prodotto, che è alla base del brand.
CONCORRENZA PERFETTA VS MONOPOLIO
I microeconomisti hanno scoperto che esistono diversi casi in cui viene garantito
l’equilibrio dei prezzi di mercato; uno di essi corrisponde ai mercati di concorrenza
perfetta, che sono determinati da 4 fattori:
1) Il numero di chi domanda (acquirenti) e chi offre (offerenti) è talmente elevato da
essere quasi infinito.
2) I prodotti o servizi scambiati sono perfettamente uguali e comparabili.
3) Tutti devono avere accesso alle informazioni complete sul prodotto e sul prezzo
(per esempio, quando compro una scatola di tonno devo sapere quanto costa, gli
ingredienti, la data di scadenza…).
4) L’acquisto di un prodotto o servizio presso i vari offerenti non deve implicare costi
aggiuntivi (= non devono esserci i cosiddetti shoe leather costs: un prodotto deve
avere lo stesso prezzo, indipendentemente dal fornitore).
Queste sono le condizioni ideali per i consumatori, ma non per le imprese, in quanto
queste ultime non possono aggirare le regole alzando i prezzi. In altre parole, la
concorrenza toglie i privilegi e favorisce chi ha un minore potere d’acquisto, poiché essa
comporta una diminuzione dei prezzi e ostacola il processo di accumulazione di ricchezza
dei più abbienti (non può esserci un sovraprofitto). In aggiunta, l’aumento della
concorrenza crea occupazione: se i prodotti vengono venduti a prezzi più accessibili,
aumentano i consumi (perché anche i meno ricchi possono permettersi di acquistare
determinati prodotti) e, pertanto, aumenta la produzione. D’altro canto, le aziende che
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distruggono la ricchezza invece di crearla, contrastando così con il principio di utilizzo
ottimale delle risorse scarse, finiscono inevitabilmente con il fallire.
Il caso opposto della concorrenza perfetta è il monopolio, ovvero il caso in cui vi è un solo
offerente a fronte di innumerevoli acquirenti; spesso il proprietario dell’impresa
monopolista è lo stato (come nel caso del settore dei trasporti). È evidente che in una
situazione di monopolio chi vende può fare quello che vuole: non essendoci il rischio che
gli acquirenti si rivolgano a un altro offerente, il monopolista può non fornire loro tutte le
informazioni relative ai suoi prodotti, oppure può fissare il prezzo massimo tollerabile dai
suoi clienti, affinché essi acquistino una determinata quantità di merce in virtù della quale
egli veda il suo profitto massimizzato.
La differenza tra il prezzo imposto dal monopolista e il prezzo che sarebbe costretto a fare
in condizioni di concorrenza perfetta è la rendita di posizione del monopolista. Sin dalla
fine dell’Ottocento gli stati hanno emanato norme che garantissero la concorrenza nei
mercati. La prima di queste fu il Sherman Antitrust Act, emanato dagli USA nel 1890, che
divideva in tante società indipendenti la Standard Oil Company di Rockefeller, che aveva
acquisito il monopolio nella produzione e nella vendita di petrolio. Tuttavia, nei settori
caratterizzati da elevate economie di scala la dimensione della produzione è talmente
importante da non consentire un numero infinito di produttori; pertanto, nei settori in cui i
costi di produzione e di ricerca e sviluppo sono elevati (es. automobili o industria
farmaceutica), per essere in grado di produrre un bene a costi contenuti è necessario
produrlo in grandi quantità, a patto però che ci siano pochi offerenti. In questo modo cade
uno dei pilastri della concorrenza perfetta, ossia quello dell’offerta illimitata: si viene a
creare infatti una condizione di oligopolio tra le imprese. In questi casi gli stati consentono
la concorrenza imperfetta, in quanto il risparmio di costi che essi conseguono in queste
condizioni è maggiore e più conveniente rispetto al profitto derivante da un mercato di
concorrenza perfetta: è vero che il consumatore paga di più, ma il costo di produzione per
le aziende (e per gli stati) diventa così basso da compensare l’aumento del prezzo per gli
acquirenti.
LA MACROECONOMIA
Oltre alla microeconomics, a partire dagli anni ’10 del Novecento l’economia politica ha
sviluppato una serie di studi sul funzionamento non di singoli mercati, ma degli aggregati
della società nel suo complesso: per esempio, mettendo insieme tutti i mercati troviamo il
mercato dei consumi di un certo paese; se prendiamo in considerazione tutti i dipendenti
all’interno di uno stato (e non limitatamente al settore delle auto o alimentare), troviamo il
livello di occupazione, e così via. Questa branca dell’economia politica è chiamata
macroeconomia, e analizza i consumi, l’occupazione, gli investimenti, il risparmio, i tassi di
interesse, l’offerta di moneta della Banca centrale, la ricchezza di un paese (PIL), il livello
delle tasse e della spesa pubblica, la presenza di un surplus o di un deficit del bilancio, il
saldo degli scambi con l’estero e il tasso di cambio.
LA BUSINESS ADMINISTRATION
Un altro ramo dell’economia è la business administration, detta anche management o
economia aziendale, che si occupa di:
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Gestione e bilancio
Marketing e sales management (come vendere meglio)
HR (i.e. human resources), anche chiamata “organizzazione aziendale”
Production: come ottimizzare il processo produttivo (va di pari passo con acquisti e
logistica)
Finanza dell’impresa (è diversa dal bilancio: riguarda banche e azionisti)
Governance (o governo) dell’impresa: è l’insieme di regole che mettono in relazione
coloro che investono nella società (gli azionisti) e coloro che gestiscono la società (i
managers).
DEFINIZIONI
Istituto/Organizzazione: qualsiasi insieme di persone o cose che si uniscono per
perseguire un determinato scopo. Un esempio di istituto sono le università, che possono
essere viste come un insieme di persone e di attrezzature atte a progredire nella ricerca o
nell’insegnamento.
Impresa: è una parte dell’universo degli istituti. Le imprese sono tutti quegli istituti che
hanno una finalità esclusivamente economica, ovvero produrre beni o servizi per lo
scambio. Questo scopo viene perseguito secondo due modalità: per guadagnare, nel caso
delle imprese for profit, oppure per scambiare risorse economiche, nel caso delle imprese
non profit*.
*Un esempio di imprese non profit sono le mutue cooperative, che hanno per obiettivo
quello di consentire ai loro associati di poter accedere a servizi e beni a prezzi più bassi.
Questo però non significa che le imprese non profit siano automaticamente for loss (cioè
orientate a fare delle perdite): ogni impresa è un’entità durevole, poiché persegue
l’obiettivo di mantenere un equilibrio economico il più a lungo possibile, perciò anche le
imprese non profit devono cercare di sopravvivere (pur senza guadagnare) evitando le
perdite.
Azienda: non è né un istituto né un’impresa; è l’ordinamento economico* di un istituto.
L’azienda è indispensabile in tutti gli istituti, affinché questi possano sopravvivere. Nelle
imprese, in particolare in quelle for profit, l’azienda tende a coincidere con l’idea stessa di
impresa (perché esse sono istituti con finalità esclusivamente economiche).
*Ordinamento economico: è un insieme di persone e cose che fanno parte di un
istituto e hanno il compito di gestire e sviluppare la parte economica delle attività
dell’istituto stesso. Sempre secondo l’esempio di prima, un’università produce cultura, ma
nel farlo una sua parte deve concentrare la propria attenzione sui costi e sui ricavi, in
modo da poter pagare le strutture, i professori e gli addetti ai lavori. Altro esempio: la
Fondazione Veronesi, un’impresa non profit, ha una sua azienda che ne gestisce le risorse
economiche in modo da far sì che essa possa adempiere alla sua funzione primaria di
ricerca e di divulgazione scientifica per la prevenzione dei tumori.
Società: è l’impresa considerata a livello giuridico secondo una serie di contratti e di
rapporti (può essere società di capitali o persone).
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Bisogno: è la causa primaria della produzione e dei consumi. I bisogni sono superiori alle
risorse che abbiamo a disposizione per poterli soddisfare. Una delle più grandi ambiguità
della nostra epoca è che, malgrado gli enormi progressi tecnologici e organizzativi abbiano
permesso di soddisfare bisogni materiali sempre più variegati, allo stesso tempo è venuta
meno la corrispondenza tra maggiore produzione e maggiore soddisfacimento del bisogno,
nel senso che ora una maggiore produzione può portare a una situazione di
sovrapproduzione o produzione in eccesso. Un altro problema è causato dalla presenza di
alcuni bisogni che l’economia non riesce a soddisfare direttamente; è il caso
dell’inquinamento: nessuno può comprare aria pulita oppure una soluzione al
cambiamento climatico.
Secondo la teoria economica classica, quando il bisogno viene soddisfatto si genera un
miglioramento del proprio benessere* (questo era vero agli albori della teoria
economica, nel Settecento, ma non oggi). L’economia punta idealmente alla
massimizzazione del benessere collettivo, non individuale; il problema è che quasi tutte le
decisioni economiche comportano inevitabilmente il miglioramento delle condizioni di
alcuni a fronte del peggioramento delle condizioni di altri. In aggiunta, l’economia non
riesce a tenere conto della felicità e della qualità di vita individuale.
*Qui il concetto di benessere non fa riferimento solo al benessere materiale (= possedere
tanti soldi), ma include anche il miglioramento della propria qualità di vita.
Il motivo per cui esistono le imprese è la parcellizzazione del lavoro, che fu introdotta a
partire dalla Rivoluzione industriale e si basa sul fatto che ogni individuo svolge un solo
ruolo nel processo di produzione di un bene (processo che prima veniva compiuto
interamente da un solo individuo). Le imprese sono i luoghi in cui avviene la
parcellizzazione e l’organizzazione del lavoro accanto alle macchine, affinché l’output
prodotto sia più elevato, a parità di risorse impiegate: questo significa che la produttività è
maggiore a livello di impresa rispetto che a livello individuale e artigianale. La rivoluzione
industriale ha quindi comportato una riorganizzazione dell’attività umana intorno alle
nuove invenzioni e un conseguente aumento della produzione. NB: l’attività principale di
un manager è quella di organizzare al meglio l’attività della propria impresa, poiché è
l’organizzazione che fa la differenza e permette di massimizzare l’output e il valore.
LA PIRAMIDE DEI BISOGNI
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Ogni tipologia di soggetto ha l’esigenza di soddisfare un insieme di bisogni e agisce nel
sistema economico per massimizzare il proprio benessere. In base alla piramide dei
bisogni di Maslow, esistono diversi tipi di bisogni. Maslow osservò i comportamenti della
società americana dagli anni ’30 agli anni ’60, e notò che con l’aumento del benessere
l’uomo tendeva a soddisfare bisogni via via più elevati. Normalmente guadagnano di più le
imprese che soddisfano i bisogni situati in cima alla piramide.
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Bisogni primari: sono i bisogni prioritari da soddisfare, ovvero quelli di
sopravvivenza biologica (mangiare, bere, coprirsi dalle intemperie).
Bisogno di sicurezza: avere una casa, vivere in condizioni di stabilità, protezione
e tranquillità, convivere con gli altri in modo civile.
Bisogno di appartenenza: è l’aspirazione ad avere amici, ad avere una vita
affettiva e relazionale soddisfacenti e a sentirsi integrati in un gruppo (es. social
network, club di tennis).
Bisogno di stima e di status: essere percepiti dalla comunità sociale come
persone valide e affidabili; in alcuni casi corrisponde anche al desiderio di
distinguersi dalla massa, per esempio indossando vestiti particolari o costosi,
oppure adottando un determinato stile di vita particolare.
Bisogno di autorealizzazione: è il bisogno più raffinato e coincide con l’esigenza
di sentirsi realizzati, cioè di essere persone serene e felici; significa diventare ciò
che si vuole diventare. Le attività volte all’aumento della cultura personale, come il
teatro o il cinema sono strettamente connesse a questo bisogno, nel senso che un
individuo può permettersi di leggere i classici latini oppure di vedere un film solo nel
momento in cui gli altri bisogni sono stati soddisfatti, e queste attività spesso
contribuiscono a renderlo felice.
IL MARKETING
Il marketing è l’attività del management che ha l’obiettivo di studiare i bisogni dei
consumatori, stabilendo quali sono i prodotti o servizi necessari per soddisfarli e definendo
il profilo di prezzo a cui tali prodotti possono essere comprati, nonché il modo in cui essi
possono essere resi disponibili alle persone (il cosiddetto “canale di distribuzione”). Si
tratta delle quattro P del marketing:
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1)
2)
3)
4)
Product
Price
Promotion (= comunicare le caratteristiche del prodotto)
Placement (= come viene reso disponibile un prodotto)
L’impresa ha un rapporto di osmosi con l’ambiente esterno, nel senso che essa riesce a
sopravvivere consegnando all’ambiente più valore rispetto a quello che consuma: per
produrre un prodotto vengono consumate materie prime, energia e tempo delle persone;
un’impresa ha senso di esistere e di privare l’ambiente di queste risorse solo se la somma
dei costi di ciò che consuma (= il prodotto) è inferiore al prezzo che un individuo è
volontariamente disposto a pagare per soddisfare un determinato bisogno. In altre parole,
le imprese sopravvivono solo se producono valore, il che significa che i materiali assorbiti
dall’impresa devono avere un costo inferiore rispetto ai prodotti risultanti*. Il tutto è
riassunto nel Teorema della mano invisibile di Adam Smith, descritto ne La ricchezza delle
nazioni (1776): in un libero mercato le imprese, nel tentativo di soddisfare soprattutto i
loro interessi, consentono implicitamente un miglioramento del benessere collettivo,
perché sono responsabili di un’allocazione più efficiente delle risorse scarse. Chiaramente
non tutti vengono soddisfatti, ma vengono soddisfatti nel massimo e miglior modo
possibile. La competizione tra imprese è fondamentale per il teorema della mano invisibile,
perché garantisce la sopravvivenza delle migliori, ovvero di quelle che sfruttano nel miglior
modo possibile le risorse scarse.
*Se compro un paio di occhiali a 100 euro, significa che per me il grado di benessere
personale garantito da questi occhiali è superiore a quello derivante da un uso alternativo
di quei 100 euro; in aggiunta, il mio dispiacere per aver perso quei 100 euro è inferiore
rispetto al piacere che provo per aver soddisfatto il bisogno di vedere in modo adeguato.
Al tempo stesso, l’impresa, che ovviamente avrà consumato meno di 100, preferisce
rinunciare al paio di occhiali per avere i soldi che ho pagato (soldi che utilizzerà in parte
per pagare i materiali e le persone che hanno contribuito al processo di produzione).
Questo è il motivo per cui l’impresa contribuisce alla creazione del benessere collettivo
della società.
L’IMPRESA COME SISTEMA
L’impresa è talmente complessa che non può essere gestita in maniera automatica e
rigorosa da una serie di algoritmi; sono indispensabili anche le capacità di intuizione e di
immaginazione dell’uomo. Negli anni ‘60 e ’70, il biologo Stuart Kauffman ha dimostrato
che l’evoluzione delle specie non si basa solo sulle regole dimostrate da Darwin, in base a
cui sopravvivono i più adatti all’ambiente, ma dipende anche da un processo di
autoapprendimento degli organismi. Si tratta del principio di autopoiesi, termine che indica
la capacità degli organismi viventi di mantenere la propria organizzazione e di imparare da
soli. Questo ha spinto gli studiosi a considerare l’impresa come un organismo vivente,
paragonando i suoi membri alle cellule di un corpo che acquisisce una sua identità definita.
L’economia si è dunque ispirata alle discipline biologiche per formulare le teorie riguardanti
l’organizzazione delle risorse e i meccanismi di funzionamento; del resto, il valore di ciò
che consegna l’impresa dipende non tanto dalle risorse umane e materiali che la
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compongono, quanto dal modo in cui queste si combinano tra di loro (in altre parole, il
successo di un’impresa dipende dalla sua capacità organizzativa).
Per questo motivo si tende a rappresentare l’impresa come un sistema: questa teoria ha
avuto grande successo nell’Ottocento, in contrasto con l’idea positivista in base a cui la
realtà era caratterizzata da rapporti deterministici di causa-effetto. Dire che le imprese
sono dei sistemi equivale ad affermare che le relazioni che si creano al loro interno (i fatti
aziendali) non sono basate solo su un rigido meccanismo di causa-effetto, ma che, al
contrario, un determinato comportamento o una determinata azione retroagiscono,
condizionando l’organizzazione delle imprese stesse (esiste quindi un rapporto di influenza
reciproca). Detto altrimenti, ogni operazione compiuta in un sistema condiziona tutte le
altre (presenti e future), ed è a sua volta condizionata dalle operazioni che sono state
compiute in passato e che saranno compiute in futuro.
Le imprese consumano energia, materie prime e risorse umane, scambiando
continuamente e reciprocamente componenti con l’ambiente esterno; la loro attività deve
rispettare due principi: efficienza ed efficacia. L’efficienza è la capacità di un’impresa di
produrre i propri beni e servizi utilizzando la minore quantità possibile di risorse; in termini
tecnici, un’impresa è efficiente se è in grado, in condizioni di libero mercato, di ottimizzare
il rapporto tra input (= ciò che viene preso dall’ambiente e viene consumato) e output (=
ciò che viene prodotto): il valore di tale rapporto deve essere il più basso possibile.
L’efficacia, invece, è la capacità dei beni e dei servizi prodotti dall’impresa di soddisfare a
un livello elevato i bisogni dei clienti che li acquistano. Chiaramente le imprese devono
adempiere contemporaneamente a questi due principi (ad esempio, un’impresa non può
produrre automobili di scarsa qualità pur rispettando il principio dell’efficienza).
Gli scambi tra l’impresa e il sistema (fornitori e acquirenti) indicano il grado di
competitività dell’impresa: un’impresa è competitiva e prevale sulle altre imprese solo se
riesce a consegnare il massimo beneficio possibile con il minimo livello di consumi
possibile; in questo modo, viene accettata dal sistema economico e sociale circostante. Lo
scopo del management è proprio quello di migliorare l’organizzazione (e quindi la
competitività) dell’impresa nel rispetto dei principi di effettività ed efficacia, ma anche
quello di trovare i fornitori migliori, oppure quello di interpretare i bisogni inconsci di un
cliente. In tutto ciò le imprese agiscono come dei sistemi: un sistema è definito dalle parti
che lo compongono, ovvero dalla sua struttura. Queste parti devono imparare a
comunicare tra di loro, ovvero devono dotarsi di uno schema organizzativo (o pattern).
Quando ciò avviene, si dice che dalla struttura emerge il sistema: i manager fanno
emergere l’impresa competitiva da un insieme di elementi separati (materie prime, risorse
umane…).
I VARI TIPI DI IMPRESE
In base all’oggetto della loro attività, le imprese possono essere suddivise in:
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Imprese di erogazione: hanno l’obiettivo non di produrre, bensì di erogare (=
distribuire) o consumare beni e servizi; esempi: pubblica amministrazione, famiglia,
associazioni private.
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Imprese di produzione: sono imprese che acquistano e producono beni e servizi
per lo scambio.
Imprese composte pubbliche: sono imprese che producono servizi pubblici;
esempi: università, stato, regione, comune.
Imprese non profit: hanno lo scopo di produrre o erogare beni e servizi non per
guadagnare, bensì per soddisfare le categorie più svantaggiate o per finalità di
pubblico interesse. Nel farlo, accettano di avere un profitto più basso (low profit).
Imprese pubbliche: sono volte al soddisfacimento dei bisogni della collettività.
Imprese mutualistiche: hanno l’obiettivo di fornire beni o servizi ai propri soci a
condizioni più vantaggiose rispetto a quelle che troverebbero nel mercato.
Le imprese di produzione (o semplicemente “imprese”) sono enti in grado di creare valore
sociale per la società capitalistica liberale. Con l’espressione “creare valore sociale” si
intende in primo luogo il fatto che il valore dell’output dell’impresa è superiore al valore dei
consumi iniziali (input), il che genera un certo margine di guadagno per coloro che hanno
organizzato l’attività dell’impresa e per gli stakeholders (= portatori di interessi). In tal
senso, le imprese di produzione hanno finalità di lucro. Questo valore aggiuntivo, che è
una conseguenza della mano invisibile, è dovuto al fatto che l’utilità del bene prodotto è
superiore rispetto all’utilità degli elementi di input considerati separatamente (materie
prime e lavoro degli operai): se, per esempio, in un’impresa vengono consumati 1 kg di
alluminio (10 euro), 10 Joule di energia (3 euro) e 1 stipendio di un lavoratore (20 euro;
totale 33 euro) per produrre un componente di un’automobile, e tale componente viene
venduto a 40 euro, significa che l’impresa è riuscita ad aggiungere un valore (7 euro in
più) ai materiali di input iniziali. In aggiunta, nel fare tutto ciò le imprese danno anche la
possibilità a chi lavora di avere un reddito per comprare i beni. Dunque, il valore sociale
delle imprese si traduce nel fatto che esse aggiungono utilità alle risorse scarse e
forniscono la possibilità alle persone di comprare i beni prodotti. Gli stati devono però fare
in modo che le imprese non depauperino altri attori della società: se i 7 euro aggiuntivi di
prima derivano da una scelta arbitraria di un’impresa di aumentare smisuratamente i
prezzi in condizioni di monopolio – e non corrispondono al valore effettivamente creato –
allora devono intervenire gli stati, fissando una serie di normative che anche le imprese
monopolistiche saranno tenute a rispettare.
Certamente lo stato che fissa e fa rispettare le regole, e addirittura diventa un produttore
di beni o servizi (attraverso le imprese statali), distorce la realtà per due motivi:
1) Si viene a creare un conflitto di interessi, in quanto lo stato dovrebbe assicurare che
anche le sue imprese rispettino le regole di mercato da esso stabilite;
2) La gestione statale delle imprese porta a due svantaggi: in ambito pubblico vanno
seguite le norme rigide e certamente più intricate del diritto amministrativo (al fine
di evitare l’intervento della Corte dei Conti europea); inoltre, la corruzione è più
probabile nel settore pubblico rispetto che nel settore privato, poiché un dipendente
pubblico difficilmente ha le stesse motivazioni di interesse che ha un dipendente
privato nei confronti del datore di lavoro e dell’impresa.
Se l’impresa consuma più valore di quello che produce, essa distrugge il benessere
collettivo ed è giusto che fallisca.
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SOGGETTO ECONOMICO E GIURIDICO
Sono due diverse configurazioni della proprietà di un’impresa. Il soggetto economico è
quell’insieme di persone che, spinte da una visione condivisa, hanno contribuito alla
nascita dell’impresa (quindi è il proprietario iniziale della medesima). Il soggetto
economico possiede il potere decisionale, perciò assume le decisioni strategiche
dell’impresa (creazione, definizione e protezione dell’interesse generale, estinzione…),
influenzandone direttamente il destino. Il soggetto giuridico, che spesso si sovrappone a
quello economico, è l’insieme di persone a cui fanno capo diritti e doveri dell’impresa, ma
che non possono condizionarne direttamente le decisioni. I soggetti giuridici possono
nominare i manager, che decidono in loro vece. La separazione tra queste due categorie
avviene quando, con il passare del tempo, il soggetto economico assegna il diritto di
decisione sulla gestione dell’impresa (e quindi sulla gestione del proprio capitale) anche a
nuovi soggetti; è il caso, per esempio, delle società quotate in Borsa.
Esempio: in una public company (dove il management è distinto dalla proprietà), tutti gli
azionisti sono soggetti giuridici, ma non hanno il potere per influenzarne la gestione, non
c’è un vero e proprio soggetto economico (lo è l’impresa in sé), e il management funge da
agent.
Se in una società il soggetto giuridico è frammentato – e quindi è venuto meno il pilastro
dei titolari dei diritti giuridici sull’impresa – il management (= i dirigenti) prende il potere.
Esistono a questo proposito diversi casi di “beneficio privato del controllo”: gli azionisti
esterni che detengono il numero più elevato di azioni riescono a influenzare indirettamente
il comportamento del management (che, come già detto, non viene più mitigato dalla
volontà del soggetto giuridico), e si attivano meccanismi di scambio di favori tra i primi
(che ottengono un beneficio privato) e l’impresa. Questo perché l’obiettivo del
management non è più quello di rendere l’impresa competitiva, rispettando i principi di
efficienza ed efficacia, bensì quello di mantenere relazioni con gli azionisti più forti; a
rimetterci sono ovviamente gli altri azionisti, sia a causa dei minori benefici che derivano
dalla cattiva gestione dell’impresa, sia perché la concessione di questi favori da parte del
management comporta una serie di costi aggiuntivi per l’impresa (che di fatto viene
asservita agli azionisti esterni). È la classica situazione di conflitto di interesse nelle
decisioni dell’impresa.
LA CONCEZIONE DELL’IMPRESA
Tradizionalmente l’impresa è stata vista in modo negativo dalla società occidentale, in
quanto, secondo la visione comunista, essa era considerata il luogo in cui viene prodotta la
ricchezza tramite lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo (perché ai lavoratori non
veniva dato il giusto margine di profitto che spettava loro). Paradossalmente, i sistemi
comunisti oggi in vigore (Cina, Vietnam) sono caratterizzati da un sistema economico di
stampo capitalista (con la libertà d’impresa) e da regimi dittatoriali che privano i lavoratori
dei loro diritti.
In Occidente, però, si è anche affermata l’idea che essere capaci di fare impresa è un
valore che consente anche agli ultimi di emanciparsi. In aggiunta, si è passati da
un’impresa unicamente orientata a creare profitto per i propri azionisti (shareholders10
oriented) a un’impresa che crea valore anche per tutti coloro che hanno un qualche tipo di
interesse nei suoi confronti (stakeholders-oriented: gli stakeholders includono anche gli
shareholders); ciò ha permesso di rendere l’impresa più forte e redditizia.
L’impresa deve svolgere la sua attività nel rispetto delle regole (legalità) e deve contribuire
al miglioramento, sul piano umanistico e sociale, dei soggetti che interagiscono con essa
(gli stakeholders). In altre parole, essa deve garantire non solo lo sviluppo (concetto che
rientra nell’ambito economico e materiale), ma anche il progresso (concetto che include
anche la dimensione culturale, sociale e antropologica, con un’enfasi sull’identità e la
dignità delle persone). Del resto, un’impresa che pensa solo allo sviluppo e al capitale
viene vista negativamente, mentre un’impresa che si preoccupa anche dell’ambiente e
della collettività circostanti* è certamente più apprezzata e ha più probabilità di attirare
maggiori risorse (anche umane) e di mantenere i propri dipendenti.
*Si parla di corporate social responsibility: se un’impresa garantisce, attraverso un sistema
di welfare, un’ampia gamma di diritti e servizi ai dipendenti, è difficile che questi decidano
di andarsene solo perché la concorrenza offre loro uno stipendio maggiore. Questo però è
pur sempre un obiettivo secondario rispetto a quello di fare profitto rispettando le regole
del mercato.
Le imprese devono anche adottare determinate procedure che impediscano che vengano
commessi reati al loro interno. In caso di reato, infatti, devono rispondere le imprese, non
solo il singolo responsabile. Questo perché nel 2002 è entrata in vigore una legge
statunitense, nota come Sarbanes-Oxley Act (SOX in breve) e introdotta in Italia con la
legge 231, che ha indicato una serie di reati per i quali spetta anche all’impresa
rispondere. La legge SOX prevede di fatto che le imprese adottino un “codice etico” in cui
vengano specificati i valori e i comportamenti da rispettare al loro interno; stabilisce inoltre
che le imprese devono dotarsi di un Organismo di vigilanza (ODV), che ha il compito di
verificare che vengano attuati i protocolli e le norme previsti dal codice etico, e che le
imprese abbiano adottato i protocolli adeguati per mitigare o prevenire il rischio che
vengano commessi dei reati (es. corruzione). In caso contrario, una società può anche
essere multata o commissariata (= il Consiglio d’Amministrazione, ovvero il management,
viene esautorato e il Tribunale nomina un Commissario esterno per garantire la regolarità
dei comportamenti).
L’IMPRENDITORE
Secondo la Costituzione italiana, l’imprenditore è colui che esercita professionalmente
un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di
servizi, attività che comunemente chiamiamo impresa. Il codice civile opera una
distinzione tra le varie tipologie di imprese/imprenditori basata su tre criteri:
1) L’oggetto dell’impresa, che determina la differenza tra imprenditore agricolo e
commerciale. Tutto ciò che non è agricolo è commerciale, quindi il settore dei
servizi rientra nell’impresa commerciale.
2) La dimensione dell’impresa: piccole imprese/imprenditori e imprese/imprenditori
medio-grandi.
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3) La natura del soggetto che esercita l’impresa: impresa/imprenditore
individuale o societario. Nel primo caso, l’imprenditore richiede tutte le
autorizzazioni necessarie e apre la partita IVA (un numero con cui la sua attività
viene registrata come impresa presso l’anagrafe tributario). Se invece si mettono
insieme più imprenditori nasce una società.
L’imprenditore può essere una persona fisica o una società (= un’impresa costituita da più
persone) che investe e organizza capitali, mezzi e forza lavoro (propri o altrui) per
produrre dei beni o servizi da vendere sul mercato. Quello che ne ricava deve essere
sufficiente a coprire tutti i costi iniziali e deve garantire un margine di profitto, detto utile
(in pratica: utile/profitto = ricavo totale – costi legati alla produzione). L’imprenditore è
continuamente esposto al rischio di impresa, ovvero il rischio che le spese iniziali non
vengano rimborsate dai relativi ricavi, a causa della mancanza di domanda o di un mercato
instabile. Un’impresa che non produce utili può diventare insolvente e, infine, fallire.
L’impresa è un’attività, ossia una serie coordinata di atti unificati dal medesimo scopo
(produzione e scambio di beni/servizi) e da specifiche modalità di svolgimento: sono
essenziali, infatti, l’organizzazione, l’efficienza, l’effettività e la professionalità, intesa come
esercizio abituale e costante (= non occasionale) dell’attività produttiva. Ovviamente i
pilastri su cui si deve reggere l’impresa sono il capitale e il lavoro.
LE CARATTERISTICHE DI UNA SOCIETÀ
Secondo l’articolo 2247 del codice civile, la società è un accordo tra due o più soggetti che
mettono in comune il proprio lavoro e/o le proprie risorse (anche monetarie) al fine di
svolgere un’attività economica e di ricavarne e dividerne gli utili (scopo di lucro). NB: tutte
le società sono lucrative, salvo quelle mutualistiche, che servono a far sì che i soci
conseguano gli stessi beni, servizi o condizioni di lavoro a condizioni più vantaggiose
rispetto a quelle che troverebbero individualmente sul mercato. Nel caso delle associazioni
di beneficenza, l’utile viene devoluto a determinate fasce della popolazione. NB: tutte
quelle imprese collettive che esercitano un’attività economica per perseguire scopi
dichiaratamente ideali, culturali, assistenziali o religiosi non sono società.
IL CONTRATTO DI SOCIETÀ
È caratterizzato da tre elementi essenziali:



I conferimenti (= l’apporto che ciascun socio mette in comune con gli altri per
iniziare l’attività): denaro, beni o servizi (es. lavoro).
L’esercizio in comune dell’attività economica (detta “oggetto sociale”) per
raggiungere congiuntamente lo scopo prefissato.
La divisione dell’utile o delle perdite. Essere soci implica prendersi una fetta di
utili o di perdite (la ripartizione non è necessariamente proporzionata al proprio
apporto alla società); non si può escludere un socio dalla partecipazione agli utili o
alle perdite.
NB: ogni anno i soci decidono se mettere da parte l’utile (per acquisti futuri) oppure se
distribuirlo tra loro. In genere gli utili vengono distribuiti in proporzione alla quota/azione
(= al capitale sottoscritto), ma esistono anche eccezioni: in una s.n.c. a gestione familiare
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può infatti succedere che il capostipite (il padre o la madre), in procinto di andare in
pensione e non fidandosi completamente degli eredi, continui a percepire l’80% degli utili,
ridistribuendoli in seguito a proprio piacimento tra i figli (indipendentemente dalla loro
quota) e tenendo per sé solo il 10% degli utili. È però vietato il cosiddetto “patto
leonino”: il capostipite non può mantenere la propria quota senza percepire alcun utile, in
quanto è proibito, in una società di persone, escludere da utili o perdite uno o più soci.
TIPI DI SOCIETÀ
Le società che perseguono scopo di lucro si dividono in due gruppi: società di persone e
società di capitali. Il primo gruppo include:



Società semplice: è poco diffusa perché è l’unica che non esercita un’attività
economica, bensì agricola.
Società in nome collettivo (s.n.c.)
Società in accomandita semplice (s.a.s.)
Le società di capitali invece sono divise in:



Società per azioni (s.p.a.)
Società in accomandita per azioni (s.a.p.a.)
Società a responsabilità limitata (s.r.l.): è il tipo più diffuso in Italia
Come si diceva, tra le società di capitali rientrano anche due categorie che sono a scopo
mutualistico, non lucrativo:
o Società cooperativa
o Società di mutua assicurazione
Per attuare una “trasformazione” di una società (= la società continua la propria attività,
ma in veste diversa, es. da s.n.c. diventa s.p.a.) serve un documento di “modifica dei patti
sociali” firmato da un notaio.
LE SOCIETÀ DI PERSONE
Il nome utilizzato in diritto per identificarle è detto “Ragione sociale”, e deve comprendere
almeno il nome e cognome di uno dei soci, accompagnato dall’acronimo “s.n.c.” o “s.a.s.”,
dalla sede, dall’oggetto e dall’eventuale durata della società (se non specificata, significa
che è a durata illimitata).
Nelle società di persone è fondamentale la persona del socio: due o più persone si
mettono insieme perché si conoscono e sono legate da un rapporto di fiducia reciproca
relativamente alle loro qualità e capacità individuali. Se cambia la figura del socio (perché
magari un socio cede la sua quota a un amico), cambiano anche le prospettive di
guadagno e l’organizzazione interna, quindi bisogna modificare il contratto. I soci sono
amministratori di diritto, poiché devono rispondere personalmente dei debiti contratti dalla
società, anche attingendo dal loro patrimonio personale: in caso di fallimento della società,
perciò, sono soprattutto loro (che mettono i soldi) a rimetterci. Alla luce di questa
responsabilità, spetta ai soci decidere le strategie della società (chi sono i clienti, dove
aprire un conto corrente…). A questo proposito, bisogna distinguere tra atti di ordinaria
e straordinaria amministrazione: i primi includono tutte quelle decisioni che non
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intaccano il patrimonio della società, per le quali è sufficiente la firma disgiunta di un
amministratore (= gli affari correnti; es. se vado dal parrucchiere, uno qualsiasi dei soci
incassa il prezzo della prestazione). Gli atti di amministrazione straordinaria, invece,
intaccano il patrimonio della società, dunque richiedono la firma congiunta di tutti gli
amministratori (es. se si decide di aprire un mutuo in banca per affittare un negozio
oppure per comprare tutta l’attrezzatura necessaria).
Si dice che le società di persone hanno un’autonomia patrimoniale imperfetta, in quanto se
fallisce la società fallisce anche il socio; inoltre, la quota di un socio non può essere
aggredita dai creditori del medesimo, che possono solo chiederne la liquidazione.
Riassumendo, le società di persone sono caratterizzate da:




Responsabilità illimitata dei soci, che devono rispondere dei debiti della società
con i loro beni presenti e futuri -> autonomia patrimoniale imperfetta.
Responsabilità solidale dei soci: un creditore può esigere da uno qualsiasi dei
soci il pagamento dell’intero debito della società.
Il fatto che ciascun socio, in quanto tale, è amministratore della società
(salvo accordo contrario).
L’intrasferibilità della qualità di socio (e delle relative quote di partecipazione)
senza il consenso unanime degli altri, a causa della fiducia reciproca tra i soci.
Questo vale anche in caso di decesso: i soci superstiti possono liquidare la quota
agli eredi del socio defunto e continuare per conto loro, oppure possono far
subentrare qualche erede capace di ricoprire lo stesso ruolo. Se invece l’apporto di
quel socio particolare era indispensabile, possono addirittura sciogliere la società.
LE SOCIETÀ DI CAPITALI
Il nome utilizzato in diritto per identificarle è detto “Denominazione sociale”; non è
necessario mettere il nome e cognome di un socio (si può anche inventare un nome), però
bisogna indicare la forma (“s.p.a.” o “s.r.l.”).
In seguito all’iscrizione nel registro delle imprese (tenuto dalla Camera di Commercio), la
società di capitali costituisce una persona giuridica dotata di un proprio patrimonio e di
propri diritti e obbligazioni, che si appoggia ai suoi organi per svolgere le azioni che
normalmente compiono le persone comuni (es. acquistare un locale); al suo interno, il
patrimonio dei singoli soci è distinto dal patrimonio della società. Di conseguenza, si parla
di autonomia patrimoniale perfetta, il che significa che spetta alla società rispondere dei
debiti, attingendo direttamente dal suo patrimonio (e non da quello dei singoli soci: anche
in caso di fallimento, il loro patrimonio non viene intaccato)*.
*Nelle società in accomandita per azioni, in caso di fallimento, vanno distinti i soci
accomandatari (paragonabili ai soci delle società di persone: se fallisce la società
falliscono anche loro) dai soci accomandanti, che perdono al massimo quello che hanno
investito nella società. Questo vale anche per le società di persone in accomandita
semplice (s.a.s.), che comprendono il socio accomandatario, che amministra e gestisce
l’impresa (e deve pagare di tasca sua eventuali debiti), e il socio accomandante, che
apporta denaro solo occasionalmente e approva il bilancio una volta all’anno (quindi non
rischia di fallire, a patto che non abbia preso decisioni di carattere amministrativo).
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Va aggiunto che nelle società di capitali la “partecipazione sociale” (= il diritto di
partecipare alle decisioni riguardanti la vita della società) rappresenta un bene dotato di
un valore economico autonomo, distinto da quello della società*. Ne deriva che, mentre
nelle società di persone la modifica di un socio implica una modifica del contratto istitutivo,
nelle società di capitali tale evento incide solo sul patrimonio del socio uscente e di quello
subentrante, ma non interessa la società nel complesso.
*NB: nelle società per azioni (s.p.a.) la partecipazione sociale è detta quota, mentre in
quelle a responsabilità limitata (s.r.l.) è detta azione.
In sintesi, le società di capitali sono caratterizzate da:



Responsabilità limitata dei soci: essi rischiano solo il denaro che hanno investito
nella società.
Il fatto che essere soci non comporta necessariamente la possibilità di prendere
decisioni relative all’amministrazione della società: nelle grandi società vengono
spesso eletti degli amministratori esterni (amministratori delegati o manager),
dunque non sempre il socio è anche amministratore, tranne nelle piccole
società.
Il fatto che la qualità di socio è liberamente trasferibile (sia per cessione
volontaria sia per decesso): non è richiesta nessuna modifica del contratto di
società e dipende esclusivamente dalla volontà del socio in uscita.
Questi tre punti si spiegano tenendo in considerazione che la persona del socio ha
un’importanza secondaria nelle società di capitali: chi vi partecipa, infatti, lo fa solo in
quanto detentore di ricchezza, non grazie alle sue qualità o capacità personali.
Tuttavia, per motivi di fiducia, nelle società di capitali viene spesso aggiunta una clausola
di gradimento in caso di recesso di un socio: se un socio A vuole cedere la propria quota al
socio B, è necessario che il socio A informi l’Assemblea dei soci (l’organo amministrativo,
vedi di seguito) e che quest’ultima approvi l’entrata del socio B. Esiste anche il diritto di
prelazione (= il diritto di essere preferito): se il socio A intende cedere la sua quota al
socio B, lo comunica a C e D. Se il socio B non interessa a C e D, questi possono chiedere
di comprare la quota di A. Infine, in caso di morte del socio A, può capitare che gli
imprenditori, non fidandosi degli eredi, si riuniscano in assemblea per decidere se liquidarli
tutti o farne entrare uno nella società. Da queste tre eccezioni, si deduce che si tende a
conferire una certa prevalenza al diritto dell’impresa rispetto che al diritto degli eredi (nel
senso che, per esempio, i superstiti possono liquidare gli eredi senza che questi possano
entrare di diritto nell’impresa).
LE SOCIETÀ PER AZIONI
La s.p.a. è idonea per le imprese che richiedono un ingente apporto di capitali e che
comportano l’assunzione di notevoli rischi. Come già accennato nel paragrafo sulle società
di capitali, la s.p.a. nasce in seguito alla redazione di un atto notarile pubblico e alla
stipulazione del contratto sociale (detto atto costitutivo) e delle norme che la regolano
(statuto). Una volta confermata la legalità del tutto, la s.p.a. viene iscritta nel registro
delle imprese e acquisisce una personalità giuridica; la sua gestione è affidata unicamente
agli amministratori, non ai soci. Il minimo di capitale stabilito dalla legge per l’istituzione di
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una s.p.a. è di 50.000 euro, somma che viene poi suddivisa in varie porzioni, dette azioni e
rappresentate da titoli, che sono una misura della partecipazione di ciascun socio alla
società.
I soci godono di diritti amministrativi e patrimoniali; i primi includono:



Il diritto di partecipazione e di voto nelle assemblee (che si devono riunire
almeno una volta all’anno per approvare il bilancio)
Il diritto di impugnare (= contestare) le delibere assembleari non conformi alla
legge o allo statuto
Il diritto di denunciare i “fatti censurabili” al Collegio sindacale
I diritti patrimoniali, invece, comprendono:


Il diritto alla ripartizione degli utili, dei debiti e, in caso di fallimento, del
residuo attivo (= quello che rimane una volta estinti i debiti)
Il diritto all’assegnazione di azioni
GLI ORGANI DELLA SPA
Al pari di tutte le persone giuridiche, la s.p.a. è tradizionalmente dotata di vari organi
incaricati di adempiere allo scopo per cui è stata istituita:


L’assemblea dei soci: è l’organo sovrano della società, in quanto ha il potere di
nominare gli amministratori e i membri dell’organo di controllo, nonché di deliberare
su determinati argomenti, come l’approvazione del bilancio e la ripartizione degli
utili. Va sottolineato che le decisioni dell’assemblea devono essere comunicate a
tutti i soci, anche a quelli che hanno la percentuale minore di quote (diritto
all’informativa). Ci sono due tipi di assemblea:
o Assemblea ordinaria: svolge le funzioni riportate sopra, determinando anche
il compenso e l’eventuale revoca degli amministratori. È previsto un quorum
più basso per prendere le decisioni.
o Assemblea straordinaria: può stabilire un aumento di capitale o una modifica
dello statuto o dell’atto costitutivo.
L’organo amministrativo, che ha il compito di gestire il funzionamento, le
strategie e l’operato della società, come anche di convocare l’assemblea. Può essere
composto da un solo amministratore o più amministratori che, in tal caso,
costituiscono il Consiglio di amministrazione (CdA), eleggendo un presidente o un
eventuale amministratore delegato che rappresenti la volontà della società
all’esterno e in giudizio (ruolo che viene svolto dal singolo amministratore, nel
primo caso). Il CdA può anche delegare alcuni poteri agli amministratori delegati,
organi individuali che servono a compiere determinate azioni senza dover convocare
tutto il Consiglio (a cui però devono sempre rendere conto); inoltre, al suo interno
possono anche formarsi dei gruppi più ristretti di amministratori, detti comitati
esecutivi. NB: non tutti i poteri possono essere delegati: è il caso della redazione
del bilancio o dell’aumento del capitale sociale. Gli amministratori devono
rispondere del loro operato verso la società, i singoli soci, i creditori sociali, ed
eventualmente verso soggetti terzi.
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
Un organo di controllo e di revisione, che può essere chiamato collegio
sindacale, consiglio di sorveglianza o comitato di controllo, e verifica che gli
amministratori abbiano osservato la legge e lo statuto. I membri del collegio
sindacale hanno un mandato della durata di tre anni e devono possedere
competenze tecnico/professionali (devono essere commercialisti iscritti in appositi
albi). NB: il suo è un controllo di legalità, non di merito, nel senso che non può
stabilire a priori che una decisione amministrativa non è adeguata per il successo
dell’impresa.
GLI ORGANI DI CONTROLO ESTERNI



Il revisore legale dei conti: può essere una società o una persona fisica; deve
controllare che il bilancio sia stato formulato in maniera corretta (controllo
contabile).
La CONSOB: è un organo pubblico che serve a tutelare e a garantire una maggiore
trasparenza per gli investitori.
L’autorità giudiziaria (Tribunale): i soci vi ricorrono quando sospettano che vi siano
state gravi irregolarità nella gestione della società (art. 2409).
LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA (S.R.L.)
Si costituisce sempre previa formulazione di un atto pubblico notarile, ma il capitale
minimo è di 10.000 euro e non può essere rappresentato da azioni: i soci ne acquisiscono
una frazione chiamata “quota”, che può essere ulteriormente suddivisa (a differenza delle
azioni). Un’altra differenza rispetto alle s.p.a. è che nelle s.r.l. gli amministratori possono
ricoprire l’incarico a tempo indeterminato; inoltre, non è necessario l’organo di controllo
(nel caso, deve essere composto da un solo sindaco), in quanto il controllo viene
effettuato direttamente dai soci, che possono chiamare un commercialista. Oggi i soci
possono decidere se costituire una s.r.l. la cui disciplina si avvicini a quella della s.p.a. (nei
limiti di quanto detto poc’anzi per le s.r.l.) oppure a quella delle società di persone, in
modo da assegnare più rilevanza alla figura del socio (es. tutti i soci sono amministratori),
pur conservando il beneficio della responsabilità limitata. Va anche segnalato che, se per
esempio una s.r.l. di Milano decidesse di trasferire la propria sede all’estero, prevarrebbe il
voto dei soci con la percentuale di quote maggiore (= se un socio ha il 70% del capitale, il
suo parere prevale su quello dell’altro socio con il restante 30%; quest’ultimo può
adeguarsi alla situazione oppure recedere dalla società, chiedendo che gli venga data la
quota che gli spetta). In caso di scioglimento o di fallimento, la s.r.l. non cessa
immediatamente di esistere: vengono nominati uno o più liquidatori, e la società può solo
portare a termine i contratti in corso, senza però stipularne di nuovi. Spetta ai liquidatori
estinguerne i debiti, distribuendo quanto rimane successivamente tra i soci.
Dal 2012, il legislatore italiano ha previsto la possibilità (inizialmente solo per i minori di 35
anni) di costituire delle s.r.l. con un capitale minimo di 1 euro e inferiore a 10.000 euro
(società a responsabilità limitata semplificata): il notaio redige l’atto notarile
gratuitamente, ma l’atto costitutivo viene stabilito dalla legge e non può essere modificato.
In realtà, però, a causa del loro basso capitale iniziale, le s.r.l.s. non sono prese
seriamente in considerazione all’estero. NB: nelle s.r.l. l’apporto può essere formato da
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danaro o da beni*, e bisogna versarne solo il 25% alla banca; nelle s.r.l.s. l’apporto deve
essere conferito solo in danaro e per intero, e i soci devono essere persone fisiche.
*Quando il patrimonio viene conferito in natura (= sotto forma di beni, es. un immobile),
occorre che il valore del bene venga valutato attraverso una perizia, in quanto esso
costituisce una garanzia per i creditori. La perizia viene normalmente realizzata da
commercialisti esterni, che vengono eletti dal tribunale (nelle s.p.a.) o dai soci (nelle s.r.l.)
e devono giurarla, assumendosi le loro responsabilità legali. Affinché una perizia sia valida,
non devono trascorrere più di 60 giorni dal suo giuramento. È un modo per impedire che i
soci “barino” sopravvalutando i loro beni e prendendosi una fetta di utili maggiore del
dovuto.
Riassumendo somiglianze e differenze tra s.r.l. e s.p.a.:
S.p.a.
 Azioni liberamente trasferibili, senza
modifica di contratto
 Responsabilità limitata
 Conferimenti in danaro o
beni/servizi
 Almeno 50.000 euro per costituirle
 Capitale diviso in azioni
 Incarico a tempo determinato (3
anni) per gli amministratori
 Organo di controllo obbligatorio
S.r.l.
 Quote liberamente trasferibili, senza
modifica di contratto
 Responsabilità limitata
 Conferimenti in danaro o
beni/servizi
 Almeno 10.000 euro per costituirle
 Capitale diviso in quote
 Incarico a tempo indeterminato per
gli amministratori
 Organo di controllo facoltativo
(massimo 1 membro)
GESTIONE, STRATEGIA, TATTICA
Come si è visto, l’impresa in quanto tale è definita in primis dalla capacità di organizzare le
proprie risorse umane, finanziarie e materiali, assicurandosi che tutte le proprie
componenti si muovano secondo una visione unitaria. Lo scopo primario dell’impresa (che
la rende etica) è quello di creare valore, il che significa che, in condizioni di libero mercato,
i prezzi pagati dai clienti sono superiori a quelli pagati dall’impresa per acquistare le risorse
e le materie prime. Quindi, attraverso il processo di produzione che si svolge all’interno
delle imprese, è possibile aggiungere un valore alle materie assorbite dal sistema
economico; tale processo può essere suddiviso in: acquisto, trasformazione/produzione,
vendita. Il valore di un prodotto finale, però, deriva anche da come viene svolto il
processo di vendita, specialmente nel caso del settore dei servizi: quando il supermercato
compra i barattoli di Nutella dalla Ferrero, esso non li trasforma ulteriormente, ma si limita
a renderli disponibili alla gente ordinaria. In questi casi, quello che conta è il modo in cui la
produzione viene resa disponibile al mercato: non è dunque vero che il settore dei servizi
non aggiunge valore ai prodotti; al contrario, in questo campo entra in gioco la
componente “soft” dell’economia, che include marketing, design, comunicazione, logistica,
ricerca e sviluppo, e così via (= tutto ciò che contribuisce al cosiddetto “storytelling”). Ciò
rende il settore dei servizi la vera forza del sistema economico, essendo una delle sfere
che genera maggiore occupazione.
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L’organizzazione può essere vista sotto due aspetti. Il primo aspetto è incentrato sui tempi
e i metodi di trasformazione: coordinando persone, risorse materiali e rispettive mansioni
attraverso le varie fasi del ciclo di produzione, deve essere garantita la massima efficienza;
il secondo aspetto, invece, si basa sull’elemento del capitale umano, ossia nel senso di
appartenenza al team e nella condivisione dei valori dell’impresa: un buon manager deve
anche saper creare un forte clima organizzativo tra le persone (deve essere una sorta di
psicologo). Pertanto, un’organizzazione adeguata non deve essere incentrata solo sulle
componenti meccaniche dell’impresa, ma deve tener conto anche della partecipazione dei
dipendenti ai valori della medesima. Il tipico esempio di organizzazione esclusivamente
“meccanica” è quello dell’organizzazione statale-burocratica (pubblica), che ha portato
l’URSS al tracollo.
I MODELLI ORGANIZZATIVI
L’azienda è fondata essenzialmente su tre elementi: il sistema delle risorse umane, il
sistema dei beni (risorse materiali) e il sistema delle operazioni (organizzazione). Di
estrema importanza è la fase di attribuzione dei compiti e delle mansioni ai vari
dipendenti, secondo le combinazioni più opportune per raggiungere gli obiettivi aziendali.
Per farlo, si applicano i cosiddetti “modelli organizzativi”, che rendono ciascuna azienda un
unicum rispetto a tutte le altre. Si tratta di 3 diversi insiemi di principi che determinano le
decisioni del management di un’impresa e che, quindi, sono alla base della sua struttura e
dei suoi meccanismi organizzativi* (in pratica, il modello definisce la struttura e i
comportamenti dell’impresa, mentre la struttura è solo una parte del modello). L’adozione
di uno dei 3 modelli dipende dalla complessità di ogni organizzazione, dalle risorse
disponibili, dalle strategie decise dai propri soggetti economici, dalla tipologia di
prodotto/servizio offerto e dall’ambiente generale e specifico. L’ambiente generale include
svariati fattori esterni all’impresa di carattere tecnologico, politico, legale e, soprattutto,
culturale (ideali, norme sociali), demografico e sociologico. L’ambiente specifico, invece,
comprende tutti quei soggetti fisici o giuridici che interagiscono con l’impresa. Può capitare
che, nel corso della sua vita, un’impresa adotti diversi modelli organizzativi a seconda della
sua evoluzione.
*I meccanismi organizzativi sono le modalità, all’interno di una struttura, con cui
interagiscono tra di loro le componenti di un’impresa. Ci sono tre tipi di meccanismi
organizzativi: formale-rigido (basato sulle regole amministrative, che non lasciano alcun
grado di libertà ai dipendenti; è tipico della burocrazia, del diritto amministrativo e delle
imprese pubblico-statali), formale-aperto (basato su una serie di procedure gestionali,
che lasciano un più ampio margine di libertà), e informale (basato sulla consuetudine,
non su direttive scritte). Tutte le imprese cercano di adottare meccanismi formali-aperti,
perché sono quelli che favoriscono maggiormente la produzione.
In generale, ogni impresa deve adottare un sistema di organizzazione e di controllo in
grado di individuare le aree di rischio, garantire che le risorse a disposizione siano
impiegate in maniera adeguata e prevedere sanzioni in caso di comportamenti interni
illeciti.
IL PRIMO MODELLO: LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA ELEMENTARE
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È tipico delle imprese con pochi dipendenti, che non devono gestire particolari
complessità. Tale modello spesso viene applicato all’inizio della vita di un’impresa, ed è
caratterizzato dal ruolo preponderante dell’imprenditore, ovvero il proprietario, nelle cui
mani è concentrato il potere di direzione, coordinamento e controllo. È evidente che tale
struttura è gerarchica, essendo finalizzata a rispondere alle domande e ai desideri
dell’imprenditore (si parla di imprese “one man one business”). Presenta il vantaggio della
chiara identità del pensiero, della comunicazione immediata e dell’agilità operativa, con
costi di organizzazione e comunicazione ridotti. Allo stesso tempo, però, è gravata dal
limite della mancanza di una visione plurale e di un sistema di checks and balances (freni
e contrappesi). Un esempio di struttura organizzativa elementare è l’impresa artigianale o
l’impresa a conduzione familiare o imprenditoriale (nella conduzione imprenditoriale è
assente la dialettica tra componenti della famiglia, che permette di ridurre il rischio di
decisioni monopolistiche).
Il capo è sempre necessario, ma è fondamentale anche l’accountability, cioè il dover
rispondere del proprio operato, con il rischio di essere rimossi o di fallire in caso di cattiva
gestione. Spesso il ruolo dell’imprenditore diventa corrotto quando il meccanismo di
elezione delle persone che ruotano intorno a lui si fonda su meccanismi che non tengono
conto delle capacità dell’individuo: è il caso dei cosiddetti “cerchi magici”, termine che
indica il gruppo di persone che si forma intorno al capo in virtù della simpatia personale o
della fiducia/fedeltà (i rapporti imprenditoriali basati esclusivamente sulla fiducia sono
gravemente compromessi; ci si dovrebbe basare sulla lealtà, ovvero la fedeltà alla verità).
Nella struttura organizzativa elementare un ruolo importante viene svolto anche
dall’addetto alla contabilità e all’amministrazione (sono competenze tecniche, che spesso
l’imprenditore capo non possiede, ma che hanno una funzione puramente formale),
dall’addetto alla produzione e dall’addetto alla rete di vendita. In genere, se l’imprenditore
è un buon artigiano assume un addetto alle vendite, mentre se è un bravo commerciante
assume un addetto alla produzione e all’amministrazione.
IL SECONDO MODELLO: LA STRUTTURA FUNZIONALE
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Il termine “funzione” indica la modalità di realizzazione di un determinato fine durante lo
svolgimento generale di un’attività. Nella cornice dell’attività dell’impresa, dunque, i vari
membri si specializzano nello svolgere funzioni, ossia compiti particolari e diversi gli uni
dagli altri. Tali compiti dipendono dalle finalità intermedie che vengono assegnate alle
diverse parti dell’impresa, eppure, nonostante la loro specificità, si integrano gli uni con gli
altri, contribuendo al funzionamento generale della medesima e permettendole di
adempiere al suo obiettivo ultimo, ovvero creare valore.
Tra le finalità intermedie (dunque tra le funzioni) rientrano:







La direzione (o funzione) acquisti: l’insieme di persone che devono comprare le
risorse alle migliori condizioni possibili e con le giuste tempistiche;
La direzione del marketing: coloro che cercano di capire se un prodotto avrà
successo, tenendo in considerazione le 4 P;
La direzione vendite: coloro che vanno a vendere il prodotto (è diversa dal
marketing);
La direzione dell’amministrazione e della finanza, che si occupa della contabilità
interna (o “controllo di gestione”). Il suo capo è il CFO, che è l’alter ego del CEO
(amministratore delegato);
La direzione di produzione: coloro che dirigono l’attività di trasformazione delle
risorse all’interno dell’impresa;
La direzione del personale (human resources), che ha il compito di motivare i
dipendenti;
La direzione legal and tax: coloro che si occupano dei controlli sul piano legale e
fiscale.
Normalmente, nella struttura funzionale il capo (CEO) si avvale di diverse persone che
gestiscono ognuna una funzione diversa e che devono riportare direttamente a lui (per
questo sono dette “primi riporti”): queste hanno autonomia nella direzione della loro
funzione specifica, ma devono perseguire il fine stabilito dal CEO o dal management. Dallo
schema si evince che tutte le funzioni rispondono al direttore generale, eccetto la funzione
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di auditing, che ha lo scopo di verificare che una società possieda una struttura e delle
procedure adeguate per svolgere correttamente la propria attività, e che tali procedure
vengano effettivamente rispettate dagli addetti ai lavori. Per esempio, le persone
incaricate di effettuare un audit sulla funzione acquisti devono controllare se i suoi
dipendenti lavorano in modo adeguato e se sono previste procedure che evitino il rischio
di una cattiva qualità nelle consegne (NB: l’auditing non è un’attività contabile, ma è
un’attività di controllo effettuata in prospettiva consultiva, e non punitiva). L’audit può
anche proporre miglioramenti al gestore di una funzione e persino all’Amministratore
delegato o alla Direzione generale; del resto, i membri dell’auditing non devono rispondere
al Direttore generale, ma devono avere un’indipendenza tale da poter formulare analisi
critiche e proposte di cambiamento adeguate. Essi fanno capo o al Presidente della società
(che non svolge un ruolo operativo) oppure al cosiddetto Comitato audit, che fa parte del
Consiglio d’amministrazione.
Oggi il valore di un’impresa si misura non solo in termini di utili e di rendimento, ma anche
in termini di performance, espressione che fa riferimento sia ai risultati evidenti per tutti
(utili) sia al profilo di rischio che l’impresa deve sostenere per ottenere tali risultati (il
rischio è una componente nascosta ai non addetti ai lavori). Per evitare un calo di
reputazione o, addirittura, di finire in cause penali, le imprese devono ridurre al minimo
possibile i rischi (a tal scopo interviene anche l’audit, segnalando le aree critiche): ciò
contribuisce a migliorare la loro performance. Questo perché utili elevati in presenza di
rischi elevati valgono meno di utili leggermente inferiori a fronte di rischi bassi (perché i
primi potrebbero anche trasformarsi in perdite impossibili da gestire per l’impresa).
Il rischio della struttura funzionale è la mancanza di un coordinamento adeguato tra la
base e i vertici dell’impresa; bisogna anche tenere presente che questo modello richiede
l’emissione e la circolazione di molti documenti per poter funzionare in modo appropriato,
il che aumenta i costi interni di produzione (che sono costi non direttamente produttivi).
I VANTAGGI DELLA STRUTTURA FUNZIONALE
La struttura funzionale presenta 4 diversi vantaggi che la rendono attrattiva, contribuendo
all’efficienza e all’efficacia. Il primo è la capacità di rendere minimi i costi fissi per unità di
prodotto dell’impresa. A differenza dei costi variabili, il cui ammontare dipende dalla
quantità di merce prodotta e dal processo produttivo, i costi fissi, pur non essendo
rigidamente invariabili, non sono meccanicamente collegati all’output dell’impresa. Per
esempio, in una centrale elettrica la quantità di metano e di carbone che viene consumata
dipende dalla quantità di kW che deve essere prodotta (costo variabile), ma lo stesso non
si può dire per lo stipendio del direttore (costo fisso).
In base a questo esempio, sembra che per migliorare il profilo dei costi fissi di un’impresa
basti aumentarne la produzione (in modo da ottenere maggiori ricavi). In realtà, però,
esiste una soglia di produzione oltre la quale il costo fisso si collega all’output: se si
decidesse di raddoppiare il numero di turbine per incrementare i kW prodotti, quel singolo
direttore da solo non sarebbe più in grado di controllare tutta la produzione (e quindi
andrebbe assunto un altro direttore, raddoppiando i costi fissi). In conclusione, è vero che
per ottimizzare i costi fissi bisogna aumentare la produzione, tuttavia va anche tenuto in
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considerazione il concetto complementare di “capacità produttiva” garantita da una certa
struttura (= la massima quantità di output che un’impresa può realizzare con quella
struttura). Più ci si avvicina al limite della capacità produttiva, più aumentano i rischi, tra
cui quello che i clienti parlino male dell’impresa perché non soddisfatti del suo prodotto.
Suddividere un’attività in varie funzioni consente a tutta l’impresa di beneficiare del lavoro
di ogni singola funzione, ottimizzando i costi fissi: per esempio, se alla IULM la funzione
marketing organizzasse l’open day, sicuramente l’università pagherebbe un costo fisso per
retribuire gli addetti ai lavori, però beneficerebbero di tale spesa tutte le facoltà allo stesso
tempo (interpretariato, arte e turismo, comunicazione…); la IULM eviterebbe così
duplicazioni dei costi fissi per l’open day.
Il secondo vantaggio della struttura funzionale è che consente di sfruttare le economie
di scala, che non sono direttamente collegate all’aumento della quantità prodotta. Il
termine “scala” deriva dall’inglese scale (rapporto) e fa riferimento a quelle economie che
permettono alle imprese di ridurre al minimo i costi medi di produzione a fronte di un
ingrandimento degli impianti, grazie allo sfruttamento di un rapporto proporzionale tra i
diversi fattori produttivi. Tre fattori determinano le economie di scala:
1) L’interazione delle linee produttive. Esempio, in una società che produce
bevande, il processo produttivo è suddiviso in 4 fasi: creare la bottiglia, mettere
l’etichetta, versarci il liquido e avvitare il tappo. Per ragioni meccaniche, non è detto
che lo svolgimento di ogni fase in un’unità di tempo avvenga con la stessa velocità
delle altre: poniamo il caso che la macchina impiegata nelle prime due fasi crea 3
bottiglie ogni 2 secondi (1,5 bottiglie al secondo), mentre la macchina che si occupa
di immettere il liquido riesce a riempire solo una bottiglia al secondo. È evidente
che la prima macchina deve lavorare a 3/4 della propria capacità produttiva per
rispettare il ritmo della seconda. All’imprenditore astuto conviene dunque applicare
la legge del minimo comune multiplo (m.c.m. tra 1,5 e 1 = 3) e dotarsi di 2
macchine che creano le bottiglie (2mac x 1,5bot x 1s= 3bot/s) e 3 macchine che le
riempiono (3mac x 1bot x 1s= 3bot/s), in modo che vengano completate 3 bottiglie
ogni secondo. Ecco perché nell’economia di scala non conta tanto la quantità
prodotta, quanto piuttosto che le diverse fasi siano combinate in modo
proporzionale nel tempo.
2) La funzione di riserva, di capacità e di servizio. In ogni attività produttiva è
essenziale tenere anche in considerazione il costo dei mezzi di riserva: se l’ATM
prevede che ogni 10 tram 1 tram si fermi, deve avere pronto un tram di riserva che
subentri quando uno degli altri entra in pausa. In base a questo rapporto, l’azienda
dovrebbe prevedere 2 tram di riserva qualora circolassero da 10 a 20 tram;
chiaramente, per ottimizzare il margine di riserva, all’ATM converrebbe far circolare
20 tram invece che 12 o 13, in modo da “spalmare” su più mezzi possibili il costo
del tram di riserva aggiuntivo. In conclusione, la quantità di macchinari da tenere
come riserva per evitare la rottura del ciclo produttivo costituisce un’economia di
scala.
3) La legge del cubo quadrato. Mentre i costi si sviluppano secondo una legge di
metri quadrati, i ricavi si sviluppano secondo una legge di metri cubi. Prendiamo in
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considerazione gli oleodotti: il costo per realizzarne uno dipende dalla quantità di
superficie che occupa (quindi dalla lunghezza); il ricavo è determinato dalla quantità
di liquido che passa dentro il tubo, che dipende dal diametro della sezione del tubo
e dalla velocità di trasporto del fluido. Ne deriva che costruire oleodotti comporta
costi che crescono al quadrato (in base all’area ricoperta -> m2) e ricavi potenziali
che crescono al cubo (in base al volume dell’interno del tubo -> m3).
NB: un aumento eccessivo delle dimensioni di un’impresa può portare al gigantismo,
ovvero a una situazione in cui, nonostante la società sfrutti i vantaggi delle economie di
scala, i costi di coordinamento e controllo della struttura aumentano eccessivamente e non
si è più efficienti. In questo caso si parla di diseconomie di scala.
Il terzo vantaggio della struttura funzionale è costituito dalle economie di scopo, cioè dal
fatto che lo svolgimento di una certa attività consente di conseguire ulteriori obiettivi o
benefici, senza creare costi aggiuntivi. Esempio: il fine delle grandi compagnie aeree
internazionali che effettuano voli oltreoceano è quello di avere l’aeroporto più importante
di tutti (detto hub). Mettiamo che Air France voglia organizzare un volo da Milano a New
York: per riempire l’aereo che effettua il volo transoceanico, essa garantisce ai clienti un
primo volo gratuito che fa scalo al Charles de Gaulle (hub) di Parigi. In questo modo, più
clienti vengono “invogliati” ad acquistare il biglietto Milano-New York (perché include solo
il costo del volo Parigi-New York) e Air France non ci perde, perché il costo che ha pagato
per il volo Milano-Parigi (che avrebbe dovuto effettuare in ogni caso) verrà rimborsato
dalla maggiore affluenza di clienti che pagano il volo intercontinentale.
Una delle applicazioni dell’economia di scopo è l’economia circolare, in cui i prodotti
scartati vengono riutilizzati. Per esempio, una società che produce succhi spreme le arance
ma poi usa la buccia per creare delle essenze, ottenendo quindi due prodotti (succo ed
essenza) e più valore, a fronte di un costo e di un processo produttivo unico (si parla
anche di stretching of the value chain).
La quarta fonte di risparmio garantita dalla struttura funzionale è costituita dalle
economie di esperienza: inizialmente si sbaglia, però si apprende attraverso vari tentativi
come svolgere in modo più efficiente una certa attività, risparmiando il più possibile sui
costi. Per esempio, i primi televisori realizzati da un’impresa molto probabilmente avranno
dei difetti (minore know-how = peggiore qualità), poi alla luce dei feedback dei clienti essa
sarà in grado di apportare una serie di modifiche utili ai propri prodotti.
NB: i costi fissi e le prime due economie si basano sulle quantità prodotte nell’unità di
tempo. Al contrario, le economie di esperienza prendono in considerazione il numero
complessivo di tentativi effettuati nel tempo per compiere una determinata azione. Di
conseguenza, mentre nei primi tre livelli bisogna organizzare la produzione tenendo conto
dell’unità di tempo, nelle economie di esperienza è necessario produrre in grandi quantità,
perché il successo dipende appunto dalla sommatoria dei beni prodotti. Esempio:
inizialmente una società può vendere a 95 euro i televisori che ha fabbricato pagando 100
euro: in questo modo tiene testa alla concorrenza e, allo stesso tempo, ha la possibilità di
“sperimentare”, producendo e vendendo in grandi quantità e aumentando così lo storico
della sua produzione (= la somma dei televisori che ha prodotto). Poiché nelle economie di
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esperienza il costo unitario* diminuisce a fronte di un aumento dello storico della
produzione, l’impresa riuscirà nel lungo periodo a compensare la perdita iniziale di 5 euro,
in quanto le spese di produzione scenderanno al di sotto dei 95 euro: questo perché tale
società, grazie ai vari tentativi effettuati per produrre televisori, avrà acquisito sempre più
efficienza (= avrà imparato a fabbricarli meglio spendendo meno).
*Il costo unitario è il costo medio di ogni singola unità, e corrisponde al rapporto tra il
costo totale affrontato per produrre un bene e la quantità di beni prodotti (Cunit = Ctot/Q).
Se il costo totale diminuisce, anche il costo unitario diminuisce.
LA STRUTTURA DIVISIONALE
Il termine “divisione” indica ognuna delle diverse partizioni, o unità operative, che
avvengono all’interno della struttura delle imprese (es. la Balilla ha la divisione pasta, la
divisione sughi… sono prodotti diversi e complementari, non concorrenti. La divisione è
quindi una sorta di impresa nell’impresa). Ogni divisione ha le proprie risorse e le proprie
funzioni, e si dedica a un business specifico; un “business” è una combinazione tra la
definizione di un certo prodotto, l’esistenza di un certo mercato disposto a comprarlo, e il
modo in cui si produce (in sintesi, prodotto + mercato + tecnologia, fattori che
differiscono da un business all’altro). Non esiste una chiara posizione della dottrina
aziendale che stabilisca se convenga o meno dotarsi di più divisioni, anche se fino agli anni
‘60 si prediligevano le imprese multi-business, o corporation, in quanto esse presentavano
rischi ridotti: se un settore (e una divisione) va male, viene bilanciato dal successo di un
altro settore. Tale meccanismo di controbilanciamento è detto “effetto di portafoglio” o
“effetto derivante dalla diversificazione del rischio”. In realtà, però, si è scoperto che crea
più valore un’impresa che è focalizzata su un singolo business rispetto a un’impresa
diversificata, dato che spesso il consumatore preferisce decidere in prima persona la
propria diversificazione (nel senso che magari può scegliere di comprare solo la pasta della
Balilla, ma non il sugo). Tra l’altro, in una multi-business vi è il rischio di cadere nelle
diseconomie di scala o nella duplicazione di alcune funzioni, e i costi di gestione e di
coordinamento sono assai elevati. Un ulteriore svantaggio è che le multi-business tendono
a investire le risorse dei business che hanno successo nei business che invece riscontrano
varie difficoltà, invece di chiuderli; in questo caso, il management mostra un
atteggiamento conservativo, poiché attua un sovrainvestimento di risorse a vantaggio di
una divisione che dovrebbe fallire. Infine, bisogna tenere in conto che l’immagine negativa
di una certa divisione potrebbe influire negativamente sulla reputazione delle altre.
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Come si nota dallo schema, il modello divisionale prevede una prima ripartizione in varie
divisioni (pasta, succhi, biscotti) e una seconda ripartizione, all’interno di ciascuna
divisione, in una serie di funzioni (ricerca e sviluppo, acquisti e produzione, marketing e
vendite). Nell’impresa multi-business è necessario che ci sia un organo di staff (vedi
prossimo schema) che garantisca il coordinamento tra le attività delle varie divisioni in una
prospettiva corporate (= di capogruppo): per esempio, nella Balilla le funzioni marketing e
vendite della divisione pasta, della divisione biscotti e della divisione succhi avranno
ciascuna il proprio direttore marketing, ma sarà necessario anche un direttore marketing
“corporate” che abbia una visione d’insieme dell’attività svolta da tutti i direttori marketing
e che li coordini. Questo direttore corporate, come si diceva, costituisce un organo di staff
con lo scopo di supportare il Direttore Generale, il quale ha l’unica responsabilità di
stabilire gli obiettivi del gruppo e di controllare che ogni divisione stia operando in modo
efficiente ed efficace.
LA STRUTTURA A MATRICE
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Il modello a matrice è una variante della struttura divisionale e racchiude strutture
funzionali collegate in modo verticale tra loro (es. la funzione “risorse acquisti” o “risorse
HR” delle linee pasta, biscotti e succhi), a cui si aggiungono elementi di coordinamento
orizzontali tra le divisioni. Nello schema, gli organi di staff menzionati prima corrispondono
alla “Direzione Acquisti”, la “Direzione Produzione”, la “Direzione Marketing e Vendite”, la
“Direzione HR” e la “Direzione Amministrazione, contabilità e controllo”. In pratica, i
responsabili delle funzioni “Risorse acquisti”, “Risorse produzione”, “Risorse Marketing e
Vendite”… devono rispondere sia al Direttore della Divisione (Linea) di riferimento, sia alla
“Direzione Acquisti”, alla “Direzione Produzione” ecc, a seconda della Funzione di cui fanno
parte (con la possibilità che insorgano conflitti tra le direttive delle due Direzioni). A loro
volta, le Direzioni di funzione e di divisione dipendono dalla Direzione Generale (o
Amministratore delegato), che ne esercita il controllo e il coordinamento, definendo
strategie e obiettivi.
NB: le Direzioni di ogni divisione dipendono strategicamente dalla Direzione generale, ma
non hanno rapporti tra sé stesse.
In presenza di una struttura organizzativa così articolata, è ovvio che è necessario
garantire un buon coordinamento tra le parti. Questo non significa produrre il numero più
elevato possibile di informazioni, altrimenti si vengono a creare dei costi fissi troppo elevati
(sunk costs); serve un adeguato sistema di produzione di informazioni che partano da
ciascuna divisione/funzione e vadano al direttore generale o al management, un sistema
organizzato che eviti la diffusione di informazioni ridondanti. Questa comunicazione di ciò
che avviene all’interno di ogni divisione è detta sistema di reporting, termine che indica
l’insieme di informazioni gestionali, economiche e finanziarie (= di contabilità industriale*,
o controllo di gestione), che devono essere chiare, organizzate, tempestive (per applicare
con anticipo dei correttivi in caso di criticità) e trasmesse con una frequenza prestabilita.
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*La parola “contabilità” non fa riferimento solo al bilancio di esercizio, che è utile solo per
gli esterni che hanno interessi nei confronti dell’impresa, bensì a un complesso di dati
numerici (il budget) che servono al management per capire come sta procedendo la
gestione di una divisione o di una funzione e per risolvere eventuali criticità che possono
rendere inattuabili i programmi prefissati; il bilancio d’esercizio avviene dopo che è stato
redatto il budget.
I GRUPPI DI IMPRESE
NB: non vanno confusi con le imprese multi-business, dove ogni divisione è priva di
un’autonomia societaria o giuridica.
Un gruppo di imprese è governato da un’impresa cosiddetta “holding”, che detiene una
serie di partecipazioni in altre società; tale forma di controllo si verifica nonostante
l’autonomia giuridica e societaria di ogni impresa, ma l’attività di coordinamento è più
tenue rispetto a quella della struttura divisionale (perché ogni impresa mantiene un grado
di autonomia più elevato rispetto alle divisioni all’interno di una singola società). Per
esempio, Marchionne ha diviso la FIAT originaria in 3 società autonome (che prima erano
divisioni della FIAT) – Ferrari, Fiat Chrysler Automobiles, e Fiat Case New Holland – di cui
la società Exor, controllata dalla famiglia Agnelli, è azionista di maggioranza (Exor è quindi
la società di holding del gruppo).
Esistono tre diversi tipi di rapporti tra la holding e le partecipate:
1) Rapporto di controllo: si verifica quando la holding detiene la maggioranza dei
voti nell’assemblea della sua partecipata (in pratica, il suo voto controlla
automaticamente il voto dell’assemblea). Il rapporto di controllo non implica
necessariamente che la holding abbia il 50% + 1 dei voti; basta che essa eserciti
un’influenza dominante nell’assemblea: l’UniCredit, ad esempio, controlla Fineco pur
detenendo una partecipazione pari al 35%, in quanto il 65% restante non riesce a
coordinarsi e a creare una maggioranza di blocco; ci sono anche alcune norme che
stabiliscono che determinati azionisti possono godere del diritto di voto plurimo, a
prescindere dalla quantità di azioni possedute. In Francia, per esempio, se un
azionista detiene una partecipazione da più di un anno, il peso del suo voto
raddoppia (quindi l’investitore stabile vale di più rispetto a quello speculativo).
Infine, si ha un rapporto di controllo anche quando una holding, pur non
dominando l’assemblea della partecipata, è in grado di decretarne indirettamente la
vita o la morte grazie a una serie di vincoli contrattuali: è il caso delle imprese
subfornitrici, che vendono i loro prodotti solo a un cliente e, pertanto, dipendono
implicitamente dalla volontà di quest’ultimo.
2) Rapporto di collegamento: si verifica quando una holding esercita un’influenza
rilevante su un’altra società (perché ne possiede parte delle azioni). Nel caso delle
società quotate, la holding deve detenere almeno il 10% della partecipata.
3) Rapporto di correlazione (o d’interessenza): avviene quando una società,
attraverso il controllo, esercita un condizionamento totale sull’altra (grazie al
“premio di maggioranza”). In questo caso bisogna verificare che il controllante non
si approfitti della controllata e che le operazioni tra le parti correlate avvengano in
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condizioni di libero mercato (altrimenti gli azionisti di minoranza della controllata si
troverebbero danneggiati: la controllante potrebbe prendersi tutti gli utili oppure
relegare loro tutti i debiti della controllata). Perciò, nelle società quotate dove c’è il
rischio di rapporti tra parti correlate (ossia del già accennato “beneficio privato del
controllo”), devono esserci dei consiglieri indipendenti nominati dalle minoranze che
assicurino che le operazioni tra le parti correlate avvengano nel rispetto delle regole
del mercato.
Un altro rischio è che qualora una holding (es. Exor) vendesse le proprie azioni, il
loro prezzo sarebbe di gran lunga superiore a quello delle azioni vendute da chi non
è in grado di influenzare il management della società quotata; questo perché le
azioni della holding includono anche il controllo delle decisioni dell’assemblea, detto
“premio di maggioranza” (è un’altra declinazione del beneficio privato del controllo).
Per evitare questa situazione, molti paesi hanno introdotto la regola dell’OPA
(Offerta Pubblica d’Acquisto) obbligatoria: quando un controllante cede le
partecipazioni di una società quotata a un determinato prezzo, esiste l’obbligo per
l’acquirente di offrire a tutti gli altri soci lo stesso prezzo in cambio delle loro azioni
(è un modo per mitigare il beneficio privato del controllo).
La scelta di un soggetto economico di formare un gruppo risponde a diverse esigenze, per
esempio consolidare la propria posizione in un certo mercato (grazie all’acquisizione di
imprese operanti al suo interno), aumentare di dimensioni (con tutti i vantaggi che ne
derivano, es. costi fissi, economie di scala, scopo…), internazionalizzarsi ed entrare in
nuovi settori di business, oppure suddividere la propria impresa in varie società che
operano ciascuna in un determinato settore, in modo da ridurre i costi di gestione (vedi
esempio della FIAT fatto poc’anzi).
INTEGRAZIONE VERTICALE E ORIZZONTALE
Integrazione verticale: processo che comporta l’acquisizione, da parte di un’impresa, di
altri soggetti economici che operano in diverse fasi dello stesso ciclo produttivo. Per
esempio, un’azienda che produce mobili e che si occupa solo della fase di verniciatura dei
medesimi può integrarsi verso l’alto (a monte), acquisendo un’impresa che si occupa della
fase di taglio e levigatura del legno, oppure verso il basso (a valle), acquisendo un’impresa
che si occupa dell’assemblaggio e della vendita del prodotto finito. L’integrazione verticale
è dovuta a esigenze quali: aggirare barriere tecnologiche o commerciali riguardanti i
prodotti intermedi; controllare l’acquisizione dei prodotti di input (nel caso venga acquisita
un’impresa che si occupa di logistica in entrata); coordinare l’intero processo produttivo di
un bene. Lo svantaggio principale è rappresentato dall’elevata complessità gestionale e
burocratica tipica delle strutture di grandi dimensioni.
Integrazione orizzontale: processo di acquisizione, da parte di un’impresa, di altre
imprese concorrenti che operano nel medesimo settore. Per esempio, un'impresa che
opera nel settore degli elettrodomestici e che produce lavatrici e lavastoviglie assorbe
un'impresa che opera nello stesso settore ma che produce frigoriferi. Entrambe le imprese
sono accomunate dagli stessi cicli di lavorazione, da tecnologie simili e dalle stesse
politiche di distribuzione. L'integrazione orizzontale permette di ampliare la propria quota
di mercato e sfruttare le sinergie tra due linee di prodotto complementari tra loro.
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GESTIONE, TATTICA, STRATEGIA
Gestione: è basata sull’organizzazione e sull’implementazione di una funzione aziendale.
In generale la gestione riguarda l’insieme delle operazioni propedeutiche al processo di
acquisto, produzione e vendita. In pratica, nella gestione ci si chiede quali azioni concrete
bisogna attuare e come occorre organizzarsi per rendere il più efficiente possibile
l’acquisto, la produzione e la vendita; non ci si sofferma a pensare quale mercato sia più
adeguato per l’impresa oppure quali strategie adotterà la concorrenza.
Tattica: è un livello un po’ più sofisticato rispetto alla gestione. Le attività tattiche non
riguardano l’esecuzione efficiente di attività operative, bensì consentono di acquisire
vantaggi su un piano più complesso. Una tattica tipica riguarda le politiche di vendita
realizzate da un’impresa (es. lancio una campagna di sconti per vendere i miei prodotti);
non si tratta di operazioni in serie, che eseguo costantemente, bensì di operazioni
opportunistiche, che eseguo occasionalmente per catturare delle opportunità.
Strategia: le decisioni strategiche sono quelle più critiche per un’impresa, in quanto
assorbono una grande quantità di risorse e comportano scelte difficilmente reversibili che
avranno conseguenze nel medio o nel lungo termine, a differenza di quelle di gestione,
che hanno un effetto nel quotidiano (una volta che ho preso una decisione di tipo
strategico, resterò immobilizzato su quel determinato percorso). Esse vengono assunte in
seguito a un’analisi detta “complessa”, perché tiene conto di diverse variabili che bisogna
cercare di anticipare, capendo la combinazione dell’una con l’altra. Chiaramente scegliere
la strategia di un’impresa significa anche programmarne la realizzazione. A tal fine,
bisogna anzitutto stabilire le finalità e gli obiettivi generali di un’impresa (oltre a quello
naturale di sopravvivere), individuando ad esempio un prodotto o un mercato che le
consentirà di essere più forte dei propri concorrenti. D’altronde, la strategia serve proprio
a essere più competitivi e più forti della concorrenza, e per farlo l’impresa deve creare più
valore per i propri clienti, scegliendo la struttura organizzativa più adeguata e manager
che consegnino nel miglior modo possibile i risultati rispetto alle esigenze del mercato.
Dopo aver definito le finalità generali, bisogna determinare le politiche dell’azienda (=
come comportarsi) e gli obiettivi intermedi necessari per attuarle (chiaramente le politiche
devono essere in linea con le finalità generali). Per esempio, nel caso della FIAT una
finalità generale potrebbe essere quella di diventare il leader dei crossover negli USA e in
Europa, mentre un obiettivo intermedio potrebbe essere investire nella ricerca sui SUV.
Per conseguire gli obiettivi intermedi vanno realizzati dei programmi, ossia descrizioni delle
attività da svolgere nel breve periodo e delle risorse materiali e umane necessarie. Sono
infine fondamentali il monitoraggio e l’eventuale adeguamento dei programmi: monitorare
significa controllare e assicurarsi che questi programmi possano effettivamente essere
realizzati; in caso contrario bisogna applicare un processo “omeostatico a retroazione”,
ovvero bisogna fare un passo indietro.
In sintesi, una volta definita una strategia a livello teorico per rendere competitiva
l’impresa, il passo successivo è la pianificazione strategica, cioè il processo che permette di
individuare da un lato le sue finalità generali, dall’altro le procedure e gli obiettivi intermedi
necessari per realizzarle. La pianificazione strategica rappresenta pertanto la modalità
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attraverso cui si mette in pratica la strategia dell’impresa; i suoi obiettivi generali devono
poter essere raggiunti gradualmente e devono essere condivisi da tutti i soggetti che
fanno parte dell’azienda, soggetti a cui devono essere comunicati con chiarezza i vari
tempi di realizzazione degli obiettivi intermedi. La direzione della pianificazione strategica
spetta al soggetto economico, che è costituito dai vertici della società (NB: non è detto
che i vertici coincidano con i proprietari di quell’impresa; spesso infatti l’Assemblea nomina
i manager, e non gli azionisti, come amministratori). Il problema è che in questo modo la
strategia dell’impresa viene fatta da persone (i manager) che non rischiano il proprio
capitale: ciò crea un’asimmetria di rischio, perché in caso di errori il manager rischia solo il
posto di lavoro, ma non i capitali investiti (manca l’accountability, ovvero la necessità di
rispondere del successo o dell’insuccesso delle proprie decisioni); di conseguenza, i
manager tendono a prendere decisioni rischiose, sapendo che le conseguenze di eventuali
fallimenti ricadranno su qualcun’altro. Dal canto loro, se gli azionisti vedono che un’azione
va male, cambiano i manager (è la “teoria dell’agenzia”: il principal, ovvero l’azionista,
delega la determinazione della strategia all’agent, ovvero il manager; tuttavia, se gli
interessi dei due non convergono, avviene una crisi).
Per ottenere elevate performance, bisogna assicurare una relazione di sinergia tra
strategia, struttura e ambiente in cui si opera. Il primo libro di strategia della storia fu
scritto nel 1961 da Alfred Chandler Jr. (Strategy and structure: Chapters in the History of
the American Industrial Enterprise), che fu il primo a definire il concetto di strategia,
precisando che non si può piegare la strategia alla struttura dell’impresa, ma bisogna
adeguare la struttura alla strategia. A sua volta, la strategia è determinata dal mercato,
che ha anche un ruolo morale: Smith intuì che nel libero mercato c’è una tendenza ai
comportamenti corretti che ne fanno l’interesse (teoria dei sentimenti morali: è corretto ciò
che fa l’interesse del mercato).
La pianificazione strategica implica anche il saper fare pre-visioni, ossia essere in grado di
vedere prima qualcosa che ci sarà, immaginando gli scenari in cui ci troveremo tra un
determinato periodo di tempo alla luce della situazione attuale, in modo che l’impresa sia
in grado di adeguarvisi (non previsioni nel senso astrologico o divinatorio). In altre parole,
la pianificazione strategica serve a classificare gli eventi secondo la loro rispettiva
probabilità di verificarsi, abbinandovi poi le azioni necessarie per assicurare la governabilità
degli stessi.
Una strategia deve perseguire il massimo livello di efficacia e di efficienza possibile. A tal
fine, le varie economie di scala, di scopo e di apprendimento permettono di migliorare
l’efficienza di un’impresa, ottimizzando il rendimento delle risorse di input in rapporto
all’output e permettendo quindi di risparmiare sui costi medi unitari di un prodotto e di
essere più competitivi. La pianificazione strategica può definirsi su 3 livelli:

A livello corporate: è il livello a monte, e riguarda il modo in cui un’impresa
mette insieme e coordina diversi business, che realizzano prodotti diversi tra loro,
destinati a mercati diversi. Questo livello, in pratica, riguarda le corporation, o
conglomerati.*
31


A livello di business: significa comprendere la combinazione tra prodotto,
mercato (e concorrenza) e tecnologia; a volte, per esempio, capire come sfruttare
al meglio una determinata tecnologia rende più competitivi.
A livello funzionale: decidere quali strategie di marketing, di comunicazione, di
posizionamento del prodotto o di prezzo adottare (è il livello a valle della
pianificazione strategica, è di carattere esecutivo). Va ricordato che la funzione è un
insieme di persone che si distingue dal resto dell’organizzazione perché si dedica a
un’attività mirata e specifica all’interno dell’impresa; le funzioni non sono isolate tra
loro, ma vengono coordinate dai manager.
*Il concetto di corporation fu segnalato per la prima volta nel libro The Modern
Corporation and Private Property (1932) da Berle e Means, che avevano notato che negli
USA si era diffuso un nuovo modello di imprese, ossia le public companies (o corporation),
grandi società in cui coesistono diversi business (es. la General Electric).
La pianificazione a livello corporate non si occupa dei singoli business (quella è
pianificazione di business), bensì del modo in cui combinare vari business diversi per
generare valore aggiuntivo: se ad esempio metto insieme in un’unica corporation un
business A che vale 100 e un business B che vale 50, tale corporation può valere magari
170, e quel 20 aggiuntivo deriverà esclusivamente dalla sinergia e dalla combinazione tra i
due business (non fa parte del loro valore intrinseco). Se invece una corporation non dà
origine a una sinergia (= componente di valore aggiuntivo che deriva dall’unione di più
business) allora è meglio attuare uno split, cioè separare i business (nel caso, per
esempio, in cui i costi di coordinamento e di gestione siano troppo elevati: span of
control). Oggi si dice spesso che le imprese devono concentrarsi esclusivamente sul loro
core business per avere successo ed essere più efficienti (perché occupandosi solo di
quello si riducono i rischi di dispersione); ovviamente però ciò comporta maggiori rischi di
estinzione, in quanto se il core business va male, fallisce l’impresa.
IL CICLO DI VITA DEI PRODOTTI E DEI BUSINESS
Per capire la logica con cui le imprese ricavano valore per il semplice fatto di aver unito più
business, vanno considerati due elementi che li differenziano:
32


La natura dei business (es. produzione aerei, motori, lampadine…).
Il livello di anzianità o maturità dei prodotti realizzati da quel business: i
prodotti, infatti, seguono un proprio ciclo di vita (nascita, sviluppo, maturità e
declino), perciò in ogni linea possono esserci prodotti che presentano un diverso
livello di maturità.
Un’ottima strategia corporate dovrà assicurare che ogni business sia caratterizzato da
prodotti distribuiti in fasi diverse del ciclo di vita: non devono esserci tutti prodotti in fase
di maturità, altrimenti quel business sarebbe in fin di vita; al contrario, il business deve
continuare a evolversi. Volendo fare un esempio, la FIAT produce prodotti in fase di
maturità (Punto e Panda), prodotti tra la fase di sviluppo e quella di maturità (500 e
Crossover) e prodotti innovativi, che devono ancora attraversare la fase di crescita (ibridi e
auto elettriche). Questo ciclo di vita interessa anche i business stessi: oggi esistono
business maturi in cui è impensabile rinnovare i prodotti a causa di una serie di innovazioni
esterne; è il caso per esempio del settore automobilistico, di fronte alla diffusione sempre
più frequente del car sharing oppure del trasporto ad alta velocità. Ne deriva che una
buona strategia corporate non solo dovrà cercare di estrarre economie di scala e di scopo
(= sinergie) dall’unione di vari business, ma dovrà anche tener conto del ciclo di vita dei
business in quanto tali (e non dei prodotti*), in modo da evitare che core business maturi
non vengano sostituiti da core business più giovani dopo la loro morte. Questo perché
sono frequenti i fenomeni di value migration, vale a dire che il vantaggio competitivo
tende a essere eroso.
*Un’impresa può anche essere all’avanguardia nella produzione di auto con motore diesel,
ma il problema è che il business del motore diesel è ormai maturo e si sta avvicinando al
declino.
LA MATRICE DEL BOSTON CONSULTING GROUP
33
È legata all’analisi del ciclo di vita di un prodotto e combina la quota di mercato relativa a
un prodotto specifico (che ne indica la forza) con il tasso annuale di crescita del mercato di
quel prodotto. I prodotti con un’alta quota di mercato e che fanno parte di un mercato con
un alto tasso di crescita sono i prodotti “star”, caratterizzati da utili elevati e da un flusso
di cassa equilibrato; dovrebbero essere i prodotti di punta di un’azienda. Ci sono poi i
“cash cow”, ovvero prodotti maturi con un’alta quota di mercato relativa, ma che fanno
parte di un mercato che non cresce quasi più; essi, pertanto, generano molta liquidità ma
sono a fine corsa, non è conveniente investire in un loro ulteriore (e improbabile) sviluppo.
Il nome deriva dal fatto che è meglio “mungerli” e mantenerli vivi finché è possibile trarne
dei profitti. I “question mark” sono prodotti poco forti che rappresentano vere e proprie
scommesse, poiché il mercato di appartenenza è in forte crescita; di conseguenza,
generano pochi utili e presentano un flusso di cassa negativo, in quanto richiedono molti
investimenti ma non è detto che acquisiranno valore sul mercato. In poche parole,
potrebbero diventare prodotti star o “dog”, ossia prodotti con una bassa quota di mercato
che non crescono più.
LA MATRICE DI ANSOFF
È un altro modo per ricavare il valore derivante dallo stare insieme. Non si occupa del ciclo
di vita di un business, bensì prende in considerazione il fattore rischio: come già detto in
precedenza, solo una valutazione che tenga conto sia del rendimento sia del rischio potrà
fornire una corretta misura dei risultati (performance) dell’impresa. Ansoff si chiede se è
possibile creare del valore aggiuntivo mettendo insieme business diversi, affinché dalla
loro combinazione derivi almeno un minore rischio complessivo (se non un migliore
34
rendimento). In base al principio della diversificazione del rischio, formulato nel 1952 da
Markowitz, la risposta è sì: infatti, la correlazione dei risultati di diversi business può
influire sul rischio complessivo dell’impresa. Per esempio, se io da investitore compro
azioni della FIAT e della Volkswagen, ho acquisito attività con un elevato livello di
correlazione tra loro, perché rientrano nello stesso mercato (correlazione positiva). Si
tratta di una decisione assai rischiosa, perché qualora il mercato delle auto fallisse, fallirei
pure io: in questo caso, il rischio dell’insieme è uguale al rischio di ciascun business. Però
se investo in attività decorrelate (correlazione negativa), non è detto che l’andamento
negativo di un business influenzerà l’altro; anzi, i due si compenseranno, abbassando il
rischio complessivo. Quindi solo unendo business diversi e negativamente correlati posso
ridurre il rischio globale dell’impresa. Negli anni ’70, tuttavia, ci si è resi conto che la
diversificazione viene attuata più spesso dall’investitore rispetto che dall’impresa; questo
perché l’investitore tende a essere più razionale rispetto ai manager, i quali invece
preferiscono, per esempio, tenersi persino un business “dog” oppure business
positivamente correlati tra loro, pur di evitare perdite di potere e di cash flow. In poche
parole, i manager prediligono i titoli “value”, che garantiscono una buona liquidità ma non
hanno grandi prospettive di crescita (meno rischi nell’immediato), mentre gli imprenditori
preferiscono i titoli “growth” (es. startup). Ansoff ha chiarito che la scelta di combinare
business diversi per ridurre i rischi implica un’analisi dei mercati e dei prodotti relativi a
ciascun business; in pratica, si mettono a confronto i mercati (e i prodotti) dei diversi
business, per vedere se sono uguali e già esistenti, oppure diversi e innovativi.
Se compro un business che produce prodotti nuovi per un mercato nuovo, si dice che ho
compiuto un’operazione di “diversificazione” (vedi tabella), assumendomi ovviamente
maggiori rischi. Se invece compro un business che realizza prodotti vecchi per un mercato
già esistente, si tratta di un’operazione di “penetrazione” (es. Facebook quando ha
comprato Instagram, oppure FIAT che compra Chrysler); il vantaggio è che conosco già
quel mercato (ma mantengo gli stessi rischi). Si parla infine di differenziazione quando c’è
una novità o nel prodotto o nel mercato. Gli investitori non vedono di buon’occhio la
diversificazione, a causa dei rischi a lungo termine.
STRATEGIA DI BUSINESS: IL MODELLO DELLE 5 FORZE COMPETITIVE DI PORTER
35
Passando dalla strategia corporate a quella di business, questo modello permette di capire
la forza di un singolo business (prodotto + mercato + tecnologia), che a sua volta dipende
dal livello di competitività dell’impresa. La nostra idea di concorrenza corrisponde a quella
diffusa fino agli anni ’80, in base a cui sono “concorrenti” tutti quelli che svolgono la mia
stessa attività. In seguito, Michael Porter ha capito che il rischio di perdere il proprio
vantaggio competitivo non dipende solo dai concorrenti, ma anche da altri variabili (infatti
il suo è anche detto “modello della concorrenza allargata”). La prima è il rischio che si
diffondano prodotti sostitutivi in un determinato mercato: l’Alitalia si è sempre
confrontata con altre compagnie aeree come la Lufthansa, ma il principale concorrente si è
rivelato il treno ad alta velocità, che è diventato un prodotto sostitutivo dell’aereo. Un’altra
variabile sono i concorrenti potenziali, ovvero quelli che capiscono che in un settore si
guadagna tanto e perciò decidono di entrarvi e di vendere i loro prodotti a un prezzo
inferiore; tale rischio è maggiore se un’impresa detiene il monopolio in un determinato
settore, traendone un elevato rendimento (es. prima lo yogurt greco costava molto perché
era prodotto solo da FAGE; ora lo vendono anche Carrefour ed Esselunga, a un prezzo di
gran lunga inferiore). In questo caso, l’unico modo per difendersi è avere delle barriere, ad
esempio i brevetti oppure la disponibilità esclusiva di un bene intermedio necessario per
realizzare il prodotto. Le ultime due variabili sono i fornitori e i clienti: il livello di
competitività dell’impresa è determinato anche dalla sua capacità di lavorare insieme a
questi ultimi. Mentre un tempo il rapporto con il cliente e il fornitore era basato solo sul
prezzo (era un gioco a somma zero: più prendo io meno prendi tu), ora si cerca di
cooperare per ricavare maggiore valore dalla filiera (e far sì che entrambe le parti ne
ricavino qualcosa in più). Bisogna però stare attenti a non crearsi un nuovo concorrente
con questo procedimento, come nel caso di Benetton e Zara (che era un subfornitore di
Benetton).
36
LE 3 MACROSTRATEGIE COMPETITIVE
Le imprese competono per essere più forti dei propri concorrenti, in modo da ottenere
migliori risultati economici e finanziari e ricavare così un profitto. NB: “profitto” non
significa solo ottenere degli utili, ma è la capacità di ottenere degli utili aggiuntivi rispetto
a quelli che si otterrebbero in condizioni di concorrenza perfetta (ovvero avere una
redditività più alta rispetto alla concorrenza). Per farlo, un’impresa deve riuscire ad
acquisire un vantaggio competitivo, adottando una strategia competitiva vincente.
Esistono 3 macrostrategie tra cui scegliere:



Leadership di costo: grazie alla propria dimensione, l’impresa è in grado di avere
un livello di costi strutturalmente inferiori rispetto a quello dei propri concorrenti. Le
maggiori dimensioni, infatti, portano una serie di vantaggi (costi inferiori) che
prescindono dalla capacità dell’impresa di essere ben organizzata. La prima causa di
risparmi di costi grazie alle dimensioni è rappresentata dallo sfruttamento dei costi
fissi (a patto che si eviti di saturarli e si mantenga un margine di capacità produttiva
di riserva); ci sono poi i risparmi che si possono ottenere non solo grazie alla
quantità prodotta, ma anche alle relazioni che esistono tra le diverse fasi del ciclo
produttivo (le economie di scala, le economie di scopo e le economie di
esperienza). Le imprese che puntano alla leadership di costo devono saper
catturare questi vantaggi.
Differenziazione: essere migliore della concorrenza perché offro prodotti con
caratteristiche diverse dagli altri (è la strategia tipica della moda, del design o
dell’alimentazione: es. convinco la clientela a comprare un mobile non perché serva,
ma perché è un oggetto d’arte). La differenziazione si basa sull’esperienza, la
comunicazione e lo storytelling: molte imprese oggi sono competitive anche per i
servizi, ossia per la componente immateriale di immagine e di esperienza che
aggiungono al prodotto. Se si persegue questa strategia il vantaggio non deriva dal
prezzo di produzione più basso, ma è anzi dovuto al prezzo più alto dei prodotti che
vendo.
Strategia di nicchia: realizzare prodotti di nicchia, cioè prodotti con
caratteristiche di rarità e unicità più marcate rispetto al prodotto differenziato (i
prodotti di nicchia sono spesso legati allo stile: l’AUDI è differenziata, mentre la
Ferrari è prodotto di nicchia, al pari, per esempio, del tartufo o del Barolo).
Come si diceva, una qualsiasi di queste 3 strategie permette all’impresa di godere di un
vantaggio competitivo e di avere una redditività maggiore (profitto) rispetto ai concorrenti
della concorrenza perfetta, ossia a quelle imprese che non si distinguono per nessuna di
queste 3 strategie. Il vantaggio competitivo però va anche mantenuto, in quanto tende ad
evolversi; pertanto, il management deve essere in grado di rigenerarlo costantemente e,
per farlo, non deve ripetere in continuazione quello che si è sempre fatto, bensì deve
puntare sull’innovazione di processo (= orientata a rendere più efficiente il processo
produttivo) o di prodotto (= dotare i prodotti di caratteristiche più apprezzate dai
consumatori).
VALUE CHAIN E SWOT
37
Porter ha anche individuato i modi con cui generare il vantaggio competitivo attraverso le
attività dell’impresa, a prescindere dalle varie strategie competitive. Ha creato perciò la
value chain, in cui vengono distinte due tipologie di attività:


Attività primarie: alimentazione del processo produttivo (“logistica in entrata”),
produzione (“operations”), vendita e consegna dei prodotti (“logistica in uscita”), e
servizio post-vendita (per conferire maggiore valore all’utilizzo di un bene). Sono le
attività di base dell’impresa.
Attività di supporto: servono ad assicurare il buon funzionamento di ogni attività
primaria. Si tratta della politica di acquisti, della capacità di fare innovazione
(“sviluppo tecnologico”), dell’organizzazione aziendale (“human resources
management”) e delle infrastrutture fisiche dell’impresa (macchinari, uffici,
stabilimenti…).
Le imprese devono saper coordinare sia le attività primarie sia quelle di supporto, in modo
da poter consegnare “margine”, ossia valore.
La SWOT analysis (Strengths, Weaknesses, Opportunities and Threats) è un altro modo
per analizzare le capacità competitive di un’impresa, a livello di business. Essa consente di
evidenziarne i punti di forza e di debolezza, come anche le opportunità e i rischi, in modo
da poter poi scegliere la strategia competitiva più adatta che permetterà di costruire o
rigenerare un vantaggio competitivo. L’imprenditore che compie tale analisi deve valutare
ogni elemento di carattere economico, culturale, politico, finanziario e tecnologico (anche
a livello internazionale) che potrebbe influenzare negativamente o positivamente il
raggiungimento degli obiettivi da parte dell’impresa; deve anche prendere in
considerazione la possibilità di creare alleanze con altre imprese per potenziare l’efficienza
ed efficacia della sua. La SWOT, che andrebbe effettuata prima della pianificazione
strategica, è uno strumento utile, in quanto può aiutare a trasformare una minaccia in
un’opportunità, oppure a capire quali sono i punti di forza di un’impresa, affinché essa
possa renderli immuni ai rischi e sfruttarli al meglio per essere più competitiva.
IL BUDGET
38
In un’impresa non si parla solo di controllo, bensì di “sistema di pianificazione e controllo”,
in quanto non avrebbe senso eseguire solo il controllo senza la pianificazione e la
programmazione, e viceversa. Controllare, infatti, significa guardare l’andamento delle
attività dell’impresa, ma per giudicare se stanno andando bene o male serve un termine di
paragone, che è appunto rappresentato dalla pianificazione e dalla programmazione,
attività che permettono di prefigurare in anticipo l’andamento dell’impresa.
La pianificazione riguarda ciò che accadrà nel medio-lungo termine (nell’arco di circa 3-5
anni) e serve a individuare delle tendenze di comportamento da adottare; la
programmazione, invece, serve a stabilire quello che accadrà nell’immediato (6-12
mesi), perciò consente di definire in modo più puntuale i risultati da raggiungere. Abbiamo
già sottolineato che queste due attività non coincidono con il prevedere (nel senso di
indovinare) il futuro: non sono attività di divinazione, bensì la conseguenza di un processo
logico e razionale in cui si cerca di prefigurare cosa dovrà fare l’impresa, chi dovrà
guidarla, come dovrà farlo (quali risorse umane e materiali utilizzare) e così via. Una volta
realizzata la programmazione, si potranno scrivere i relativi numeri; il documento che li
contiene è il budget*, che solitamente viene redatto verso fine anno per cercare di
prefigurare i comportamenti dell’impresa nell’anno successivo.
*In generale, quindi, il budget è un documento che contiene i numeri relativi agli obiettivi
e alle strategie dell’impresa, inclusi gli elementi economici, gestionali e patrimoniali
(risorse) necessari al loro raggiungimento. Esso permette di programmare le azioni e
l’andamento futuri dell’impresa alla luce di tutti i possibili scenari economici, ma anche di
motivare le risorse umane, migliorandone il livello di specializzazione, come vedremo tra
poco.
Molte volte la direzione chiede a ciascuna funzione di fare il proprio budget a partire da
una serie di obiettivi di budget concordati in precedenza: in questo caso, a livello di
funzione, chi fa il budget deve partire dagli obiettivi dati dalla direzione per capire di quali
risorse e persone ho bisogno per raggiungerli. La costruzione del budget, pertanto, può
essere bottom-up (ogni funzione comunica alla direzione quali obiettivi si è prefissata) o
top-down (l’alta direzione fissa degli obiettivi e le varie funzioni devono dire di quali
risorse avranno bisogno per raggiungerli).
Di solito l’alta direzione non si accontenta del procedimento bottom-up, bensì cerca di
fissare una serie di obiettivi impegnativi per le funzioni. Bisogna sottolineare che il budget
deve essere oggetto di negoziazione, non deve essere imposto dall’alto: se la direzione
stabilisce obiettivi realistici e raggiungibili su cui sono d’accordo le varie funzioni, ne
beneficerà tutta l’impresa, poiché le persone che hanno negoziato il budget si sentiranno
più motivate. Se invece viene imposto un budget irrealistico, le persone si sentiranno
scoraggiate. Insieme al budget bisogna anche creare un sistema incentivante, ossia il
sistema premio-sanzioni (anche se oggi non si parla tanto di sanzioni, quanto di
“mancata premialità”: gli operai vanno integrati, non marginalizzati attraverso le sanzioni):
i premi sono compensi extra dati alle persone qualora compiano o superino gli obiettivi
prestabiliti, che chiaramente non devono essere automaticamente raggiungibili (altrimenti i
dipendenti non sono motivati a spingersi al di là delle proprie capacità).
39
In conclusione, grazie al budget è possibile migliorare il processo di comunicazione interna
tra l’alta direzione e le risorse umane, come anche l’organizzazione nel suo complesso
(perché a ogni funzione aziendale vengono attribuiti determinati compiti e responsabilità).
Inoltre, il budget consente un’analisi razionale della realtà aziendale e dell’ambiente in cui
un’impresa opera, al fine di ottimizzare l’impiego di risorse e fronteggiare i cambiamenti
che provengono dall’esterno. NB: il budget non indica solo il numero di utili finali, ma
anche la struttura di costi e ricavi che porteranno a un certo risultato: in questo modo,
quando si effettuerà il controllo si andranno a vedere le differenze tra quello che si è
programmato e che si è fatto non solo alla fine, ma fase per fase. Quanto appena detto fa
parte dell’analisi degli scostamenti, che è contenuta nel reporting e permette al
management di capire dove intervenire e quali provvedimenti adottare per rimuovere le
cause degli scostamenti e riallinearsi con l’andamento stimato (es. i manager dovranno
decidere se intervenire sull’efficacia del processo produttivo o sulla negoziazione dei prezzi
di vendita o di acquisto). Quest’analisi dovrà tener conto dell’importanza e delle cause di
ogni scostamento, dell’esistenza a monte di errori di pianificazione e dell’eventuale
presenza di fattori esterni che non è possibile controllare. Va ricordato che, affinché il
controllo di gestione garantito dal sistema di reporting abbia effetto, la circolazione di tutte
queste informazioni deve essere semplice, chiara e, soprattutto, tempestiva, affinché la
direzione possa applicare in anticipo dei correttivi; in aggiunta, il budget deve essere
costantemente monitorato e aggiornato, perché gli scenari interi ed esterni all’impresa
possono sempre mutare, ovviamente. Riassumendo:
Normalmente prima va fatto il piano strategico, poi il budget. Il piano strategico rientra
nell’attività di pianificazione, ed è la programmazione degli obiettivi dell’impresa nei
prossimi 3-5 anni. Esso comprende la definizione delle risorse e delle strategie da attuare
per raggiungere gradualmente tali obiettivi e la valutazione delle alternative possibili e
delle relative conseguenze. Non va rifatto ogni anno, in quanto esiste il rolling planning,
40
che consiste nel riscrivere, alla fine di ogni anno, il piano strategico dei 3-5 anni successivi,
aggiornando i dati relativi all’anno appena trascorso in base ai risultati ottenuti e
adattando eventualmente gli obiettivi prefissati alla luce del proprio vantaggio competitivo
attuale e dell’andamento del mercato e della concorrenza (in pratica capisco se il mio
piano è coerente con l’evoluzione della realtà). Dato un piano strategico di 3-5 anni, si
passa alla programmazione, ossia alla definizione (più analitica) del budget, vale a dire
delle attività da svolgere nel prossimo anno. In questa fase è possibile ripartire i vari costi
e ricavi per ogni divisione e funzione: avrò quindi il budget della divisione A, della divisione
B… (budget divisionale) e il budget della funzione A, della funzione B… (budget
funzionale), che insieme daranno il budget annuale dell’intera società.
Sia la pianificazione sia la programmazione del budget devono essere discusse presso il
Consiglio d’Amministrazione, dove i vari manager che hanno raccolto queste attività si
confrontano con i membri del Consiglio. Nello specifico, ogni 6 mesi occorre riportare in
Consiglio d’Amministrazione le analisi dell’andamento di gestione e delle cause degli
eventuali scostamenti (e delle azioni da intraprendere per mitigarli). Questo approccio
permette di ridurre i rischi dell’impresa, ed è il tema centrale della gestione, ai fini di
ottenere una buona performance.
GLOBALIZZAZIONE
“Sembra che il grandissimo progresso della capacità produttiva del lavoro e la maggiore
abilità, destrezza e avvedutezza con le quali esso è ovunque diretto o impiegato siano stati
effetti della divisione del lavoro.” —Adam Smith (1776)
La globalizzazione è stata determinata da due gruppi di fattori: quelli politico-istituzionali
(nascita di organizzazioni internazionali come UE, ONU, WTO, OCSE, che hanno permesso
una maggiore integrazione delle economie), e quelli tecnologici (Internet, cellulari, nuovi
mezzi di trasporto… in grado di ridurre notevolmente le distanze spaziali e temporali). Va
osservato che la globalizzazione di oggi non corrisponde alla globalizzazione della seconda
metà dell’Ottocento, che era invece caratterizzata dalla circolazione di prodotti finiti e dal
libero scambio, ossia dalla completa eliminazione dei dazi e di tutte quelle misure che
ostacolavano gli scambi. A partire dalla Prima guerra mondiale iniziò un periodo di guerre
41
commerciali in cui i diversi paesi cercavano di promuovere le proprie esportazioni e di
ridurre al minimo le importazioni provenienti dall’estero attraverso l’imposizione di dazi e
politiche doganali (es. tariffa Smoot-Hawley del 1930). Tuttavia, dal Secondo dopoguerra
gli USA decisero di invertire questa tendenza, senza però tornare al liberoscambismo
precedente: furono firmati diversi trattati multilaterali come il GATT (1947) che portarono
a una netta riduzione dei dazi, fino ad arrivare al WTO nel 1994. I paesi aderenti a
quest’ultima organizzazione devono richiedere e ottenere l’autorizzazione se vogliono
imporre dazi nei confronti di un bene prodotto da un determinato Paese.
La caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha poi comportato l’ingresso sulla scena economica
mondiale di nuovi attori, come i Paesi dell’ex blocco sovietico e, successivamente, la Cina.
Questo processo ha diminuito il numero di persone che vivono in condizioni di povertà
estrema, soprattutto nei paesi asiatici: sicuramente la Cina ha tratto i maggiori benefici
dalla nuova globalizzazione, con un tasso di povertà che è sceso dal 70% del 1984 al 10%
del 2008. Inoltre, negli USA una serie di persone (es. donne o persone di colore) hanno
iniziato a offrire il proprio lavoro in determinate mansioni che prima erano loro precluse.
Queste persone, a causa della loro scarsa esperienza, erano disposte a ricevere salari
inferiori rispetto a coloro che svolgevano tali mestieri da tempo. Lo stesso fenomeno si è
verificato su scala internazionale, determinando veri e propri conflitti produttivi e
distributivi: l’apertura degli stabilimenti nei paesi poveri, dove la manodopera costa meno,
chiaramente ha generato malcontento e disagi presso gli operai dei paesi occidentali.
Bisogna però tener presente che la dinamica salariale non è l’unica ragione per cui
un’impresa decide di trasferire o meno la propria sede: smontare e ricreare una linea di
produzione richiede tempo e capitali (per il trasferimento dei macchinari, la costruzione di
nuovi stabilimenti e la formazione di nuovi operai); in aggiunta, le imprese devono anche
considerare i vari sistemi giuridici in vigore.
Alcune delle conseguenze della globalizzazione sono:

La crescente divisione internazionale del lavoro. Adam Smith sottolinea come
la divisione internazionale del lavoro, che all’inizio del Novecento diede origine alla
catena di montaggio, fu un elemento essenziale per aumentare la produttività. NB:
la catena di montaggio non presuppone necessariamente la prossimità fisica delle
persone, basta pensare al caso del telelavoro, che consiste nel fornire regolarmente
42




una prestazione lavorativa al di fuori della sede di lavoro (lavoro a distanza)
avvalendosi del supporto delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione
(es. quando un giornalista scrive un articolo per un quotidiano, non deve
necessariamente essere presente fisicamente nella sede di quel quotidiano). Oggi
non esiste un Paese senza divisione del lavoro. Una maggiore divisione del lavoro
permette maggiori transazioni anche al di fuori del perimetro di un singolo paese.
Minori costi di transazione. Con questo termine si indicano tutte le spese
necessarie per perfezionare una transazione; perciò, sono inclusi non solo i
trasferimenti di risorse (denaro) dall’acquirente al venditore, ma anche le
informazioni legate al prodotto o di carattere legale. Quando decido di comprare un
bene o di firmare un contratto relativo a un servizio (e di entrare in una relazione di
scambio con qualcuno) devo anzitutto assicurarmi che quel bene/servizio esista e
che esso sia in grado di soddisfare adeguatamente un mio bisogno. Se poi mi
avvalgo di siti come Amazon, leggerò prima le recensioni e chiederò eventualmente
consigli a chi possiede già quel bene; inoltre dovrò essere sicuro che quel bene sia
in regola, che appartenga effettivamente al venditore e che quest’ultimo sia una
persona affidabile in possesso dei diritti relativi alla vendita di quel prodotto.
L’affidabilità del venditore viene garantita negli stati attraverso un insieme di norme
che ci permettono di fidarci di persone estranee (limitatamente alle transazioni),
poiché queste possono eventualmente essere citate in tribunale. In assenza di tali
norme la quantità di scambi sarebbe assai inferiore, a causa di un costo di fiducia
decisamente troppo elevato (= la mancanza di fiducia nei confronti di un venditore
quasi sempre ci dissuade dal portare a termine una transazione). In generale, più è
impegnativo l’acquisto legato a un bene durevole, maggiori saranno i costi
informativi che saremo disposti a sostenere, nel senso che tenderemo a informarci
maggiormente sulle caratteristiche dei prodotti più costosi o che utilizziamo di più
(es. un PC). È ovvio che a fronte di costi di transazione elevati si riduce la
probabilità che avvengano gli scambi.
Maggiori innovazioni tecnologiche.
Maggiore partecipazione di imprese e persone di diversi Paesi agli
scambi. Una causa di ciò è che i beni e i servizi scambiati attualmente sono molto
più complessi rispetto alla prima globalizzazione dell’Ottocento: spesso, pertanto, le
imprese si scambiano fattori produttivi intermedi piuttosto che prodotti finiti. Ne
deriva che anche gli oggetti apparentemente semplici che compriamo sono il
risultato di un incrocio di sforzi e di materie prime che provengono da paesi diversi.
Il tipico esempio è quello della Barbie, che è il risultato di una catena di montaggio
che ha coinvolto vari paesi: i capelli di nylon vengono realizzati in Giappone; il
cotone dei vestiti proviene dalla Cina; l’assemblaggio avviene in Indonesia; la
California si occupa del design e della diffusione del prodotto.
Un’infrastruttura giuridica assai più complessa: l’attuale struttura giuridica
della globalizzazione non implica solo la promessa di non interferenza da parte di un
altro paese. Questo a causa di due fenomeni: la maggiore complessità dei beni
scambiati e dei trattati delle organizzazioni internazionali, che hanno lo scopo di
armonizzare le condizioni produttive dei diversi paesi (es. garantire la tutela della
proprietà intellettuale anche da parte dei paesi non occidentali, che hanno
43
un’infrastruttura amministrativa più debole). Basti pensare che il trattato del NAFTA
(l’accordo commerciale che crea un’area comune di scambio tra USA, Canada e
Messico) comprende circa 1700 pagine, mentre nell’Ottocento i trattati erano lunghi
circa 10 pagine.
PERCHÉ IL COMMERCIO E LA GLOBALIZZAZIONE ARRICCHISCONO?
Il motivo principale è che con l’abbassamento dei costi di transazione e il miglioramento
dei trasporti è aumentata la disponibilità di beni/servizi per i consumatori, mentre i
venditori hanno avuto la possibilità di accedere ai mercati esteri e di differenziare i loro
prodotti, introducendo anche delle innovazioni. Per esempio, fino a 15 anni fa il consumo
di birra era indistinto e la bevanda era monopolizzata da pochi grandi marchi
internazionali; attualmente, la situazione si è invertita: l’offerta di birra è più diversificata
rispetto a prima perché è cambiata la percezione dei consumatori, che hanno iniziato a
concepirla come sostituta del vino; in aggiunta, si sono abbassati i costi di trasporto,
ampliando così la platea di paesi potenzialmente acquirenti. Una conseguenza di
quest’ultimo fattore è che i produttori hanno iniziato a chiedersi quale particolare
raffinamento di un prodotto prima standardizzato avrebbe successo presso un target
specifico: questo è il motivo per cui oggi prodotti diffusi in tutto il mondo presentano
peculiarità diverse in base al paese in cui ci troviamo (es. McDonald o Nescafé).
L’aumento della platea di consumatori ha anche provocato un cambiamento dei
beni/servizi che vengono prodotti, a causa della maggiore varietà di bisogni da soddisfare:
mentre in società ristrette e chiuse il pastore rappresenta uno dei pochi fattori della
produzione di beni/servizi, in società più ampie e aperte, con una maggiore divisione del
lavoro, esistono mestieri come la dog-sitter, che libera tempo per i clienti. Sotto questo
aspetto, la globalizzazione va di pari passo con il processo di urbanizzazione: la maggiore
varietà di opportunità su cui costruire il proprio reddito (e quindi di servizi offerti) dipende
dalla concentrazione di individui in grandi agglomerati urbani, il che aumenta la gamma di
bisogni e di esigenze da soddisfare e, pertanto, la platea di possibili acquirenti. L’aumento
della divisione del lavoro, dunque, porta a una crescente differenziazione dei beni
proposti: mentre in una società chiusa e ristretta meno persone partecipano al gioco
economico e solo pochi bisogni vanno soddisfatti, in una società aperta e urbana, con una
maggiore divisione del lavoro, più persone partecipano al processo di produzione e
consumo, aumentando così le esigenze da soddisfare. Ecco perché oggi esistono mestieri
(come la dog-sitter) che erano inimmaginabili solo 50 anni fa.
44
L’apertura allo scambio internazionale ha modificato l’organizzazione del comparto
produttivo dei singoli paesi, provocando miracoli o disastri. Nel 1900 molti paesi avevano
un PIL pro capite tra i 1000 e i 5000 dollari; alcuni, come gli USA, il Giappone e la Corea
del Sud, hanno raggiunto anche i 20000 dollari pro capite nel Secondo dopoguerra,
mentre altri, come l’Argentina o la Nigeria, non sono cresciuti. Diversi fattori spiegano
questo fenomeno, a partire dalla disponibilità di mercati (= il fatto che le produzioni di un
certo paese trovassero sbocchi a livello internazionale) e da un interventismo non
eccessivo dei governi e delle istituzioni.
ALL’INTERNO DELLE IMPRESE
Per capire cosa accade dentro un’impresa spesso si utilizza il modello* della catena del
valore: si tratta di uno schema teorico fondato sulla suddivisione arbitraria delle sue
attività. In base a tale modello, nelle imprese ci sono attività primarie, connesse alla
creazione fisica del prodotto e alla sua consegna ai compratori, e attività secondarie (o
di supporto). Nel primo gruppo rientrano la logistica in entrata (che assicura una gestione,
un’organizzazione e uno stoccaggio adeguati dei flussi di risorse in entrata), la produzione,
la logistica in uscita, il marketing e le vendite, e l’assistenza post-vendita. Tra le attività
secondarie, invece, troviamo gli approvvigionamenti, la ricerca e lo sviluppo, la gestione
delle risorse umane, e le infrastrutture e i trasporti. Un’impresa presente in più stati potrà
organizzare queste attività in modi differenti, decidendo, ad esempio, su quale fetta del
mercato concentrarsi, dove collocare una certa attività, oppure dove investire su
macchinari all’avanguardia (in base all’efficienza del sistema giuridico locale: è meglio
dotarsi di macchinari innovativi nei paesi in cui la legge impedisce ad altre imprese di
copiarli, dove gli avvocati sono più affidabili e competenti…).
*Generalmente un modello è una rappresentazione sintetica e semplificata della realtà,
che ne coglie solo alcuni tratti; per esempio, la mappa della metro di Milano riporta solo i
nomi delle fermate, ma non ci restituisce un’immagine satellitare e fedele della città.
La globalizzazione ha reso più facile approvvigionarsi di materie prime o di semilavorati
provenienti dall’estero, e ha agevolato il trasferimento all’estero (nei paesi emergenti)
dell’attività produttiva (le “braccia”), ma anche della ricerca e sviluppo (le “menti” delle
produzioni: es. oggi molti ingegneri provengono dall’India); è anche più facile cercare
45
capitali in altri paesi, grazie all’aumento della mobilità dei capitali garantito dalle varie
innovazioni tecnologiche.
LA GLOBALIZZAZIONE DAL PUNTO DI VISTA DELLE IMPRESE
Grafico: quali ragioni spingono un’impresa a “globalizzarsi”?
Un’impresa non può mai prescindere dalle persone che vi sono collegate, né tantomeno
dal modo in cui vengono coordinate; di fatto, essa potrebbe essere vista come un insieme
di contratti che garantiscono un rapporto di coordinamento stabile (= duraturo) tra i
membri. Va sottolineato che la mobilità di beni e quella di persone vanno di pari passo: a
partire dalla prima globalizzazione, i Paesi avevano iniziato a scambiarsi beni con maggiori
libertà (= dazi più bassi) e maggior frequenza; questo comportò anche un grande
spostamento di persone. Il grande vantaggio derivante da questa mobilità è che
determinate produzioni si sono concentrate in determinati Paesi, nel senso che i vari stati
si sono specializzati nella realizzazione di determinati prodotti, in base a dove tali prodotti
possono essere ottenuti alle condizioni migliori (persone, climi, materie prime,
esperienza… in questo modo, le risorse vengono teoricamente allocate nel miglior modo
possibile). L’internazionalizzazione, dunque, può riguardare sia i prodotti finiti sia i capitali
e le risorse a disposizione delle imprese. Importanti per le imprese transnazionali sono gli
investimenti diretti esteri, ossia i flussi di investimenti indirizzati a paesi diversi da quello
dove è insediato il centro della loro attività. Tali investimenti consistono, per esempio,
nell’apertura di nuove strutture produttive locali o di filiali (greenfield: realizzazione di
strutture ex novo) o nell’acquisizione di aziende o di catene già presenti e che magari
stavano fallendo (brownfield: si subentra in aree e strutture produttive già esistenti, che
vengono riconvertite); esiste anche un modo meno aggressivo per fare un’acquisizione,
ovvero la “gestione integrata”, che consiste nel comprare le partecipazioni di
un’impresa già esistente, oppure comprare una catena distributiva di successo (es. una
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catena di birrerie) e aggiungervi un prodotto meno popolare (es. una tipologia di pizza).
Essere presenti in più mercati aumenta il valore della propria azienda perché aumenta la
base di domanda (clienti) che si possono soddisfare con i propri prodotti. Non è detto,
però, che le strategie giuste di oggi fossero giuste anche in passato e saranno giuste
anche in futuro: questa discontinuità può essere dovuta ai miglioramenti per quanto
riguarda la tecnologia oppure i prodotti offerti dalla concorrenza. Il caso più classico è
quello del cellulare Blackberry, che era dotato di una tastiera esterna completa,
certamente più comoda dell’allora diffusa tastiera T9; tuttavia, l’invenzione dei cellulari con
le tastiere touch hanno reso obsoleto quello che era stato il vantaggio che aveva
contribuito al successo dei Blackberry. Lo stesso vale per le vecchie Polaroid e per le
librerie alla fine degli anni ‘90: in quel periodo, infatti, si pensava che le grandi catene di
librerie avrebbero divorato le piccole librerie di quartiere, grazie al fatto che disponevano
di un’offerta di libri decisamente maggiore (tant’è che le grandi librerie avevano intrapreso
la costruzione di nuove sedi); in seguito, però, si è diffusa la possibilità di acquistare libri
online e in formato digitale, rendendo così questa strategia di espansione (che era giusta
in partenza) e i relativi costi un’autentica palla al piede. In tutti questi casi le imprese
devono reinventarsi, adattandosi alle nuove tecnologie e ai nuovi gusti del mercato.
PROBLEMI LEGATI ALLA DIVERSITÀ CULTURALE
Ci sono dei casi in cui la diversità culturale può essere un problema per le aziende che
sono strutturate in diverse nazioni? Certamente esistono alcuni prodotti che sono legati
alle tradizioni locali e all’identità di un paese e che, proprio per questo motivo,
perderebbero il proprio significato se fossero trapiantati in un altro contesto. Un esempio è
quello del vino, caratterizzato da una componente culturale fortissima: col tempo i
consumi di vino sono diventati più raffinati, poiché si sono diffuse molte più informazioni
sul prodotto, rendendo i consumatori più sensibili alle caratteristiche di una determinata
tipologia di vino o semplicemente più curiosi di assaggiare vini prodotti in altri paesi. In
aggiunta, negli ultimi 20 anni vari paesi in cui si consumavano maggiormente altri prodotti
(es. birra) sono diventati al tempo stesso produttori e compratori di vino (es. USA hanno
iniziato ad acquistare vino italiano): questo perché erano cambiate la cultura locale e la
concezione del prodotto. È anche vero però che il fatto che un prodotto faccia parte
dell’identità di un paese può trasformarsi in un vantaggio, attribuendogli un’aura di
autenticità che gli permette di avere successo anche all’estero (es. vino piemontese o
siciliano).
La diversità culturale è una sfida pure dal punto di vista burocratico ed etico: se si vuole
produrre qualcosa per un certo mercato bisogna anzitutto avere un’ipotesi su ciò che i
consumatori potrebbero desiderare, ricordando che la cultura e i consumi cambiano nel
corso degli anni (es. non avrebbe senso vendere prodotti di make-up nei paesi in cui le
donne sono costrette a portare il velo). Ne deriva è importante avere del personale che
conosca la cultura e la legge di un certo territorio: ovviamente, per ottenere il permesso di
poter produrre in determinati paesi bisogna assicurarsi che le proprie attività siano
conformi al dettato della legge locale.
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Grafico: indica la percentuale di TNC (transnational corporations, ossia imprese
transnazionali) presenti nei Paesi sviluppati (in nero) e nei Paesi in via di sviluppo (in
bianco). Gli investimenti provenienti dall’estero sono un riconoscimento che un certo paese
rappresenta un mercato interessante con buone condizioni legali e/o un basso livello di
concorrenza per quanto riguarda un certo prodotto. La quantità di investimenti di
un’impresa in altri paesi dipende dalle dinamiche di crescita e di sviluppo sia del suo paese
d’origine sia del paese estero: se un’impresa opera in un mercato povero e fatica a
svilupparsi, difficilmente si porrà il problema di avvicinare quote di consumatori
internazionali. Se invece l’economia di un paese cresce (come sta avvenendo per alcuni
paesi in via di sviluppo), anche le sue aziende possono integrarsi nell’economia globale.
Dunque non è vero che solo i grandi gruppi occidentali si sono internazionalizzati; esistono
anche imprese provenienti da paesi ex poveri o da economie ancora oggi in via di sviluppo
che si stanno internazionalizzando, per esempio la Samsung della Corea del Sud o la
Huawei cinese. Esse rappresentano un segnale del fatto che alcuni paesi hanno iniziato a
investire sullo sviluppo di idee innovative in ambito tecnologico, il che ha anche permesso
a tali imprese di attrarre investimenti provenienti dall’estero (prima invece si riteneva che
la Cina non fosse in grado di produrre idee nuove, a causa della forte regolamentazione
del mercato delle idee e delle università).
LE CARATTERISTICHE CHE RENDONO UN TERRITORIO ATTRAENTE
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Tra le principali ragioni troviamo un minore costo della manodopera, un minor carico
burocratico-regolamentare e la possibilità di accedere a nuovi mercati e di sviluppare nuovi
prodotti (adattandoli alle condizioni e ai gusti locali), ampliando così la gamma di
consumatori.

Quanto alle risorse umane, il costo del lavoro non è necessariamente l’elemento
predominante: se decido di fare un investimento produttivo in un altro paese (es.
per aprire uno stabilimento), devo anzitutto trovare dei finanziamenti (es.
presentando alle banche un’idea interessante che faccia presagire che i loro soldi
torneranno indietro con gli interessi), ma poi devo anche ottenere i vari permessi,
trovare gli spazi adeguati per svolgere la mia attività e trasferire/realizzare i miei
macchinari, operazione assai costosa (nel caso delle imprese automobilistiche, un
macchinario è in grado di produrre solo un determinato tipo di automobile). Dovrò
infine assicurarmi che la legge di quel paese protegga la mia attività, impedendo
49






per esempio ai ladri di entrare nel mio stabilimento e di distruggere i miei
macchinari.
Sono poi fondamentali le infrastrutture, per allocare in modo migliore i fattori
produttivi (es. quando devo spostare i fattori produttivi intermedi verso il paese in
cui commercializzerò il bene finito), come anche l’istruzione e le infrastrutture per la
ricerca e l’innovazione, al fine di garantire che la forza lavoro venga formata in
modo adeguato.
Anche il tessuto economico è importante, poiché bisogna tener conto del
funzionamento del sistema finanziario e della distribuzione: se produco un bene di
consumo e voglio far sì che arrivi alle case delle persone, è importante che la
distribuzione sia efficiente (es. quando Amazon è arrivata in Italia, inizialmente le
merci venivano recapitate via corriere, a causa della cattiva reputazione che
avevano le nostre poste; ora, invece, anche queste ultime possono consegnarle). In
questa categoria rientra anche la struttura del sistema industriale locale: se produco
automobili posso certamente far arrivare alcuni componenti da altri paesi, ma altri
dovrò acquistarli in loco per ragioni economiche; di conseguenza, prima di investire
in un determinato paese controllerò anche il numero di produttori e fornitori locali
delle componenti che mi servono.
Le istituzioni e le politiche pubbliche (es. regolamentazioni oppure leggi
amministrative, fiscali e contrattuali): il costo del lavoro non dipende solo da quanto
viene pagata la forza lavoro, ma anche dalle imposte e dai contributi sociali;
pertanto, la struttura del welfare state e della tassazione locale possono far variare
il costo del lavoro e convincere o meno un’impresa a investire all’estero. Anche un
interventismo eccessivo da parte delle istituzioni nazionali non rappresenta di certo
un incentivo per le imprese che vogliono investire in un determinato paese (es. se
in un Paese non viene rispettato il diritto di proprietà, oppure se il governo
nazionalizza le imprese a capitale estero o impone loro i componenti del Consiglio
d’Amministrazione).
La presenza di politiche ad hoc per l’attrazione di investimenti esteri (es.
sgravi fiscali, sussidi mirati o permessi speciali per ristrutturare un sito produttivo)
non è sempre tenuta in grande considerazione dalle imprese, in quanto tali norme
spesso sono temporanee. Va anche tenuto presente il seguente fattore: è vero che
una norma vantaggiosa per gli investitori esteri non danneggia necessariamente le
imprese nazionali (es. incentivi alla produttività o minore tassazione); tuttavia, nel
caso esista una norma a favore solo delle imprese a capitale estero, significa che il
paese non ha le risorse o la forza politica necessarie per fare un’analoga riforma a
beneficio di tutti, e questo chiaramente è un campanello d’allarme per le imprese
estere.
Le leggi nella sfera ambientale e i regolamenti settoriali: una normativa
sull’ambiente tutela certamente l’ecosistema, ma può incrementare i costi di
produzione.
La qualità sociale e ambientale: come già detto, le imprese difficilmente
investono nei paesi con un alto tasso di criminalità. NB: se voglio attrarre nuovi
manager locali dopo aver fatto un investimento significativo in un paese in via di
sviluppo, devo inviare i miei manager migliori, ma per assicurarmi la loro fedeltà
50

dovrò evitare di trasferirli in paesi poco sicuri. Un’impresa deve anche tenere conto
dei gusti dei consumatori locali, che dipendono dalle loro abitudini culturali e dal
loro grado d’istruzione (es. non aprirò una libreria in un paese dove la gente legge
poco).
La reputazione del luogo, che ovviamente influenzerà il mio rapporto con altri
investitori/finanziatori.
LA TENDENZA ALL’EQUILIBRIO E IL TRASFERIMENTO DELLA CONOSCENZA
“Un lutto pubblico fa salire il prezzo della stoffa nera e aumenta il profitto dei mercanti che
ne posseggono una quantità considerevole. Esso non influenza i salari dei tessitori. Il
mercato scarseggia di merci, non di manodopera: di lavoro fatto, non di lavoro da fare.
Esso aumenta i salari dei sarti, il cui mercato scarseggia di manodopera. Qui la domanda
effettiva di manodopera e di lavoro da fare è maggiore di quella disponibile. Essa
diminuisce il prezzo delle sete e delle stoffe colorate, riducendo conseguentemente i
prodotti dei mercanti che ne detengono quantità considerevoli. Riduce pure i salari dei
lavoratori occupati nella confezione di merci la cui domanda è ferma per sei mesi o forse
un anno. Il mercato è qui [nel caso delle stoffe colorate] provvisto in eccesso di merce e di
manodopera”. – Adam Smith
In generale, nei mercati c’è sempre una tendenza all’equilibrio, e i prezzi di una merce ne
segnalano la quantità domandata. Nel caso di questa citazione, il lutto pubblico aumenta il
lavoro dei sarti, che devono trasformare la stoffa nera in un vestito, e riduce le vendite e i
prezzi delle stoffe colorate. L’aumento dei prezzi serve a rendere disponibili pezzi di stoffa
nera, ovvero a pagare i sarti che la lavorano e la trasformano in vestiti adatti al lutto; la
riduzione dei prezzi delle stoffe colorate, invece, serve a convincerci che, nonostante il
momento di lutto, possiamo anche comprare vestiti colorati. In altre parole, i prezzi sia
nazionali sia internazionali non esistono isolati e in astratto, ma dipendono da altri fattori
produttivi e altri beni.
Uno dei maggiori vantaggi dell’internazionalizzazione è il trasferimento della conoscenza:
se un’impresa si sposta in un altro Paese, gli operai del posto hanno l’opportunità di
imparare a fare cose che in precedenza non sapevano fare (perché gli operai “esperti”
insegneranno loro come far funzionare un determinato macchinario, ad esempio). Esistono
anche altri modi di condivisione della conoscenza, come il cosiddetto learning by
observing, ossia l’imitazione, che consiste nell’imparare copiando la tecnica e il metodo
degli altri (per esempio le imprese concorrenti); esiste anche l’outsourcing, cioè il
procedimento in base al quale, una volta trovati dei fornitori locali che siano bravi a
realizzare una certa componente, si insegna loro come realizzarla seguendo gli standard
che ci servono; infine ci sono gli spostamenti di capitale umano: un’impresa invia i suoi
manager per trasmettere le proprie conoscenze ai manager locali.
Un paese deve curare la propria reputazione e cercare di risultare attraente per le
imprese. Per farlo vengono applicate strategie politiche (es. riduzione delle imposte)
oppure il cosiddetto “marketing territoriale”, volto a promuovere i prodotti e l’immagine del
proprio territorio all’estero, per esempio tramite l’invio di rappresentanti o società (es. la
regione Campania aveva aperto un ufficio di rappresentanza sulla Fifth Avenue di New
51
York). Tale strategia deve essere basata sulla coerenza, la continuità e la collaborazione
tra pubblico e privato (l’ufficio della regione Campania chiuse perché vendeva prodotti
“made in Campania”, non “made in Italy”), e le autorità del Paese di provenienza devono
essere concordi sui suoi punti di forza, altrimenti la reputazione ne risentirebbe.
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PICCOLE IMPRESE
Il mercato internazionale non è fatto solo per le grandi imprese (= aziende che hanno più
di 250 dipendenti), che in Italia costituiscono solo lo 0,1% del totale delle imprese. D’altro
canto, un’alta concentrazione di piccole imprese (che rappresentano il 90% delle aziende
di tutto il mondo) può anche rovinare la reputazione di un paese, poiché è un segnale che
quest’ultimo è pieno di imprese nuove appena formatesi, oppure di imprese che hanno a
disposizione pochi capitali a causa di difficoltà relative al sistema burocratico e finanziario
(es. problemi ad accedere al sistema bancario), oppure a causa del tipo di beni che
producono (se sono beni costosi o adatti solo a una fetta specifica di mercato), o ancora
per la presenza di fattori esterni che hanno persuaso i manager a mantenere dimensioni
ridotte e pochi dipendenti (es. la tassazione progressiva oppure un mercato del lavoro
troppo rigido, vedi articolo 18 in Italia).
Una ragione storica per cui la maggior parte delle imprese italiane sono piccole è che
verso la fine degli anni ’50 l’Italia decise di favorire le grandi industrie pesanti nel Nord e di
costruire stabilimenti e stanziare capitali nel Sud, in modo da garantire lo sviluppo
industriale anche nel Meridione e colmare così il divario di reddito (l’idea era che mettendo
più fabbriche nel Sud sarebbe cresciuta la produttività dei lavoratori, colmando il gap). Il
problema fu che, nonostante queste aspettative, non si diffusero le grandi imprese come
previsto, bensì si preferì trasformare le varie botteghe artigianali in piccole imprese, in
modo da mantenerne il pieno possesso e controllo (il risultato sono i capannoni che
vediamo ancora oggi nel Nord). Sfortunatamente, una struttura fatta di piccole imprese
non internazionalizzate è più permeabile agli shock economici.
Un dato interessante è che, mentre il numero medio di addetti in un’impresa italiana è di
circa 3,7, la dimensione media delle imprese estere controllate da aziende italiane (dette
controllate estere) supera gli 80 dipendenti. Questo significa che non è vero che gli italiani
non sanno gestire dimensioni superiori, ma che una delle ragioni per cui investono
all’estero è che cercano e sperano di trovare ambienti più favorevoli alla crescita
dimensionale.
I MICRO-BIRRIFICI
Rispetto al vino, la birra è più facile, più veloce e meno costosa da produrre
autonomamente (per realizzare il vino servono grandi vigne e ci vogliono mesi o persino
anni, mentre per la birra bastano 2-3 settimane); per questo motivo è più facile entrare
nel mercato della birra: ci sono imprese che producono anche meno di 20.000 barili
all’anno (e che classifichiamo come micro-birrifici). In questo ambito, la piccola dimensione
permette una maggiore differenziazione e sperimentazione del prodotto, mentre le grandi
dimensioni obbligano a rispettare determinati standard fissi (es. sapore) che rendano il
prodotto riconoscibile nei diversi paesi in cui viene distribuito, senza creare problemi con le
52
norme di sicurezza locali. Questo è il motivo per cui i micro-birrifici godono di indipendenza
legale ed economica dai grandi birrifici internazionali.
Negli USA c’erano tantissimi produttori di birra all’inizio del Novecento, poiché produrre la
birra era un’attività artigianale che riguardava i mercati locali. Il numero di produttori
crollò con la diffusione del proibizionismo (1920-1933), periodo in cui venne limitata
l’offerta di qualsiasi tipo di alcol; per massimizzare le vendite clandestine delle modeste
quantità di alcol presenti, si iniziò ad allungare l’alcol con altri prodotti, dando il via alla
grande stagione dei cocktail.
Dal 1936 i produttori di birra escono dalla clandestinità: fino al 1979 solo le grandi aziende
producono birra, e tendono man mano a fondersi le une con le altre (quindi il numero
complessivo di produttori di birra diminuisce). Ciò a causa della sempre più rigida
regolamentazione della produzione di birra, con norme pervasive che rendevano assai
costoso il processo, a beneficio dei grandi produttori (= erano aumentati i costi di gestione
legati alla burocrazia, costi che erano più abbordabili se ci si riuniva in grandi imprese). A
partire dal 1979 Carter allenta le norme che governano la produzione di birra; di
conseguenza sono aumentati i piccoli produttori, tanto che nel 2012 le piccole birrerie
erano circa 2000, e nel 2017 erano più di 6000, contro le 89 del 1979 (sono più
concentrate sulle due coste a causa del reddito pro capite più elevato, che determina una
maggiore curiosità e sofisticazione dei gusti).
53
Le esportazioni dei micro-birrifici sono aumentate in modo massiccio durante gli ultimi
anni: nel 2013 sono stati esportati 282.526 barili, una cifra considerevole per un prodotto
che si presenta come locale e indipendente, il che suggerisce che la birra non è più
standardizzata come in passato (il Brasile è il mercato estero più in crescita). Tutto ciò è
avvenuto nonostante il fatto che tutte le tipologie di birre (ma anche di vini) siano
intercambiabili tra di loro, essendo accomunate dalla stessa funzione (le beviamo, non
possiamo usarle come carburante!) e dallo stesso tempo necessario per consumarle.
Eppure, ogni produttore ambisce a essere il monopolista di una determinata varietà di
birra o vino che, a suo dire, è unica. Pertanto, l’internazionalizzazione ha contribuito a
modificare la nostra percezione della birra: mentre prima la consideravamo un prodotto
unico che doveva rispettare degli standard più o meno fissi, ora invece ci troviamo di
fronte a moltissime tipologie diverse del medesimo prodotto.
Un esempio di questi piccoli birrifici è il Flying Dog Brewery, un birrificio con sede nel
Maryland, fondato da un astrofisico, che produce oltre 100.000 barili all’anno e ha appena
lanciato una collaborazione internazionale con una birreria serba, chiamata Dogma, con la
quale ha realizzato una nuova birra. Ciò rappresenta una forma di collaborazione
internazionale tra imprese di diverse dimensioni (piccola quella del Maryland e
microscopica quella serba) che hanno lavorato congiuntamente condividendo informazioni
via mail (si tratta dunque di una modalità di collaborazione semplicissima). Una delle
ragioni di questa collaborazione era che il birrificio del Maryland contava due importatori in
Serbia sin dall’inizio della sua attività; ne deduciamo che un’impresa, per promuovere un
prodotto, può trasferirlo e venderlo in un altro paese (e questo è già un modo di
condividere la conoscenza), oppure trovare dei collaboratori locali. Pertanto,
l’internazionalizzazione rappresenta un’opportunità sia per vendere sia per differenziare un
prodotto anche nel caso delle imprese più ridotte.
4 TRATTI COMUNI DELLE PICCOLE IMPRESE DI SUCCESSO A LIVELLO INTERNAZIONALE
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1) Qualità imprenditoriale: il piccolo imprenditore deve avere una forte e costante
spinta propulsiva, ovvero deve essere audace e cercare costantemente di sviluppare
l’azienda, senza mai arrendersi. Deve anche avere una buona memoria e saper
gestire le varie opportunità e i vari mercati, senza trascurarne nessuno a priori o,
peggio, sprecarli; a tal fine, il manager deve ricordare tutti gli obiettivi che sono
stati stabiliti insieme al team, spronandolo continuamente a cercare di realizzarli (il
rischio è che alcuni degli obiettivi prefissati vengano trascurati nel corso dell’anno
aziendale). Il piccolo imprenditore deve poi fungere da perno relazionale, ovvero
essere in grado di mantenere le relazioni coi propri clienti, con gli addetti alla
riparazione dei macchinari, coi fornitori e così via; in poche parole, deve essere al
centro delle reti di relazioni e, nel caso dell’espansione in nuovi mercati, deve saper
sviluppare reti di fiducia con i nuovi fornitori e capire quanti e quali sono i
concorrenti. Chiaramente serve una governance equilibrata e coesa, anche se
spesso nelle piccole imprese si verificano vari problemi sotto questo punto di vista:
è il caso, per esempio, delle piccole imprese a conduzione familiare, nelle quali, a
causa dello scarso numero di soci presenti, si generano conflitti in merito alla
distribuzione dell’eredità tra i figli del capofamiglia.
2) Sviluppo del capitale immateriale: come sostiene Gary Becker, “le forme
tangibili di capitale non sono le sole. L’istruzione scolastica, un corso di formazione
all’uso del computer, le spese per le cure mediche e le lezioni sulle virtù della
55
puntualità e dell’onestà sono del pari una forma di capitale, per il motivo che fanno
aumentare le nostre entrate, migliorano la nostra salute o rafforzano le nostre
buone abitudini nel corso della vita. Per tale motivo gli economisti considerano le
spese a favore dell’istruzione, della salute e via dicendo come un investimento in
capitale umano. Si parla di capitale umano perché gli individui non possono essere
separati dalle loro conoscenze, dalle loro competenze, dalla loro salute o dai loro
valori nello stesso modo in cui possono essere distinti dai loro beni finanziari e
fisici.”
Bisogna ricordare che il capitale è eterogeneo, in quanto può essere costituito da
beni mobili e immobili, come denaro, brevetti, e risorse a disposizione, ma anche da
beni immateriali, ossia il patrimonio di conoscenze a disposizione dell’azienda.
Due caratteristiche che accomunano qualsiasi tipologia di capitale sono il guadagno
(= il capitale deve fruttare) e il fatto che possa essere accumulato; alla luce della
natura del capitale appena descritta, Gary Becker ha coniato la definizione di
“capitale umano”, applicando il concetto di capitale al lavoro: anche il lavoro, infatti,
è basato sull’accumulazione e produce un reddito. Secondo lo studioso, le spese a
favore delle cure mediche o di un qualsiasi corso di formazione sono comunque un
investimento in capitale umano, anzitutto perché, nel primo caso, se siamo malati
siamo meno produttivi ed eventualmente non siamo in grado di recarci sul posto di
lavoro; inoltre, tali spese ci permettono di accumulare una serie di fattori
(competenze) che più avanti restituiranno un rendimento (del resto, il capitale
umano non può essere separato dalle proprie competenze, salute o valori). Va
aggiunto che una delle questioni più importanti nell’ambito
dell’internazionalizzazione è la condivisione di tutto il patrimonio di conoscenze
disponibili, a cui si affianca la reputazione dell’azienda: quest’ultima, infatti, deve
essere eticamente responsabile e mantenere una buona immagine nel contesto in
cui opera. Questo è il motivo per cui non è detto che un’azienda che bara ne tragga
sempre dei vantaggi, a meno che il contesto in cui opera non cambi (altrimenti
prima o poi verrà scoperta e la reputazione ne risentirà, intaccando i futuri rapporti
con i nuovi fornitori o clienti).
3) Competizione focalizzata: nel momento in cui si internazionalizza, la piccola
impresa dovrà focalizzarsi su una nicchia di mercato, ovvero su una singola e ben
definita fascia del mercato. Questo perché se si dedicasse alla realizzazione di più
tipologie di prodotti diversi non potrebbe tener testa alle grandi imprese, a causa
dell’evidente svantaggio a livello di capitali (anche umani), capacità produttive e
quantità di merce prodotta: grazie alle sue dimensioni, infatti, un’impresa grande è
una sorta di conglomerato che può fare bene tante cose diverse. La piccola
impresa, invece, deve concentrare le proprie risorse esigue su un singolo business:
una volta che avrà acquisito una buona reputazione e si sarà “allenata” abbastanza
nello svolgere un determinato tipo di attività, acquisendo esperienza, potrà allora
tentare di uscire dai confini nazionali, instaurando partnership internazionali.
4) Capacità di innovazione: è collegata a quanto appena detto. L’innovazione è la
conseguenza di una buona organizzazione dei processi: se realizzo costantemente
un prodotto, rifletterò sul modo in cui lo sto producendo e introdurrò di volta in
volta delle innovazioni, cercando di migliorarlo e di economizzare allo stesso tempo
56
gli sforzi e le spese (= produrre lo stesso utilizzando il minimo capitale possibile, in
modo da ottimizzare le risorse a disposizione).
LE ECONOMIE DI SCALA E LA DIMENSIONE DI UN’IMPRESA
Normalmente se produco una quantità aggiuntiva di un singolo bene, il costo unitario
aumenta; se però i vari membri del personale di un’impresa si specializzano ciascuno in
una determinata fase del processo di produzione, allora il costo unitario diminuisce, anche
a fronte di un aumento della quantità di beni prodotta (chiaramente quest’ultima deve
essere coerente con la capacità di produzione del personale). Quindi l’economia di scala
implica che aumentando la produzione si riesca parallelamente ad aumentare l’efficacia e
la qualità del processo produttivo.
Per un’impresa che cresce di dimensioni, oppure per due imprese che si fondono, è più
facile migliorare l’efficienza del processo produttivo, in quanto aumenta il grado di
divisione del lavoro (e la capacità di svolgere un’attività specifica), migliora la reputazione
e, soprattutto, ci si può arrischiare a inventare nuovi prodotti: l’impresa più grande, infatti,
può permettersi di sprecare tempo, lavoro e risorse nel caso in cui il prodotto risultante
non avrà successo sul mercato, mentre quella piccola deve usare in maniera più
consapevole e attenta le risorse scarse a disposizione. Tuttavia, esistono anche le
diseconomie di scala: con l’aumento delle dimensioni (anche a livello internazionale) di
un’impresa, aumentano le difficoltà relative al coordinamento delle attività, come anche i
possibili problemi legali e i costi necessari per mettersi in regola rispetto a una nuova
amministrazione fiscale (in pratica, se un’impresa è abituata alle condizioni di un
determinato paese poi diventa difficile adattarsi a quelle di un altro).
I VARI MODI DI INGRESSO NEL MERCATO INTERNAZIONALE E I BENEFICI DELLA
SPECIALIZZAZIONE
Se un’impresa decide di spostarsi in un mercato estero, dovrà modificare il grado di
specializzazione e di divisione del lavoro interno/esterno, scegliendo se comprare su base
stabile e duratura determinati servizi oppure se acquistarli volta per volta sul mercato.
L’impresa è un insieme di rapporti giuridici contrattuali (nexus of contract) che vengono
stipulati in modo diverso con persone diverse. In alcuni casi la produzione viene trasferita
e avviene interamente all’interno dell’azienda, con un’organizzazione è orientata alla
gerarchia (internalizzazione), mentre in altri casi si conferisce la produzione dei beni e
dei servizi necessari a un’impresa esterna, senza poter influire sulla modalità con cui
devono essere prodotti (esternalizzazione). Negli anni ‘70 andavano di moda i
conglomerati, ossia grandi aziende in cui si concentravano imprese e divisioni che
operavano in settori diversi, come la General Electric (si occupa di elettrodomestici,
assicurazioni, lampadine, banche) oppure, ai giorni nostri, Google (ultimamente ha
investito nelle energie alternative, uscendo quindi dai confini rappresentati dal settore
dell’informatica e dei software). Una maggiore diversificazione della produzione comporta
una serie di vantaggi che sono correlati anche all’internazionalizzazione (= investire in altri
paesi): difatti, gestire settori diversi assomiglia a gestire mercati diversi, pertanto i
conglomerati possiederanno un patrimonio di conoscenze gestionali che potranno poi
57
applicare anche per internazionalizzarsi (a partire dalle economie di esperienza: sbagliare e
imparare dai propri errori).
Esistono varie modalità di collaborazione e divisione del lavoro a livello internazionale:



Lo scambio diretto tra Paesi, che può essere limitato da dazi, quote
d’importazione (contingentamenti) o barriere regolatorie e parafiscali (sono meno
chiare rispetto alle altre due: es. un paese che stabilisce vari standard che le merci
devono rispettare per ragioni di sicurezza o ambientali, oppure per tutelare i
produttori nazionali). In realtà, però, lo scambio diretto tra i governi di due paesi
avviene solo in ambito aerospaziale e militare. Più frequenti sono:
Lo scambio tra imprese e consumatori privati;
Lo scambio all’interno delle imprese stesse: è il caso, per esempio, delle
imprese che si dotano di una serie di unità di produzione in un certo paese.
Esistono varie strategie per entrare in un mercato diverso da quello in cui è nata
un’impresa:



Commercializzare anche in un altro paese i prodotti che si vendono nel
paese d’origine (esportazioni dirette). È certamente la modalità meno
complessa dal punto di vista dell’organizzazione imprenditoriale, in quanto non
comporta l’integrazione di un’altra realtà imprenditoriale; tuttavia, essa presenta
comunque diversi problemi, a partire dal fatto che ogni mercato e ogni gruppo di
consumatori differiscono, come anche le regole del gioco, le attitudini culturali e le
disponibilità economiche. Va aggiunto che con questa modalità eventuali problemi
riguarderanno solo me e la mia controparte doganale.
Costruire o acquisire impianti produttivi nel nuovo paese per realizzare
localmente i prodotti. Ne vale la pena se in un paese vi è un’elevata domanda
dei prodotti della mia azienda, oppure per far diminuire i costi di trasporto, o ancora
perché nel nuovo paese trovo fattori produttivi più adatti alle mie esigenze.
Acquisire e sviluppare conoscenze. Un’impresa può decidere di aprire un’unità
di ricerca e sviluppo in un nuovo Paese (perché ad esempio in quel Paese c’è una
disponibilità crescente di ingegneri), oppure sviluppare una partnership con
un’università o comprare un’impresa che contribuisce alla produzione della
conoscenza; in questo modo acquisirà sia le conoscenze che tale impresa svilupperà
sia quelle che possiede già, migliorando la propria capacità di sviluppare nuovi
prodotti. Va sottolineato che non sempre maggiori dimensioni equivalgono a
migliore ricerca e sviluppo, anche se certamente una grande impresa ha una
maggiore disponibilità di capitale che permette una maggiore innovazione di
prodotto.
La strategia scelta dipende dal Paese in cui si vuole entrare ed eventualmente dal tipo di
collaborazione che si vuole instaurare. Avere un partner o acquisire un’azienda a livello
locale è sicuramente un punto di forza, perché questi conoscono meglio i gusti del
mercato locale, i procedimenti burocratici locali e le varie regolamentazioni (es. come deve
essere fatta l’etichetta, quali prezzi imporre per essere competitivi…). In aggiunta,
un’alleanza con aziende estere consente di esportare più facilmente alcune tipologie di
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beni o servizi, perché magari il prodotto della mia impresa si abbina bene con quello di un
partner locale, oppure perché quest’ultimo realizza componenti complementari rispetto a
quelli che produco io. NB: tutte le alleanze sono governate da un contratto che definisce
diritti e doveri di ogni membro; esse possono rispondere a esigenze quali lo scambio di
know-how, prodotti, capitali o tecnologie.
Esiste anche una serie di fattori esterni non controllabili dalle imprese, in primis le
innovazioni tecnologiche e il comportamento degli attori pubblici (es. stati) e della
concorrenza, da cui però si può apprendere per imitazione; ovviamente è sempre possibile
rivedere le proprie strategie in base all’operato dei concorrenti. Non va dimenticato, tra
l’altro, che anche se detengo il monopolio di un prodotto, il consumatore può optare per
dei beni surrogati (= simili ai miei, ma di qualità inferiore); in altre parole, possono essere
miei concorrenti anche coloro che vendono prodotti surrogati rispetto ai miei.
Impegno finanziario e impegno organizzativo vanno di pari passo, insieme al potenziale
radicamento nel mercato estero. L’impegno organizzativo consiste essenzialmente
nell’ottimizzare il tempo a disposizione delle risorse umane, che è la risorsa più scarsa che
esista. NB: un elevato radicamento nel mercato estero (che significa essere più
internazionalizzati) non è sempre un fattore positivo: certamente, un’impresa che si
concentra su un singolo mercato dipenderà fortemente dalla domanda interna locale; allo
stesso tempo, però, se un’impresa è profondamente integrata in un mercato estero, essa
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dovrà affrontare un maggior numero di rischi e di timori, perché in caso di crisi finanziaria
locale o di instabilità politica perderà buona parte del proprio reddito. Le esportazioni
indirette (es. accordo consortile o presenza di un intermediario internazionale) richiedono
un impegno limitato, ma dipendono dal sistema logistico e distributivo estero (al pari delle
partnership estere), mentre quelle dirette richiedono la presenza di una rete commerciale,
e quindi un impegno maggiore.
LEZIONE DI RIEPILOGO
La globalizzazione ha portato a un aumento del commercio internazionale e alla crescita
del volume degli scambi a causa di due tipologie di fattori: fattori politici (dal 1945 si è
verificata una crescente integrazione dei mercati internazionali, con lo sviluppo di accordi
come il GATT) e fattori legati alla riduzione dei costi di transazione (es. migliori tecnologie,
maggiore velocità nello scambio di informazioni tra le aziende, miglioramento, anche dal
punto di vista della sicurezza, dei trasporti). Grazie alle innovazioni tecnologiche, infatti, si
sono ridotti i costi legati alle transazioni (costi informativi, di trasporto, comunicazione) ed
è aumentato così il numero delle stesse.
La “transnazionalizzazione” dell’impresa comporta non solo gli scambi di beni e merci, ma
anche l’integrazione delle catene che portano alla produzione di un bene (es. iPhone è
disegnato e commercializzato negli USA, ma le componenti vengono realizzate in 8-9 paesi
diversi; dal punto di vista statunitense è sia un’esportazione sia un’importazione).
Più aumenta e diventa complicata la divisione internazionale del lavoro, più le imprese di
diversi paesi si specializzeranno in una sola fase del processo produttivo di un bene, e
maggiore sarà l’integrazione tra le varie catene (integrazione che sarà sempre più
minuziosa e verticale). L’integrazione può avvenire tra aziende e tra imprese diverse che
rimangono separate, oppure tra aziende che diventano unità produttive della stessa
impresa. L’indice per capire quanto un Paese è integrato nell’economia globale (e quanto è
attraente) sono gli investimenti diretti esteri, che possono essere greenfield o brownfield.
Vi sono varie ragioni per cui ci si globalizza: bassi costi di produzione, ricerca di nuovi
mercati i cui membri siano disposti a spendere soldi per acquistare i miei prodotti,
infrastrutture, condivisione di know-how e di informazioni, minori restrizioni burocratiche,
qualità delle istituzioni (es. presenza di politiche per l’attrazione), e così via. A volte il
medesimo accadimento può essere interpretato in modo diverso dagli investitori
internazionali, come nel caso recente di Telecom, a seguito del quale per alcuni investitori
l’Italia è risultata un Paese in cui non puoi acquisire il controllo di un’azienda se non sei
d’accordo col governo, mentre per altri investitori l’Italia è apparsa come l’unico paese
europeo in cui coloro che detengono i fondi di minoranza (passivi rispetto alla governance
dell’azienda, nel senso che non influiscono sulle decisioni) possono organizzarsi e
contendere l’azienda all’azionista di maggioranza.
Tendenza all’equilibrio: spesso si parla di innovazioni disruptive (= che tendono a
sconvolgere lo scenario competitivo, es. Uber nel settore automobilistico), però nei mercati
internazionali c’è sempre una tendenza all’equilibrio, nel senso che i fattori produttivi
tendono a ricombinarsi affinché possano essere allocati e utilizzati nel modo più
profittevole (l’uso migliore per un fattore produttivo è quello che rende di più e per il quale
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c’è una domanda maggiore: per esempio, il rame può essere utilizzato per realizzare cavi o
padelle, a seconda di quale di questi prodotti sia più richiesto in un determinato
momento). La riallocazione dei fattori produttivi, però, avviene raramente in modo lineare.
Problemi e opportunità per un’impresa che si internazionalizza: cercare mercati equivale a
cercare nuovi consumatori oppure fornitori che ci vendano prodotti che ci rendano più
competitivi. Quanto alla ricerca e sviluppo, le imprese cercano contesti in cui le risorse
umane siano di qualità: questo significa che la forza lavoro non deve sbagliare ad azionare
le macchine o a realizzare i pezzi (altrimenti aggraverebbe la situazione dell’azienda,
aumentando gli oneri finanziari), non deve ammalarsi spesso e deve essere affidabile e
onesta. Del resto, sarebbe dannoso per un’impresa se le proprie risorse umane sottrassero
documenti riservati e prodotti, se lasciassero lo stabilimento dopo aver timbrato il
cartellino, o se fossero sempre assenti (NB: non in tutte le culture esiste l’aspirazione a
fare bene il proprio lavoro). Tutto ciò rientra nella gestione internazionale del capitale
umano.
Va ricordato che l’internazionalizzazione è un processo graduale, non istantaneo: scelgo di
investire in un territorio, investo, infine mi adeguo a quel territorio (assestamento,
sviluppo). La velocità di tale processo dipende ovviamente dal tipo di bene che produco,
dal tipo di investimento che voglio fare (brownfield o greenfield; aprire un nuovo impianto
produttivo richiede più tempo, anche se riconvertirne uno già esistente non è sempre la
scelta più pratica: se passo dal fare sigarette a fare medicine è più comodo realizzare una
nuova fabbrica) e dai beni immateriali che ho a disposizione.
Il vantaggio competitivo: è la capacità dell’impresa di superare gli avversari nel
raggiungimento del suo obiettivo primario, vale a dire la redditività. Le due questioni
cruciali, che sono le più difficili da bilanciare, sono le dimensioni della mia impresa e la
specificità del mio prodotto (= rendere il mio prodotto unico e standardizzato vs adeguarlo
a diverse culture, sfruttando però i vantaggi derivanti dalle maggiori dimensioni).
SEMINARIO: ORO – SALVATORE ROSSI
LA POLITICA DELLA MONETA
In italiano il concetto economico di mezzo di pagamento caratteristico della compravendita
viene espresso con tre parole diverse: denaro (la più comune, che verrà utilizzata in
questo paragrafo con tale accezione), moneta e soldi. Tuttavia, il termine più adeguato dal
punto di vista economico è “moneta”, che indica anche il dischetto di metallo coniato dagli
stati. In inglese invece si dice solo “coin” per indicare la moneta.
“La moneta non è, propriamente parlando, uno degli oggetti del commercio ma soltanto
lo strumento su cui gli uomini si sono accordati per facilitare lo scambio di una merce con
un’altra. Non è una delle ruote del commercio: è l’olio che facilita e rende più scorrevole il
movimento delle ruote.” – David Hume.
Con questa citazione Hume osserva che il denaro è solo uno strumento di natura
convenzionale atto ad agevolare e velocizzare gli scambi. In realtà, infatti, quando
paghiamo un prodotto con le nostre banconote, stiamo pur sempre scambiando lavoro per
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lavoro, merce per merce. Fino all’inizio del Novecento la moneta era costituita da metalli
preziosi.
Il denaro è assai pratico ed efficiente perché adempie a tre funzioni diverse*:
1) Mezzo di scambio: il denaro è più pratico da trasportare rispetto alla merce
normale ed è un bene neutro che garantisce intercambiabilità diretta, essendo
accettato da tutti; nel caso dei baratti, invece, è più difficile ottenere
immediatamente quello che ci serve, poiché è necessaria una coincidenza di
desideri reciproca (es. se voglio scambiare un sassofono con un telescopio, è
necessario che la persona che possiede il telescopio desideri a sua volta il mio
sassofono). Va sottolineato che la moneta, in quanto mezzo di scambio, deve
essere resistente all’usura e non deve essere facile oggetto di contraffazione
(altrimenti nessuno si fiderebbe ad accettare monete in cambio della propria
merce).
2) Riserva di valore: significa che il valore del denaro non cambia nel tempo, perciò
posso accumulare moneta in previsione di scambi, acquisti e transazioni futuri.
3) Unità di conto: il denaro ci permette di capire facilmente quanto vale una certa
merce e di confrontare più prodotti osservando la differenza tra i prezzi. In questo
modo riusciamo a gestire il nostro budget.
*Fu William Jevons a definire queste proprietà del denaro nel 1855.
Il motivo per cui è stato scelto proprio l’oro tra tutti i metalli preziosi è che esso è anzitutto
una risorsa scarsa da sempre (nel senso che non ce n’è molto a disposizione); inoltre, l’oro
è duttile e può essere impiegato per realizzare gioielli, può essere fuso e riutilizzato, ed è
facilmente scomponibile in unità di misura più piccole. Infine, l’oro non arrugginisce.
CREDITO E ASSICURAZIONE
Credito e assicurazione potrebbero essere nati prima del denaro, in quanto non
presumono l’utilizzo di denaro fisico: in base al meccanismo del credito, il risparmiatore
che ha un surplus di reddito decide di cedere parte dei suoi risparmi a un intermediario,
che a sua volta lo cederà a un imprenditore. In questo modo il risparmiatore rinuncia
temporaneamente al suo potere d’acquisto affinché in futuro gli venga restituito con gli
interessi. Dati certi prezzi di mercato in un determinato momento, il potere d’acquisto
corrisponde alla quantità di merci che è possibile acquistare con una determinata quantità
di moneta a disposizione. Dunque, il credito porta un doppio beneficio: il risparmiatore,
come già detto, si inserisce nell’ottica di poter soddisfare sia i bisogni immediati sia quelli
futuri, grazie al surplus che verrà restituito con gli interessi. L’imprenditore, grazie al
prestito, potrà anch’egli soddisfare i bisogni immediati, ma potrà anche creare un reddito
futuro, determinando benefici per l’intera società. Il funzionamento del credito dipende
dall’esistenza di due fattori: un intermediario e un mercato libero in cui si possano
autoregolamentare la domanda e l’offerta. Occorre che quest’ultimo sia gestito da privati
(altrimenti sarebbe troppo complesso da un punto di vista burocratico), ma supervisionato
da organi pubblici, che garantiscano la legalità delle varie transazioni. Quanto
all’intermediario, esso è una banca che colma le asimmetrie informative: il risparmiatore
non può essere a conoscenza delle disponibilità economiche e finanziarie della persona a
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cui cederà il denaro, oppure di quali imprenditori sarebbero disposti a stipulare un mutuo,
quindi l’intermediario fungerà da punto di contatto tra i due, dopo aver analizzato Le
rispettive affidabilità economico-finanziarie; il tutto a cambio di un compenso.
L’assicurazione implica che un soggetto si assicura con una compagnia assicurativa
nell’eventualità di subire un danno. A differenza del credito, l’assicurazione presuppone un
contatto diretto tra il risparmiatore e la compagnia, senza un intermediario; di
conseguenza, è una soluzione che genera più fiducia, perché il risparmiatore decide
direttamente a chi cedere il proprio denaro, senza che nessuno lo gestisca al suo posto.
La nascita del denaro ha comportato un’autentica rivoluzione mentale: per la prima volta,
il risparmiatore aveva la possibilità di prolungare nel tempo il proprio potere d’acquisto, in
modo da soddisfare i suoi bisogni futuri. Ci sono due teorie contrapposte riguardo
all’origine del denaro: secondo alcuni, esso è nato in maniera spontanea, mentre altri
ritengono che sia stato imposto dall’alto, ovvero dai sovrani, che volevano spingere i
sudditi a scambiare merci tra loro. A supporto di quest’ultima posizione, nel Settecento
l’abate Ferdinando Galiani immaginava una società comunista dove tutti i lavoratori
depositavano parte dei beni che avevano guadagnato in una sorta di magazzino,
prelevando in cambio il bene di cui avevano bisogno. Ovviamente gli scambi non erano
quasi mai proporzionali (es. deposito un chicco di riso e prendo una pagnotta), perciò
furono ideati dei registri per garantire un congruo rapporto di scambio: era la nascita dei
cambi fissi, che non dipendevano più dalle necessità del singolo cittadino (è l’equivalente a
dare un determinato potere d’acquisto a un bene). Questo sistema immaginario è simile
all’attuale compravendita dei bitcoin*, gestita da una serie di algoritmi che analizzano le
varie transazioni effettuate (es. se devo comprare un tavolo, un algoritmo certificherà che
una determinata somma di bitcoin equivarrà al valore di quel tavolo).
*I bitcoin, come anche le altre valute virtuali, non vengono fabbricati da un ente pubblico
che persegue il fine di mantenere l’equilibrio tra il denaro in circolazione e il commercio di
beni e servizi, in accordo con i bisogni dell’economia di un Paese. Vengono invece immessi
sul mercato in quantità arbitrarie e fisse.
L’oro è il metallo prezioso da sempre usato per la compravendita, in quanto è un metallo
duttile, sfruttabile per usi di gioielleria, incorruttibile (= difficilmente alterabile dal tempo;
più è puro, meno arrugginisce) e scarso (140mila tonnellate presenti nel mondo, perciò la
sua domanda è elevata). Di tutto l’oro estratto al mondo, solo 1/6 viene usato in ambito
industriale, mentre il resto viene impiegato in gioielleria o nella tesaurizzazione esplicita,
ossia l’accumulo e la conservazione di risorse auree da parte di una persona o di uno stato
sotto forma di lingotti o monete preziose, affinché il loro valore venga mantenuto nel
tempo (es. riserve auree delle banche). NB: anche la gioielleria ha una funzione di
tesaurizzazione, ma non esplicita (perché non è la prima ragione per cui un gioiello viene
comprato): va infatti ricordato che, in caso di difficoltà economiche, un gioiello può
sempre essere venduto in cambio di un ritorno economico.
Per creare tassi di cambio fissi, l’economia e il commercio prevedevano che il quantitativo
di oro in circolo nel mercato equivalesse al quantitativo di beni presenti nel mondo; questa
correlazione però veniva spesso alterata da eventi quali la scoperta di nuove miniere (più
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oro sul mercato) o da periodi caratterizzati da livelli elevati di tesaurizzazione (meno oro
sul mercato).
Solo negli ultimi due secoli è nato il denaro fiduciario, ossia un mezzo di scambio
convenzionale che può essere materiale, come le banconote di carta o gli assegni, oppure
immateriale, come le scritture contabili o elettroniche, e che di per sé non ha valore
intrinseco (= la banconota acquisisce valore solo in base alla fiducia reciproca e alla fiducia
che diamo alle banche e agli organi che emettono moneta, ma in sé è un semplice pezzo
di carta). Anche il passaggio alla carta moneta comportò una rivoluzione mentale: le
persone non erano sicure del fatto che i prodotti materiali sarebbero stati scambiati con un
bene che di per sé non aveva alcun valore.
La nascita degli stati-nazione fu un evento fondamentale per la diffusione della carta
moneta: per nazionalizzare la propria moneta, ogni stato poteva scegliere un regime
bimetallico (basato sull’oro e l’argento, es. Francia) o aureo (basato solo sull’oro, es.
Inghilterra). Ciò che attribuiva valore alle monete o banconote era il sigillo dello stato che
vi veniva apposto, sigillo in virtù del quale chiunque possedesse una banconota poteva
andare in banca e chiedere di riceverne l’esatto corrispondente in oro, o viceversa. Per
impedire che i governi approfittassero della possibilità di battere moneta, provocando una
svalutazione della medesima, tale possibilità divenne esclusiva delle banche*. Qualora
infatti fosse stata immessa troppa moneta sul mercato, ci sarebbe stato un periodo di
inflazione (= perdita di potere d’acquisto della moneta), mentre una mancanza di moneta
avrebbe portato a un periodo di deflazione; in entrambi i casi sarebbe stata alterata la
quantità di moneta richiesta per le transazioni. Sotto questo aspetto, la moneta può essere
considerata una merce come le altre (perché esiste una domanda e un’offerta di moneta:
se l’offerta di moneta aumenta e ne eccede la domanda, aumentano i prezzi nominali,
ossia i prezzi stabiliti per convenzione e non sempre corrispondenti alla realtà).
*Prima della diffusione delle banconote, i sovrani modificavano la quantità di oro e di
argento presente in un dischetto di metallo (i dischetti però erano apparentemente
indistinguibili tra loro) in modo tra arricchire le casse dello stato. In tempi più recenti
questo rischio inflazionistico andava comunque a vantaggio degli stati, in quanto
l’inflazione avvantaggia il debitore, e i più grandi debitori per antonomasia sono da sempre
i sovrani (si indebitavano per fare le guerre; inflazionando, ovvero aumentando la quantità
di moneta disponibile, riuscivano a ripagare i propri debiti solo formalmente).
In Europa il gold standard (= il regime aureo dell’Inghilterra) prevalse fino alla Seconda
Guerra Mondiale; durante Bretton Woods (1944) gli USA, in quanto vincitori e nuova
superpotenza mondiale, decisero infatti di ancorare l’oro al dollaro e di ancorare a
quest’ultimo tutte le altre valute, affinché queste potessero avere tassi di cambio più fissi.
Nel 1971 anche questo sistema crollò e le valute rimasero slegate le une dalle altre, con i
tassi di cambio che dipendevano dalle oscillazioni di mercato. Nonostante questi
avvenimenti, il mercato dell’oro è sopravvissuto e si è ripreso: per esempio, in occasione
della nascita della Banca Centrale Europea (1998), le banche nazionali dei paesi membri vi
trasferirono parte delle loro risorse auree (non fisicamente, solo formalmente). Nel 1999
fu stipulato il Patto sull’oro delle Banche centrali in seguito a una manovra inglese che si
rivelò fallimentare: per diversificare le proprie risorse economiche, gli inglesi avevano
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deciso di immettere un grande quantitativo di oro sul mercato, determinandone però un
crollo drastico del prezzo. Per impedire che questa situazione potesse ripetersi, le banche
centrali dei Paesi europei posero una serie di limiti sull’oro che poteva essere immesso sul
mercato, aggiungendo che gli stati firmatari dovevano comunicare tempestivamente a tutti
gli altri una loro eventuale intenzione di vendere parte delle loro riserve auree.
Oggi il mercato dell’oro è diviso in fisico e virtuale. Il primo si trova a Londra, rappresenta
il cuore della compravendita fisica mondiale di oro e argento, ed è governato dalla London
Bullion Market Association (LBMA), un’organizzazione fondata dalla Banca d’Inghilterra che
stabilisce due volte al giorno il prezzo dell’oro e ha definito nel tempo le caratteristiche che
devono avere i lingotti destinati alla tesaurizzazione; la saggiatura preventiva dei lingotti
effettuata dalla LBMA permette la good delivery, ovvero la possibilità per i compratori di
commerciare oro più liberamente senza doversi sottoporre a tutti i controlli. Per quanto
riguarda il mercato virtuale, esso si basa sull’utilizzo di criptovalute come gli ETF, ossia
titoli di proprietà virtuali che non possono essere scambiati con oro fisico (solo con
banconote) e permettono ai risparmiatori di acquistare quote di proprietà di oro posseduto
da altre persone (in questo modo, chi possiede gli ETF ha la garanzia di avere a
disposizione potere d’acquisto materiale anche in futuro). Quando si compra un ETF si fa
una scommessa sull’aumento del prezzo dell’oro: il vantaggio dell’ETF è che è uno
strumento più liquido (è più probabile che un compro oro sia disposto ad accettare ETF
rispetto a oggetti o monete di valore) e più sicuro rispetto ad avere in casa una scorta
fisica di lingotti d’oro. In un contesto di crisi finanziaria il valore dell’oro aumenta: infatti,
quando temiamo che la valuta locale varrà meno, tendiamo tutti a preferire qualcosa di
incorruttibile (l’oro o le criptovalute), essendo certi che nel tempo rimarrà un bene di
valore, sopravvivendo al rischio di svalutazione.
L’ENIGMA ORO
Nel corso del tempo l’oro ha mantenuto una serie di caratteristiche:




Simbolismo: in passato l’oro ha rappresentato le divinità (spesso le statue delle
divinità sono fatte d’oro), oppure il valore (medaglie d’oro al miglior atleta), o
ancora bellezza e sfarzo.
Moneta: è una merce come tante altre, ma con un valore più elevato e più
intercambiabile e universalmente accettato.
Credito: l’oro rappresenta l’idea del credito e della restituzione con gli interessi.
Fiducia: chi possiede oro ha la certezza che in futuro potrà sempre ottenere quello
di cui avrà bisogno in cambio dell’oro stesso. Nel momento in cui tale fiducia
nell’oro venisse meno, l’oro perderebbe il proprio valore.
L’oro può essere utilizzato in diversi modi: i risparmiatori possono depositare l’oro di cui
dispongono in una banca; in questo caso, a differenza degli investimenti in denaro, i
risparmiatori non accumuleranno interessi, ma avranno comunque un’assicurazione in
momenti di crisi: mentre il valore delle altre valute crollerà, quello dell’oro rimarrà più o
meno stabile. Per quanto riguarda le banche centrali nazionali, ognuna conserva una
determinata riserva aurea per mantenere la fiducia dei cittadini nel sistema finanziario
(questo è un po’ l’enigma dell’oro: perché la nostra fiducia nei suoi confronti è rimasta
invariata nel corso dei secoli? E perché l’oro continua a essere oggetto di tesaurizzazione e
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a essere considerato un bene rifugio per tempi cupi futuri nonostante le scarse possibilità
di utilizzo a livello industriale?*). Ovviamente le banche centrali conservano anche denaro
e valute nelle loro casse, che possono produrre a loro piacere, a differenza dell’oro.
*L’oro, di fatto, è l’ultima risorsa a cui si ricorre per sopravvivere; non c’è un solo Paese
che non detenga riserve auree.
L’oro può essere utilizzato come pegno: per esempio, nel 1973 i paesi arabi avevano
aumentato drasticamente il prezzo del petrolio, il che aveva spinto gli stati importatori a
contrarre dei debiti significativi per ottenerlo. Molti paesi, pertanto, avevano pensato di
usare le riserve auree sotterranee delle loro banche centrali per finanziare i propri debiti: i
rappresentanti della CEE si erano riuniti nei Paesi Bassi per discutere di questa opzione,
permettendo infine agli stati di utilizzare le loro riserve auree nel momento in cui
decidevano di dare loro un valore pari a quello di mercato, ovvero quando il prezzo a cui
vendevano le loro riserve auree sul mercato non sarebbe più dipeso dal dollaro, bensì dal
naturale incontro tra domanda e offerta. Se ne parlò poi a Washington durante l’incontro
del G10, in cui si stabilì di applicare questa politica anche a livello globale. A seguito di
questa decisione, nel caso dell’Italia, il valore delle riserve auree aumentò notevolmente,
passando da 3,5 miliardi di dollari a 12,3 miliardi di dollari. Va notato che nel 1973 l’Italia
era più indebitata rispetto ad altri paesi perché, all’inizio del decennio, aveva implementato
varie politiche di welfare (sanità, pensioni…), rimandando però il pagamento dei costi
relativi alla loro applicazione al 1975. Decise perciò di chiedere alla Germania un prestito di
2 miliardi di dollari, e quest’ultima volle in cambio 1/5 delle riserve auree italiane. In realtà
non ci fu mai uno spostamento fisico di queste riserve, e nel 1978 l’Italia riuscì a ripagare
questo debito. Il problema fu che a livello internazionale l’Italia iniziò a essere concepita
come un paese così allo stremo da essere costretto a vendere le proprie risorse auree pur
di barcamenarsi nella situazione di crisi che stava vivendo. E questo è proprio il rischio che
si troverebbe ad affrontare ogni Paese qualora decidesse di immettere tutte le sue riserve
auree sul mercato.
Viene da chiedersi allora qual è il motivo per cui i Paesi conservano così tanto oro
sottoterra. Del resto, se l’Italia vendesse tutto l’oro di cui dispone la Banca Centrale,
riverserebbe sul mercato più della metà di tutto l’oro che viene già commerciato; di
conseguenza, l’offerta di oro crescerebbe esponenzialmente e, allo stesso tempo, i prezzi
crollerebbero. Ci fu un altro caso storico a sfavore di questa ipotesi: dopo l’armistizio
dell’Italia dell’8 settembre 1943, Roma fu occupata dai militari nazisti, che aspiravano a
impadronirsi delle 120 tonnellate d’oro della Banca d’Italia, in modo da poterle poi
rivendere sul mercato pubblico libero che si teneva in Svizzera per finanziare la guerra che
stavano perdendo. Il governatore della Banca d’Italia ideò un inganno nei confronti dei
tedeschi: al loro arrivo, i banchieri dovevano dire loro che le riserve auree erano state
trasferite a Potenza, poiché girava la voce che la città a breve sarebbe stata conquistata
dagli alleati (furono anche prodotti documenti falsi per attestare questo trasferimento). In
realtà, l’oro fu nascosto nell’intercapedine vuota che circonda il caveau sotterraneo in
cemento armato della Banca, dove è tuttora conservato. Alla fine i nazisti scoprirono che
in realtà Potenza non sarebbe caduta in mano agli alleati, perciò il governatore si ritrovò
costretto a smontare l’inganno e riportare l’oro nel caveau, arrendendosi. Dopo essersi
appropriati delle riserve auree italiane, i nazisti provarono a venderle, ma di quelle 120
66
tonnellate solo 25 furono vendute, mentre le altre 95 furono in seguito recuperate dagli
Americani e restituite ai Paesi proprietari. Tale avvenimento testimonia che l’oro è una
riserva di valore e può essere accumulato infinitamente, ma se si cerca di venderlo in
grandi quantità (tonnellate), l’aumento di offerta che ne deriva fa crollare il suo valore e,
ovviamente, il suo prezzo di mercato. Questo è il motivo per cui i nazisti non riuscirono a
trovare acquirenti: se un qualsiasi stato avesse acquistato simultaneamente tutte le 120
tonnellate di oro italiano, il valore di quest’ultimo sarebbe diminuito notevolmente, quindi
l’acquirente ci avrebbe perso.
Un’altra ipotesi è quella di vendere l’oro in maniera graduale, ma se l’Italia lo facesse oggi,
il denaro guadagnato non basterebbe comunque a ripagare tutti i debiti. E, soprattutto, ne
soffrirebbe la sua reputazione internazionale, con il risultato che gli investimenti
provenienti dall’estero crollerebbero a loro volta, vanificando così tutti gli sforzi fatti per
ripagare il debito. Anche qualora tutte le banche nazionali del mondo si mettessero
d’accordo e vendessero tutto l’oro di cui dispongono, l’offerta sarebbe troppo ampia
rispetto al passato e l’oro perderebbe valore in quanto bene rifugio. È dunque difficile
liberarsi dell’oro facendolo fruttare (= trasformandolo in denaro corrente). Si può solo
sperare che la fiducia collettiva continui a reggere questa convenzione secondo cui l’oro
vale molto (in realtà il suo valore dipende dal giudizio e dall’immaginazione di tutti gli
esseri umani).
Ma quindi l’oro può essere solo conservato sottoterra? Non si potrebbe usare per altri
scopi (es. costruire edifici oppure ripagare il debito italiano)? La risposta è no: è
impossibile vendere un grande quantitativo di oro; l’Italia ne possiede 2500 tonnellate, che
valgono tra 80 e 90 miliardi di euro, a seconda delle oscillazioni del prezzo di mercato; se
però le immettesse tutte simultaneamente sul mercato, il prezzo di mercato scenderebbe a
10 o 5 miliardi.
SEMINARIO MCCLOSKEY
Secondo McCloskey la forza dell’economia e di qualsiasi disciplina risiede nella sua capacità
predittiva, che a sua volta dipende dai modelli adottati. Uno dei temi fondamentali dei suoi
studi è stato il “grande fatto” della crescita economica moderna, responsabile del
passaggio da un contesto storico caratterizzato da guerre e carestie e, più in generale, da
lievi miglioramenti e peggioramenti, a un periodo in cui il PIL di certi paesi cresceva del 45% ogni anno. La rivoluzione industriale costituisce uno dei motivi principali che hanno
determinato tale fenomeno, difatti la crescita economica moderna non esisteva prima
dell’Ottocento, mentre questi ultimi 200 anni hanno visto la diffusione dell’alfabetizzazione
e un aumento dal 30% al 100% del reddito pro capite delle persone ordinarie.
McCloskey ha anche cercato di dimostrare che esiste una razionalità economica pure
nell’agricoltura degli open fields: in altre parole, secondo la sua tesi quest’ultima non era
un’agricoltura collettivizzata, bensì presentava caratteristiche simili a quella delle
enclosures. Due ulteriori temi dei suoi studi sono stati l’abuso della statistica e la presenza
della retorica nell’economia, che, va ricordato, è una scienza, poiché applica il metodo
scientifico e cerca di quantificare il proprio oggetto di studio, tentando di prevedere e
spiegare la realtà concreta. Al pari di qualsiasi altro scienziato, gli economisti argomentano
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e fanno delle dimostrazioni, avvalendosi però di figure retoriche, ossia utilizzando il
linguaggio in forma non denotativa: ad esempio, in ambito economico la parola “mercato”
è una metafora usata per riferirsi alla totalità dei consumatori e dei produttori di un certo
bene; “lotta di classe” è un’altra figura retorica che indica le tensioni tra gruppi di persone
differenziati dai rispettivi redditi, e così via. Ne deriva che un’analisi anche di tipo letterario
è utile per capire i testi degli economisti, anche perché l’economia presenta alcuni tratti
della conversazione orale, a partire dalla persuasione (= la capacità di convincere gli altri
della validità del proprio punto di vista). McCloskey ha calcolato che circa il 25% del PIL di
ogni stato deriva da lavori in cui la persuasione è fondamentale, ad esempio l’avvocato
oppure l’imprenditore (che deve convincere altre persone a lavorare per lui).
La buona economia, dunque, non è pura analisi. Del resto, anche i dati numerici che
troviamo nei grafici (e che potrebbero farci pensare il contrario) derivano da una scelta
soggettiva e hanno anch’essi l’obiettivo implicito di persuadere: d’altronde, l’interesse di
uno studioso nei confronti di un aspetto specifico di un fenomeno piuttosto che di un altro,
come anche le domande che si pone durante la sua ricerca, rivelano implicitamente il suo
punto di vista. Possiamo considerare come esempio la legge della domanda, in base a cui
la curva della domanda scende nel momento in cui si alzano i prezzi: secondo McCloskey,
la scienza economica contemporanea tenta costantemente di dimostrare che ci sono
eccezioni a questa legge, ma se chiedessimo agli economisti perché credono che la legge
in questione sia vera, otterremmo risposte diverse tra loro, come l’introspezione (=
l’esame di coscienza che ogni individuo fa quando aumentano i prezzi, chiedendosi se
effettivamente gli serva quel prodotto), oppure gli studi passati, o ancora i risultati
statistici di esperimenti concreti da cui è emersa la stessa regolarità. Malgrado solo questi
ultimi possano essere dimostrati, le altre risposte non sono prive di validità scientifica.
Già nel 1975 Feyerabend scrisse un libro, Contro il metodo, in cui sosteneva che non
esiste la polizia scientifica, ossia un ente che sanzioni gli scienziati che non seguono
rigorosamente il metodo scientifico; in aggiunta, un’ipotesi non è mai confermata per
sempre, ma potrà continuamente essere falsificata. Gli unici risultati accettabili sono quelli
in grado di prevedere e spiegare correttamente il funzionamento della realtà; il metodo
utilizzato per arrivarci è irrilevante. McCloskey ha applicato questo principio all’economia:
storicamente c’è sempre stata la tendenza ad adattare le scienze sociali, come pure
l’economia, al modello matematico, rinchiudendo così i comportamenti umani in modelli
assai semplici e dotati di una forte capacità predittiva. Tuttavia, con questo atteggiamento
si rischia di ridurre l’economia a uno studio della storia del comportamento umano.
McCloskey, invece, ritiene che sia importantissimo misurare le cose, ponendosi ogni volta
la domanda “Quanto?” (es. per stabilire se il jobs act ha funzionato, un buon economista
dovrebbe chiedersi: “quanta occupazione ha creato?”). I problemi insorgono quando si
trascura questa domanda (è il difetto di molti economisti attuali, che preferiscono
concentrarsi su aspetti poco rilevanti nell’ambito della crescita e dello sviluppo), oppure
quando si passa dalla descrizione quantitativa di un fenomeno all’identificazione delle sue
cause. In quanto esseri umani, infatti, noi tendiamo sempre a preferire nessi causali
meccanici e lineari, ma l’economia è un sistema complesso, con relazioni causa-effetto
molto aggrovigliate e non immediate: pertanto, di fronte a un fenomeno economico
provocato da diverse ragioni, come la crisi del 2008, gli economisti dovrebbero fermarsi e
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riflettere su quanto pesa ogni singola causa, in modo da individuare le situazioni più
urgenti da risolvere. Secondo McCloskey, però, ciò non avviene; al contrario, gli studiosi di
questa disciplina dimostrano troppo spesso un atteggiamento scientista*, formulando
previsioni basate su dati scorretti nel loro tentativo di comprendere la realtà: spesso,
infatti, per descrivere la società gli economisti assumono come “dati generali” modelli
basati su informazioni limitate o variabili (es. le preferenze dei consumatori). Il risultato è
una rappresentazione stilizzata, e non puntuale e omnicomprensiva, della realtà (perché i
modelli servono solo per comprendere un fenomeno isolato, ma non funzionano nel caso
di fenomeni complessi determinati da più cause).
*Lo scientismo è un’applicazione meccanicistica e acritica di certi modelli di pensiero ad
ambiti diversi da quelli in cui si sono formati; l’esempio classico è l’utilizzo, da parte degli
economisti o dei sociologi, del modello deterministico di natura ingegneristica per
descrivere i comportamenti umani.
Ne deriva che le previsioni che possiamo fare con un grado di certezza hanno tutte un
carattere molto generale. Secondo McCloskey, dunque, la scienza è una ricerca
approfondita e continuativa, mentre lo scientismo è viziato dall’identificazione di relazioni
causa-effetto eccessivamente semplici e basate sulla padronanza di un numero limitato di
dati. In aggiunta, per giudicare se certe informazioni sono scientifiche e attendibili bisogna
partecipare in forma attiva all’ambito di riferimento (= essere degli esperti, o comunque
degli intenditori, di quell’ambito).
In molte lingue la parola “scienza” rimanda a un’indagine sistematica di un singolo aspetto
della realtà, ma in inglese, a partire dalla metà dell’Ottocento, il termine “science” fu
esteso oltre l’ambito della fisica (basata sui modelli matematici e le metafore), includendo
anche quello della biologia (basata su un resoconto in forma narrativa e discorsiva dei
fatti). Negli USA, dopo la Seconda guerra mondiale, l’economia ha adottato i metodi propri
della fisica, diventando comportamentistica e concependo i suoi soggetti (venditori e
acquirenti) come degli ingranaggi; in altre parole, si è incentrata unicamente sui loro
comportamenti, a prescindere dalle loro motivazioni e dai loro pensieri. Questa tendenza a
imitare il metodo della fisica è detta scientismo, e gli economisti che lo adottano si
aspettano che tutti i comportamenti degli uomini siano prevedibili, al pari dei fenomeni
meteorologici: dopotutto, la meteorologia è fisica applicata. Se l’economia funzionasse
come la fisica tutti gli economisti o gli investitori sarebbero ricchi, ma la realtà non è
sempre così, in quanto gli esseri umani, a differenza delle molecole, ma anche delle piante
e degli animali, hanno un’etica e possono prendere decisioni audaci o prudenti: in poche
parole, essi agiscono, non si limitano a reagire, e ciò li rende imprevedibili.
L’economia attuale ha diversi vizi: anzitutto, la maggior parte degli economisti concepisce
la matematica come una scienza esclusivamente quantitativa e astratta, al pari della
matematica utilizzata dagli ingegneri, dai meteorologi o dai fisici (in pratica, pretendono di
ridurre e di prevedere la realtà tramite una serie di modelli e di grafici, cosa che
funzionerebbe solo nel caso volessimo studiare la storia dell’economia passata). In realtà,
però, la matematica economica dovrebbe occuparsi soprattutto di stabilire se qualcosa
esiste concretamente o meno, non solo di rispondere alla domanda “quanto?”. Il secondo
vizio è di tipo statistico (statistical significance): gli economisti sostengono erroneamente
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che i numeri contengano intrinsecamente la propria interpretazione, nel senso che se
consideriamo una serie di dati (es. i prezzi dei gelati), possiamo stabilire se sono
statisticamente significativi e scientifici semplicemente basandoci sui numeri che li
compongono (lo stesso vale con le parole: la parola “certo” può anche essere usata in
senso ironico). Il problema, però, non è “torturare i numeri” perché ci dicano qualcosa: il
problema è scegliere i numeri da “torturare”! Per riassumere, la scienza non riguarda tanto
una verità universale e assoluta, quanto quello che gli esseri umani possono dire con
certezza sul mondo.
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