Il tempo: scienza, filosofia e fede Juan José Sanguineti pubblicato in Fede, cultura e scienza, a cura di M. Mantovani e M. Amerise, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano, 2008, pp. 201-213 (con versión castellana, en la parte final) 1. La temporalità come aspetto fondamentale della realtà La questione del tempo è stata sempre considerata con grande attenzione dalle diverse istanze culturali e quindi è un tema privilegiato nel contesto dei rapporti tra la razionalità scientifica o filosofica e la fede cristiana. Di per sé appare un argomento difficile, poiché il tempo non è rappresentabile, né propriamente osservabile, mentre ci viene facilmente offerto nelle sue oggettivazioni metriche o cronologiche, come il giorno della settimana in cui siamo o l’ora in cui sono situati gli eventi. Ma ciò di cui il tempo è misura appare come qualcosa di incorporeo, come un passare impercettibile eppure ineluttabile che noi fermiamo con le nostre astrazioni cronometriche. Questa mescolanza di difficoltà e di facilità con cui pensiamo al tempo lo rende misterioso, sfuggente, affascinante, come aveva notato Agostino. Il tempo non è, tuttavia, uno spettacolo che vediamo dal di fuori. Siamo immersi in esso, con una direzione “di viaggio” irreversibile, e almeno per la nostra vita il tempo appare come qualcosa di rigoroso e necessario, perché non si torna mai indietro nel passato e il futuro sta sempre davanti a noi e arriva puntuale. Sappiamo che è facile illudersi con l’astrazione di un tempo vuoto che in realtà non esiste, eppure il tempo come passaggio dal passato verso il futuro, o come realtà in movimento del nostro presente, possiede per noi una consistenza esistenziale che non è possibile rifiutare, nella quale si gioca tutta la nostra esistenza. La questione del tempo, dunque, è associata con forza alla questione del senso della nostra vita. Il tempo fa parte della struttura più intima della nostra esistenza. Se il tempo non è l’essere, nondimeno appare come una dimensione che qualifica dall’interno il nostro essere e la nostra esistenza. 2 Cerchiamo adesso di considerare la temporalità nelle prospettive della scienza, della filosofia e della fede cristiana. Ciascuna di esse è necessaria ed ha qualcosa da dire sul tempo. La visione scientifica riceve un senso ultimo dalla prospettiva filosofica, e quest’ultima dall’approccio della fede. Questi tre livelli epistemici non si contrappongono e non sono completamente separabili. La scienza oggettivizza il tempo secondo certi parametri. La filosofia cerca di sviscerare la questione ontologica del tempo. La fede cristiana offre una chiave interpretativa ultima di certi punti sul senso del tempo che per la razionalità filosofica restano incerti. 2. La visione scientifica del tempo Il tempo è una dimensione fondamentale del mondo fisico e quindi la scienza, in particolare la fisica, non può evitare di prenderlo in considerazione sin dall’inizio, nella misura in cui studia il movimento, gli eventi fisici e le trasformazioni delle cose naturali. In queste brevi considerazioni non è possibile, ovviamente, soffermarci sul modo concreto in cui il tempo è analizzato nella fisica classica, nella termodinamica, nella meccanica relativistica e quantistica, nella cosmologia, ecc. In qualche modo, possiamo dire che esso viene preso inizialmente in base alle misurazioni culturali o tecnologiche esistenti (calendari, ma soprattutto orologi, per arrivare al microtempo, nell’analisi degli eventi), e poi viene sottoposto a un processo di astrazione che consente la sua integrazione nella visione matematica della realtà (di per sé il tempo, come lo spazio, sono grandezze fisiche misurabili). In questa prospettiva, il tempo interviene come una variabile nella formulazione delle leggi fisiche, e in generale è collegato alla “traiettoria” dinamica spazio-temporale in cui gli eventi si svolgono. In altre parole, il tempo fisico si presenta sempre associato a una misurazione matematica ed è così come interviene nella “descrizione” dinamica lawlike (sottomessa a leggi) degli eventi, per cui risulta vera la caratterizzazione aristotelica del tempo come un certo numero che corrisponde o è in rapporto al movimento o alle cose che mutano (numerus motus). Negli studi fisici compaiono una serie di nozioni temporali collegate al concetto di tempo. Una di esse è l’istante o tempo 0, come se fosse un punto matematico “di tempo”, sicuramente ideale (frutto di una divisione ideale del tempo), eppure associabile a certi eventi (come il decadimento di una particella). Il periodo o lasso di tempo invece è la durata. Un’altra nozione temporale e quella di simultaneità cioè il 3 fatto che due cose o eventi si trovino in un identico tempo. La nozione di simultaneità in qualche modo sembra necessaria -sia pure con limiti- per la misurazione del tempo, dal momento che ci dev’essere simultaneità tra lo strumento di misura del tempo (l’orologio, che può essere in senso lato un ritmo o un’oscillazione naturale) e la temporalità dell’evento misurato. La teoria einsteiniana ha dimostrato la relatività della misurazione del tempo rispetto a un sistema spaziale di riferimento dato, per cui i parametri di tempo e di spazio non sono mai indipendenti. La relatività generalizzata relativizza la misurazione spazio-temporale rispetto alla gravitazione o, in altre parole, alla curvatura dello spazio, aprendo così un legame inevitabile della concettualizzazione del tempo con la cosmologia, cioè con la concezione globale dell’universo come unità gravitazionale o “struttura incurvata dello spazio-tempo”. La “filosofia” del tempo fisico non si può fare alle spalle della caratterizzazione scientifica del tempo che ho appena indicato (ometto, per motivi di semplicità, altri spunti da aggiungere se volessimo tener conto della fisica quantistica e della cosmologia quanto-gravitazionale). Il passaggio alla filosofia si compie quando riflettiamo sul senso della concettualizzazione fisica del tempo. La fisica relativistica, nella sua applicazione cosmologica, non si limita a vedere lo spazio-tempo come una misurazione relativistica, che in definitiva è collegata a un sistema di osservazione e presuppone comunque la costanza della velocità della luce per ogni sistema di riferimento, ma ci offre anche degli spunti “qualitativi” rilevanti per la prospettiva filosofica. I. Tempo cosmologico e tempo locale naturale. La teoria fisica del tempo ci obbliga a distinguere tra il tempo cosmologico, dove si lavora con velocità vicine alla luce e con grandi masse e distanze dell’universo, ambito nel quale le restrizioni relativistiche diventano importanti, e il tempo locale, ad esempio del sistema inerziale Sole-Terra, dove le restrizioni relativistiche sono poco rilevanti (si potrebbe pure parlare del tempo microfisico, accessibile solo alla scienza, ma non mi soffermerò adesso su questo punto). All’interno del sistema Sole-Terra, quindi, il tempo fisico acquista una serie di caratteristiche più facilmente collegabili con il tempo fenomenologico umano di cui parlano filosofi e psicologi. Molte caratteristiche della 4 nostra percezione temporale sono radicate nella nostra natura psicosomatica, quindi sono in connessione con i ritmi cerebrali situati in un contesto biologico terrestre. Non esiste, di conseguenza, la dualità “tempo psichico” e “tempo fisico”, tipica del dualismo cartesiano (il quale tende, per di più, a negare realtà al tempo fisico). Piuttosto esiste un tempo cosmologico, elaborato dalla scienza, e un tempo naturale “locale”, comune agli organismi terrestri, collegato alla percezione temporale degli organismi senzienti e in particolare alla percezione umana del tempo. Il tempo naturale e fenomenologico è locale, ma non per questo motivo è irreale. Al contrario, esso è il tempo vero della natura in quanto offerta alla nostra percezione, in nessun caso soggettivo o “interno”: l’intenzionalità della percezione ci rapporta a un mondo reale temporale (con caratteristiche di base come la successione regolare giorno-notte). Il nostro tempo naturale viene colto con un minimo di misurazione culturale, ad esempio, la scansione giorno-notte, da dove derivano le unità cronometriche di base, quali i giorni, gli anni, le ore. Il “nostro” tempo fenomenologico naturale, di conseguenza, dal punto di vista antropologico è psicosomatico (presuppone la percezione) ed è culturale (una differenza importante rispetto ai tempi psicosomatici degli animali). Su questa base si costruisce la concettualizzazione scientifica del tempo, la quale alla fine abbandona le intuizioni temporali ordinarie. La scienza moderna ci ha insegnato a non attribuire al tempo cosmico le caratteristiche del nostro tempo fenomenologico-culturale, per una sorta di ampliamento psicologico. Non possiamo “immaginarci” la temporalità cosmica (nel cosmo non esiste, ad esempio, un presente comune; le diverse temporalità “proprie” rimangono locali). La temporalità cosmica non è intuitiva. Eppure il tempo locale, come abbiamo detto, è reale. Di conseguenza, il nostro tempo storico, nel quale nasciamo e moriamo, comune a tutti gli uomini della terra e quindi dotato di un presente simultaneo per tutti gli uomini adesso viventi, è oggettivo e non un’illusione. II. Direzione del tempo e conoscenza del presente. Il tempo fisico oggettivato dalla fisica teorica non ha di per sé, nelle usuali interpretazioni, una direzione privilegiata. In altre parole, non consente di definire un futuro e un passato. Le equazioni della fisica teorica sono invarianti sotto l’inversione della direzione del 5 tempo, il che vuol dire che gli eventi temporalmente misurati sono reversibili. Questa caratteristica, tuttavia, appare collegata allo statuto astratto della fisica e quindi non comporta l’irrilevanza del tempo “direzionale” (divisione di passato e futuro), tanto meno la sua inesistenza. La tesi contraria è soltanto un’interpretazione filosofica (sbagliata) basata sul presupposto, molto discutibile, del primato assoluto della fisica nell’ambito della conoscenza del mondo naturale. Del resto, tutti sanno che le “soluzioni” fisiche delle equazioni della scienza si confrontano sempre con asimmetrie temporali. La fisica rigorosamente astratta tralascia la direzione temporale, la quale appare comunque come una realtà “esistenziale” o “di fatto” quando osserviamo la natura così come ce la presenta la nostra esperienza concreta. Ogni esperienza si compie, però, dal nostro presente storico. Così, l’espansione dell’universo, conosciuta tramite la cosmologia, viene considerata dalla fisica come movimento verso uno stato futuro dell’universo, permettendo di definire così il passato (ad esempio, diciamo che il Big Bang è un evento del passato), in rapporto al nostro presente di esperienza. In altre parole, se la realtà è storica, non possiamo conoscerla soltanto in astratto, ma la conosciamo in rapporto alla nostra esperienza adesso. Questa esperienza ci informa dello stato reale del mondo (parzialmente) e del nostro io corporeo nel mondo, e non per questo è soggettiva. La conoscenza della natura nel suo rapporto a noi stessi non è “soggettiva” nel senso di illusoria, ma è reale ed oggettiva. Detto in altre parole: la conoscenza reale ed esistenziale dello stato del mondo, pur nella sua parzialità, non può prescindere dalla conoscenza di noi stessi in quanto partecipiamo in atto all’evolvere del mondo (e viceversa). Una conoscenza puramente astratta, di un tempo senza un presente in atto, o di un mondo “in terza persona”, senza un “io in prima persona”, è possibile ed utile, ma è sempre un’astrazione che non può essere assolutizzata. La sua assolutizzazione porta ad una sorta di “platonismo oggettivistico” che finisce col negare la rilevanza della storia della natura e quindi della storia umana. III. Causalità e unità temporale universale. Finora mi sono attenuto alle versioni atemporalistiche della fisica teorica (di solito versioni “conservatrici”, contrassegnate dal determinismo), dove il tempo a livello di equazioni non appare direzionale. In realtà, ci sono molto settori della fisica, come la termodinamica, la fisica quantistica, la cosmologia, dove la distinzione tra passato e futuro si presuppone 6 in un modo non problematico. Il punto è collegato al riconoscimento di processi fisicamente irreversibili, i quali nella fisica vengono visti tradizionalmente in modo statistico. Certe versioni della fisica più audaci e recenti, di carattere indeterministico (termodinamica di Prigogine, fisica dei sistemi dinamici non lineari e della complessità), sono invece profondamente temporalistiche. Questa nuova visione della fisica (“nuova” relativamente, poiché risale già a parecchi decenni), la pone più in continuità con i paradigmi scientifici contemporanei delle scienze biologiche e della complessità, i quali comporterebbero una maggiore continuità tra le scienze naturali e le scienze umane, profondamente storiche. Nelle versioni prevalentemente atemporalistiche e deterministiche, non completamente superate in ambito scientifico, il riconoscimento della direzione passato-futuro del tempo fisico (ad esempio, in un quadro statistico termodinamico, o nella relatività) veniva talvolta associato alla causalità. L’ordine causale sarebbe, in questo senso, intrinsecamente temporale, e la causa sarebbe sempre prima, mentre l’effetto sarebbe sempre dopo. In questo senso, gli eventi causalmente collegabili nello spazio-tempo relativistico avrebbero, così si è interpretato spesso, un ordine temporale invariante, dove il futuro e il passato vengono fissati dalla situazione storica dell’osservatore (quindi da un’istanza non strettamente fisica). Anche qui, come si vede, appare la distinzione tra futuro e passato, con una netta irreversibilità. Questa impostazione, tuttavia, rischia di restringere troppo la causalità alla successione temporale e al determinismo. Nelle versioni fisiche meno deterministiche (ad esempio, fisica della complessità), il tempo appare più ricco perché la visione causale viene presa in una maniera più aperta, non come la pura successione rigida, debitrice di Hume, tra linee univoche “prima/dopo”. Tralasciando questo punto, c’è da notare che la “dispersione” dei tempi relativistici locali viene superata dalla cosmologia contemporanea relativistica, dal momento che possiamo prendere un evento sufficientemente globale (l’espansione dell’universo) come “orologio di base”, e così relativizzare gli oggetti fisici rispetto ad esso, ottenendo in questo modo un tempo universale “coordinato”. Grazie a questo tempo cosmico, dal punto di vista scientifico possiamo parlare con senso di un’età dell’universo, con un inizio (il Big Bang), una situazione presente (il nostro adesso come osservatori) e la prospettiva di un futuro reale, sia pure incerto. 7 3. La prospettiva filosofica Nelle considerazioni precedenti, come possiamo notare, l’impostazione scientifica ci consente di presentare una certa filosofia del tempo naturale. Mi sono concentrato sulla fisica della relatività e la cosmologia, omettendo, per mancanza di spazio, altre caratterizzazioni che si potrebbero aggiungere se volessimo passare al campo delle scienze della complessità e la biologia. Ovviamente la fisica, o ciò che la fisica dice del tempo, può essere interpretato -in una prospettiva filosofica-, in un senso puramente strumentalistico, atemporalistico, idealistico, ecc. Ho seguito un’interpretazione filosofica realistica “moderata” (nella quale, ad esempio, i viaggi nel tempo appaiono come costruzioni matematiche senza una base realistica). Di conseguenza, dalla pura visione scientifica fisica possiamo prendere nota di alcune proprietà qualitative e non puramente metriche del tempo, filosoficamente rilevanti: a) Il tempo fenomenologico dell’uomo è legato alla nostra condizione biologica e psichica. Fisicamente è un tempo “locale”, non attribuibile al cosmo (come erroneamente hanno fatto gli antichi). Eppure è un tempo vero, per cui possiamo parlare con senso di esso, come fa la filosofia, in particolare l’antropologia. Per passare a questo piano non occorre postulare un “tempo psichico” completamente diverso dal “tempo fisico” (visione dualistica). Il nostro tempo naturale umano è culturale e insieme ha una radice biologica e fisica, in piena continuità con il tempo di cui parlano le scienze. b) Il tempo cosmologico, sia pure con le restrizioni imposte dalla fisica (non possiamo considerarlo intuitivamente), appare contrassegnato da una serie di caratteristiche topologiche importanti: * il tempo del cosmo ha un inizio e quindi una direzione, e non ha importanza il fatto che tale inizio non sia necessariamente assoluto. L’inizio o “nascita dell’universo” secondo la cosmologia del Big Bang non è l’istante della creazione dal nulla in un senso teologico. Dal punto di vista scientifico non si pone il problema di un “prima” temporale a tale nascita, secondo le correnti versioni cosmologiche (standard, oppure inflazionarie e perfino quantogravitazionali), dal momento che il Big Bang è un certo inizio dello spazio-tempo costitutivo del “nostro” universo. Il Big 8 Bang potrebbe essere un evento in un quadro quanto-gravitazionale pre-temporale molto più ampio, di cui oggi possiamo parlare in termini puramente speculativi. * il tempo cosmologico è universale, per cui corrisponde globalmente all’universo. Di conseguenza, l’universo (“il nostro universo”) appare contrassegnato da un’intrinseca temporalità, come processo evolutivo globale con un dispiegamento che, partendo da un inizio, fa emergere un ordine (strutture locali, arrivando alla formazione di un pianeta come la terra, capace di ospitare la vita e l’uomo), mentre si protende ugualmente verso un futuro finale dove si possono pensare parecchie possibilità cosmologiche (la più probabile sembra essere la scomposizione finale dell’ordine cosmico). All’interno di questa struttura temporale si colloca la storia della vita e della specie umana. La cosmologia contemporanea esclude, in linea di principio, antiche ipotesi sulla ripetizione indefinita di cicli uguali di formazione e distruzione del cosmo. Una visione completamente atemporalistica del cosmo, benché sia stata proposta da alcuni autori, oggi appare forzata e poco convincente. Mi pare di aver presentato in sintesi quanto oggi ci dice la scienza di significativo sul tempo, filosoficamente interpretato. Ovviamente l’attenzione si sposta, in questo caso, allo scenario cosmologico. Ecco una piattaforma sulla quale è possibile articolare un discorso di natura teologica sul tempo del cosmo, come vedremo alla fine. Adesso possiamo dare uno sguardo al tempo dell’uomo, ma non in un modo drastico, il che ci porterebbe ancora una volta al dualismo, bensì nella continuità col tempo della natura e, soprattutto, col suo senso ontologico o metafisico. Il tempo fisico corrisponde in maniera rigorosa al divenire, come gli antichi filosofi avevano già intuito. Esso è l’espressione di un modo di essere perennemente instabile, anzi sempre sfuggente. Senza una direzione, in qualche modo il tempo nemmeno esiste, in quanto viene quasi dissolto nel moltiplicarsi di indefinite variazioni senza ordine e senza scopo. Un tempo così, anche se fosse infinito -come accade nella proliferazione caotica di infiniti mondi o universi nella concezione epicurea, spesso riproposta di volta in volta-, non meriterebbe il nome di “eternità”, anzi sarebbe una realtà massimamente distante dall’eternità. 9 I tempi naturali del nostro cosmo appaiono invece incorporati a una varietà di “frecce temporali” (insorgenza di ordini e di strutture), anche se sono parimenti sottoposti al divenire, visto che pure essi “passano” (Aristotele parlerebbe di un mondo costituito da “generazioni” e “corruzioni”, cioè da costruzioni e successive distruzioni). Qualcosa di simile avviene nella vita organica solo che, in questo livello più alto della materialità, una forma complessa e organizzata sfida il divenire e mantiene come un “ricordo” della sua identità nella forma di una struttura genetica che presiede in simultaneo i complessi processi di nascita e di sviluppo dell’organismo vivente. Così, nel “tempo della vita” appaiono nuove categorie temporali, prive di senso nelle sostanze inanimate, quali sono la nascita, la crescita, la giovinezza e la vecchiaia, la maturazione e la morte. Nella vita sensitiva, il tempo viene inoltre percepito per la prima volta tramite la memoria. Grazie ad essa, il vivente sensitivo raccoglie il suo passato, organizzandolo come esperienza e come materia di apprendimento che gli consente di anticipare il futuro in una maniera intenzionale ed efficace. L’animale possiede ormai una temporalizzazione intenzionale (ovviamente limitata o, per così dire, “a breve termine”), ma non è capace di riflettere su di essa. La sua vita non è ancora una esistenza, per cui la morte non è drammatica per lui, essendogli in qualche modo inconsapevole. L’uomo è l’essere più temporale della natura, e al contempo è l’unico soggetto dell’universo capace di trascendere il tempo in un modo assoluto e consapevole. Egli vive immerso nella temporalità in una maniera cosciente, in quanto comprende in astratto la ratio temporis, il concetto di tempo, di passato, futuro, presente, ecc., come si vede perfino nelle forme verbali del linguaggio (basta pensare alla ricchezza con cui le coniugazioni dei verbi articolano aspetti della temporalità). Grazie alla sua capacità matematica, inoltre, l’uomo divide il tempo in periodi regolari in maniera astratta, riducendolo a numero ideale. L’astrazione è un superamento cognitivo del tempo. Questo superamento (“trascendenza”) non lo allontana dal tempo, ma piuttosto lo rende capace di trasfigurarlo o di spiritualizzarlo in molti sensi. In primo luogo, dal punto di vista cognitivo, l’uomo, poiché misura i tempi, può percorrerli in tutte le sue direzioni (ad esempio, analizzando nei suoi dettagli gli eventi di una storia passata). In 10 un versante pratico, egli può programmare e organizzare il suo tempo (pianificando ciò che farà nei prossimi mesi, anni, periodi della vita). Si vede come in questo senso l’uomo è, simultaneamente, un abitatore consapevole del tempo (da dove nascono una serie di emozioni e di virtù collegate al tempo: pazienza, speranza, fretta, angoscia), un “signore del tempo” (comunque con tanti limiti), e un soggetto che continuamente trascende il tempo, ad esempio, quando comprende in un unico sguardo un’intera pagina, un libro, una sinfonia, una storia o l’intera storia dell’umanità e della natura, tutte cose che di per sé si svolgono in maniera rigorosamente successiva. In quanto abitatore del tempo, l’uomo è sottoposto ai suoi limiti intrinseci, dei quali vorrei sottolineare il fatto che il tempo è qualcosa di cui si dispone con libertà ma insieme è finito. Per l’uomo, di conseguenza, il tempo esistenziale (cioè il tempo come struttura del nostro essere di cui siamo consapevoli) appare contrassegnato soprattutto dalla proprietà di essere continuamente aperto al futuro come possibilità (possibilità per i miei progetti, per le mie scelte e per le mie azioni), e al contempo di essere uno spazio limitato che rigorosamente finisce. Non abbiamo un tempo illimitato per nessuna cosa: i giorni sono “brevi”, il tempo per fare qualsiasi cosa è sempre “contato”, e alla fine la nostra stessa vita trova un termine con la morte. Gli aspetti appena segnalati confrontano l’uomo non solo con il futuro intratemporale, ma con l’eternità. L’uomo desidera l’eternità perché non è mai soddisfatto con il finire del tempo (proprio perché ne è consapevole). Non può non desiderarla, perché la sua vita spirituale, nella misura in cui trascende il tempo (e così può abbracciare tutti i tempi, con la possibilità di pensare a tempi infiniti), contiene una dimensione superiore (intelletto, amore): la dimensione dello spirito, che di per sé è una sorta di “eternità”. Qui la parola eternità non significa una durata temporale indefinita, ma un tipo di vita intellettuale e di amore che sta al di sopra del tempo, pur svolgendosi o dispiegandosi nel tempo. L’uomo è spirito incarnato, temporalizzato. In altre parole, il tempo umano è come un misto di eternità e di temporalità o, meglio, è una vita temporale elevata a una dimensione di eternità. Come portare a una risoluzione definitiva il problema dell’anelito umano di eternità è, a mio avviso, il problema antropologico per eccellenza. Ritengo sia stato 11 toccato in profondità nella recente enciclica di Benedetto XVI Spe salvi, nella quale si può vedere il passaggio dalla filosofia al piano teologico della fede cristiana. Tutti gli uomini desiderano, almeno in una maniera implicita e oscura, l’eternità. Ne è una prova l’orrore che provano nei confronti della morte (propria e altrui), e il non-senso con cui si vede, molto giustamente, un futuro terrestre o cosmologico dove la specie umana sarebbe destinata a scomparire o dove alla fine dovrebbero prevalere i processi elementari della materia, seppellendo le apparizioni di vita e di intelligenza nel cosmo. In qualche maniera tutte le opere della cultura -le scienze, le arti, le religionisono come un tentativo di superamento della finitezza temporale, quindi comportano una tensione “indistruttibile” verso l’eternità. La “risoluzione” del problema può essere, naturalmente, insufficiente o deviata. Non posso che elencarne alcune in una maniera molto sommaria: trascendere il tempo cercando di “eternizzare il presente”, oppure prospettando un discutibile futuro definitivo dell’umanità nel quale la storia troverebbe una culminazione, oppure accettando stoicamente la finitezza e cercando almeno un superamento tramite la coscienza, la filosofia, l’arte o l’amore umano. La morte, la vecchiaia, il decadimento, l’ingiustizia che non muore, comportano un arresto quasi violento di queste “energie di eternità”. È questo il punto dove si può comprendere come l’apertura dell’uomo all’eternità di una vita immortale in Dio sia l’unica strada percorribile per il superamento del dramma dell’esistenza umana. Ma è una strada non filosofica, cioè non disponibile nella prospettiva delle forze della ragione umana, ma solo possibile come accettazione di un dono esistenziale più alto, proveniente da Dio stesso. 4. Il transito alla fede: dal tempo all’eternità come vita In questa parte finale della mia esposizione non posso che indicare in un modo molto schematico dove si potrebbe situare, a mio avviso, il rapporto tra la visione scientifico/filosofica del tempo e la prospettiva teologica. La concettualizzazione scientifica del tempo non trova un diretto legame con la fede cristiana. Direi piuttosto, innanzitutto, che ogni interpretazione del tempo fisico e cosmologico che possa oscurare la realtà della storia, cioè della temporalizzazione dell’esistenza umana, ovviamente entrerà in contrasto con la fede cristiana. Questa 12 possibilità comunque non nasce dalla scienza, ma da un’aggiunta filosofica scientificamente ingiustificabile. Più rilevante potrebbe apparire il confronto tra il problema del destino finale del cosmo, nella prospettiva scientifica, e l’escatologia cristiana relativa alla fine del tempo e della storia. Su questo punto direi, in sintesi, che ogni possibile fine del cosmo, quindi del tempo fisico (distruzione, possibilità di nuovi eventi creativi, ecc.), purché resti aperto, è compatibile con l’escatologia teologica, la quale non ha bisogno di alcuna conferma fisica, dal momento che “la fine dei tempi” è un evento soprastorico, non immaginabile secondo le leggi fisiche, collegato alla Potenza di Dio che opererà un intervento nuovo sul mondo, sul cosmo, sulla storia, proteso alla configurazione di un nuovo statuto della creazione “glorificata”, intervento sul quale non possiamo dire niente utilizzando la razionalità scientifica. La drammaticità di un finale “disastroso” dell’andamento del cosmo, prospettato dalla cosmologia scientifica, al limite non farebbe che confermare la finitezza di un cosmo che non è Dio, e avrebbe un significato analogo a quello della morte dell’uomo. Gli autori che si abbandonano al pessimismo e alla disperazione, in vista di tale prospettiva, lo fanno appunto all’interno di una visione che ignora la trascendenza, fondamento della speranza cristiana. Se passiamo invece alla razionalità filosofica, più sapienziale, allora il rapporto con la fede appare non solo possibile, ma naturale, da un doppio punto di vista. In primo luogo, la salvezza umana viene offerta da Dio in una modalità consona con la storicità della persona, secondo un disegno storico culminante in Cristo e facendo appello alla capacità umana di fare una scelta di libertà destinata ad avere un peso definitivo nel passaggio alla vita eterna. Dio incontra l’uomo nella storia, nei tempi stabiliti dalla sua Provvidenza. L’Incarnazione del Figlio di Dio porta il tempo umano, tempo di Cristo, al piano dell’eternità, già in questa vita terrena e temporale. Così il tempo umano viene, ancora una volta, non annullato, ma elevato a una dimensione più alta. Così come il tempo umano spiritualizza il tempo fisico e biologico, analogamente il tempo cristiano, tempo della grazia, porta il tempo umano alla dimensione della vita eterna. L’eternità, in questa prospettiva, non è una semplice durata indefinita di giorni mortali, e non è neppure l’atemporalità senza vita del pensiero astratto. Essa è, invece, una forma di vita più alta, dove il corpo, come il 13 tempo, vengono elevati e non dissolti. La vita della grazia pone l’uomo in quella connessione con l’eternità che risponde pienamente alla tensione antropologica, costitutiva della persona, verso una trascendenza sopra-temporale cui essa possa partecipare. In secondo termine, il transito dal tempo all’eternità si opera in maniera definitiva, nella prospettiva della fede cristiana, oltre la morte (non “dopo”), quando la pienezza della vita della grazia sarà slegata dal contesto di mortalità organica in cui adesso si svolge la nostra vita (immortalità della nostra anima) e, infine, riprenderà il corpo in un nuovo contesto di gloria che avrà superato definitivamente il sistema corruttivo del nostro cosmo (resurrezione dei corpi, nuova creazione). Ovviamente questi punti appartengono alla fede e alla speranza cristiana e non possono essere sostenuti e nemmeno intravisti dalla razionalità filosofica. Ma la tensione dell’uomo verso l’eternità, insieme all’impossibilità di raggiungerla all’interno della nostra temporalità mortale, danno alla speranza cristiana una particolare credibilità dal punto di vista della ragione filosofica, dal momento che tale speranza appare molto congruente con il dinamismo della persona umana. In altre parole, la speranza che supera il tempo, senza negarlo, non si pone nel futuro orizzontale intrastorico, ma nel “futuro” della verticalità della vita eterna. Il tempo antropologico, in quanto elevazione del tempo fisico, non ha più il senso di un puro divenire e non si riduce nemmeno a una crescita biologica. Piuttosto appare come tempo della libertà, cioè della possibilità futura di una crescita e maturazione morale, cioè della persona in quanto persona. Crescita, dunque, nell’amore, in quanto l’amore “realizza” la destinazione della persona. La speranza cristiana ci dice che tale compimento -evento di salvezza in Cristo, pienezza del tempo e perciò eternità- sarà operante, nel futuro “meta-storico”, come rinnovamento del cosmo e, conseguentemente, della vita umana, che sarà glorificata insieme all’universo. Il “tempo di gloria” del nuovo cosmo e della nuova terra sarà, di conseguenza, un’ultima e definitiva trasfigurazione del tempo fisico. Bibliografia AA. 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Abstract Queste pagine affrontano il problema della temporalità nella prospettiva scientifica, filosofica e teologica. Nell’ambito scientifico, il tempo appare come un parametro collegato alla misurazione matematica di movimenti e trasformazioni fisiche. Viene valutata in questo senso la distinzione tra il tempo della fisica, applicabile al cosmo e alle realtà microfisiche, e il tempo “fenomenologico” dell’uomo, locale per la fisica ma molto importante per l’esistenza umana. Il tempo della fisica consente una visione, limitata ma reale, del tempo direzionale (passato, presente e futuro) e universale (tempo del cosmo). La temporalità umana, a sua volta, quando è studiata nella prospettiva filosofica, manifesta una dimensione trascendente (superamento del tempo) nella quale si produce un’apertura all’eternità. Tale apertura (desiderio di eternità) rimane comunque un enigma, risolto unicamente dalla prospettiva della fede teologale. La fede cristiana eleva la nozione di eternità a una dimensione più alta (vita eterna). 15 VERSION CASTELLANA El tiempo: ciencia, filosofía y fe 1. La temporalidad como aspecto fundamental de la realidad La cuestión del tiempo fue siempre considerada con gran atención por las diversas instancias culturales. Por eso es un tema privilegiado en el contexto de las relaciones entre la racionalidad científica o filosófica y la fe cristiana. De suyo se presenta como un tema difícil, porque el tiempo no es representable, ni propiamente observable, aunque se nos dé muy fácilmente en sus objetivaciones métricas y cronológicas, por ejemplo los “días” de la semana o la hora en que se producen los eventos. Pero lo que el tiempo mide nos parece algo incorpóreo, como un pasar imperceptible, aunque inevitable, que simplemente detenemos con nuestras abstracciones cronométricas. Esta mezcla de dificultad y facilidad con que pensamos el tiempo lo hace misterioso, huidizo y fascinante, como ya había notado San Agustín. El tiempo no es, sin embargo, un espectáculo que vemos desde fuera. Estamos inmersos en él, con una dirección “de viaje” irreversible, y al menos para nuestra vida el tiempo se nos presenta como algo duramente riguroso y necesario, porque nunca vuelve para atrás, hacia el pasado, y el futuro está siempre ante nosotros y llega siempre puntual. Sabemos que es fácil engañarse con la abstracción de un tiempo vacío que en realidad no existe, y sin embargo el tiempo como paso desde el pasado hacia el futuro, o como realidad en movimiento de nuestro presente, posee para nosotros una consistencia existencial que no cabe rechazar, en la que está en juego toda nuestra existencia. La cuestión del tiempo, entonces, está forzosamente vinculada al tema del sentido de nuestro vida. El tempo forma parte de la estructura más íntima de nuestra existencia. Si el tiempo no es el ser, por lo menos se insinúa como una dimensión que caracteriza por dentro nuestro ser y nuestra existencia. A continuación voy a considerar la temporalidad en las perspectivas de la ciencia, la filosofía y la fe cristiana. Cada una de ellas es necesaria y tiene algo que decir sobre el tiempo. La visión científica recibe un sentido último de la perspectiva filosófica, y ésta, a su vez, del planteamiento de la fe. Estos tres niveles epistémicos no se contraponen y no son del todo separables. La ciencia objetiviza el tiempo según ciertos parámetros. La filosofía intenta desentrañar la cuestión ontológica del tiempo. 16 La fe cristiana ofrece una clave interpretativa última de ciertos puntos sobre el sentido del tiempo que para la racionalidad filosófica resultan enigmáticos. 2. La visión científica del tiempo El tiempo es una dimensión fundamental del mundo físico y por tanto la ciencia, en especial la física, no puede evitar tomarlo en consideración desde el principio, en la medida en que estudia el movimiento, los eventos físicos y las transformaciones de las cosas naturales. En estas breves consideraciones no me es posible, por supuesto, detenerme en el modo concreto en que el tiempo es analizado por la física clásica, la termodinámica, la mecánica relativista y cuántica, la cosmología, etc. De alguna manera, podríamos decir que el tiempo se toma inicialmente sobre la base de las mediciones culturales y tecnológicas disponibles (calendarios, relojes, y estos últimos nos permiten llegar al microtiempo en el análisis de los eventos), para verse posteriormente sometido a un proceso de abstracción que permite su integración en la visión matemática de la realidad (de suyo el tiempo, como el espacio, son magnitudes físicas mensurables). En esta perspectiva, el tiempo interviene como una variable en las formulaciones de las leyes físicas, y en general está vinculado a la “trayectoria” dinámica espacio-temporal en la que los eventos se desenvuelven. Con otras palabras, el tiempo físico se presenta siempre asociado a una medición matemática, y así interviene en la “descripción” dinámica lawlike (sometida a leyes) de los eventos, por lo que es correcta la caracterización aristotélica del tiempo como un cierto número que corresponde o está en relación con el movimiento o con las cosas mudables (numerus motus: número del movimiento). En los estudios físicos comparecen una serie de nociones temporales relacionadas con el concepto de tiempo. Una es el instante o “tiempo 0”, como si fuera un punto matemático “de tiempo”, ciertamente ideal (fruto de una división ideal del tiempo en partes), si bien asociable a ciertos eventos (como el decaimiento de una partícula). El periodo o lapso de tiempo, en cambio, es la duración. Otra noción temporal es la simultaneidad, es decir, el hecho de que dos cosas o eventos estén situados en un mismo tiempo. La noción de simultaneidad parece necesaria, de algún modo (pero con límites) para la medición del tiempo, ya que tiene que darse una 17 simultaneidad entre el instrumento que mide el tiempo (el reloj, que en un sentido amplio puede ser un ritmo o una oscilación natural) y la temporalidad del evento medido. La teoría einsteiniana ha demostrado la relatividad de la medida del tiempo con respecto a un sistema espacial de referencia, por lo que los parámetros del tiempo y el espacio no son nunca independientes. La relatividad generalizada relativiza la medición espacio-temporal respecto a la gravitación o, dicho de otro modo, a la curvatura del espacio, abriendo así un vínculo inevitable de la conceptualización del tiempo con la cosmología, esto es, con la concepción global del universo como una unidad gravitacional o “estructura curvada del espacio-tiempo”. La “filosofía” del tiempo físico no puede hacerse de espaldas a la caracterización científica del tiempo que acabo de señalar (omito, por motivos de simplicidad, otros puntos que podrían señalarse si tuviéramos que tener en cuenta la física cuántica y la cosmología cuanto-gravitatoria). El paso a la filosofía se produce cuando reflexionamos sobre el sentido de esta conceptualización física del tiempo. La física relativista, en su aplicación cosmológica, no se limita a ver el espacio-tiempo como una mensuración relativista, relacionada en definitiva con un sistema de observación y presuponiendo la constancia de la velocidad de la luz para todo sistema de referencia, sino que ofrece algunos elementos “cualitativos” relevantes para la perspectiva filosófica. 1. Tiempo cosmológico y tiempo local natural. La teoría física del tiempo nos obliga a distinguir entre el tiempo cosmológico, donde se trabaja con velocidades cercanas a la de la luz y con grandes masas y distancias del universo, ámbito en el que las restricciones relativistas son importantes, y el tiempo local, por ejemplo del sistema inercial Sol-Tierra, donde las restricciones relativistas son despreciables (podría hablarse también del tiempo microfísico, accesible sólo a la ciencia, pero no me detendré en este punto). Dentro del sistema Sol-Tierra, por tanto, el tiempo físico adquiere una serie de características más fácilmente vinculables al tiempo fenomenológico humano del que hablan los filósofos y psicólogos. Muchas características de nuestra percepción temporal están radicadas en nuestra naturaleza psicosomática, y así están en conexión con los ritmos cerebrales situados en un contexto biológico terrestre. 18 No existe, en consecuencia, la dualidad “tiempo psíquico” y “tiempo físico”, típica del dualismo cartesiano (que tiende, además, a negar realidad al tiempo físico). Más bien existe un tiempo cosmológico, elaborado por la ciencia, y un tiempo natural “local”, común a todos los organismos terrestres, vinculado a la percepción temporal de los organismos sensitivos, en especial a la percepción humana del tiempo. El tiempo natural y fenomenológico es local, pero no por este motivo es irreal. Por el contrario, es el verdadero tiempo de la naturaleza en cuanto se ofrece a nuestra percepción, y en ningún caso es subjetivo o “interno”: la intencionalidad de la percepción nos remite a un mundo real temporal (con características básicas, como la sucesión regular día-noche). Nuestro tiempo natural se capta con un mínimo de mensuración cultural, por ejemplo, según el ritmo día-noche, de donde nacen las unidades cronométricas fundamentales, como los días, los años, las horas. “Nuestro” tiempo fenomenológico natural, en consecuencia, desde el punto de vista antropológico es psicosomático (presupone la percepción) y es cultural (una diferencia importante respecto a los tiempos psicosomáticos de los animales). Sobre esta base se construye la conceptualización científica del tiempo, que al final abandona las intuiciones temporales ordinarias. La ciencia moderna nos ha enseñado a no atribuir al tiempo cósmico las características de nuestro tiempo fenomenológico-cultural, por una suerte de proyección psicológica. No podemos “imaginarnos” la temporalidad cósmica (así, en el cosmos no existe un presente común: las diversas temporalidades “propias” son locales). La temporalidad cósmica no es intuitiva. Pero como se ha dicho, el tiempo local es real. Consiguientemente, nuestro tiempo histórico, en el que nacemos y morimos, común a todos los hombres de la tierra y dotado de un presente simultáneo a los hombre actualmente vivientes, es objetivo y no una ilusión. II. Dirección del tiempo y conocimiento del presente. El tiempo físico objetivado de la física teórica no tiene de por sí, en las interpretaciones corrientes, una dirección privilegiada. Con otras palabras, no permite definir un pasado y un futuro. Las ecuaciones de la física teórica son invariantes bajo la inversión de la dirección del tiempo, lo que significa que los eventos temporalmente mensurados son reversibles. Esta característica, sin embargo, está vinculada al estatuto abstracto de la física y por tanto no implica la irrelevancia del tiempo “direccional” (división de pasado y futuro), 19 y mucho menos su inexistencia. La tesis contraria es sólo una interpretación filosófica (errada) basada sobre el presupuesto, muy discutible, de la primacía absoluta de la física en el ámbito del conocimiento del mundo natural. Por otro lado, todos saben que las “soluciones” físicas de las ecuaciones de la ciencia están siempre abocadas a asimetrías temporales. La física rigurosamente abstracta deja de lado la dirección temporal, que de todos modos aparece como una realidad “existencial” o “factual” cuando observamos la naturaleza tal como nos la presenta nuestra experiencia concreta. Toda experiencia se efectúa, con todo, desde nuestro presente histórico. Así, la expansión del universo, conocida gracias a la cosmología, es considerada por la física como el movimiento hacia un estado futuro del universo, lo que permite definir el pasado (con lo que podemos decir que el Big Bang es un evento del pasado), siempre con relación a nuestro presente experiencial. Dicho de otro modo, si la realidad es histórica, no podemos conocerla sólo en abstracto, sino que la conocemos con relación a nuestra experiencia ahora. Esta experiencia nos informa del estado real del mundo (parcialmente) y de nuestro yo corpóreo en el mundo, y no por eso es subjetiva. El conocimiento de la naturaleza en su relación a nosotros no es “subjetivo” en el sentido de ilusorio, sino que es real y objetivo. Lo expreso aún más claramente: el conocimiento real y existencial del estado del mundo, por parcial que sea, no puede prescindir del conocimiento de nosotros mismos en cuanto participamos en acto en la evolución del mundo (y viceversa). Un conocimiento puramente abstracto, de un tiempo sin un presente en acto, o de un mundo “en tercera persona”, sin un “yo en primera persona”, es posible y útil, pero siempre será una abstracción que no puede absolutizarse. Su absolutización “idolátrica” lleva a una forma de “platonismo objetivista” que acaba por negar la relevancia de la historia de la naturaleza y por ende de la historia humana. III. Causalidad y unidad temporal universal. Hasta aquí me he atenido a las versiones atemporalistas de la física teórica (con frecuencia son versiones “conservadoras”, aliadas con el determinismo), donde el tiempo a nivel de ecuaciones no se manifiesta direccional. En realidad, hay muchos sectores de la física, como la termodinámica, la física cuántica, la cosmología, donde la distinción entre pasado y 20 futuro se presupone de un modo no problemático. Este punto se relaciona con el reconocimiento de procesos físicamente irreversibles, que en la física suelen verse tradicionalmente de modo estadístico. Ciertas versiones de la física más audaces y recientes, de carácter indeterminista (la termodinámica de Prigogine, la física de los sistemas dinámicos no lineares y de la complejidad), en cambio, son profundamente temporalistas. Esta nueva visión de la física (“nueva” relativamente, ya que se remonta ya a varios decenios atrás) se sitúa en una mayor continuidad con los paradigmas científicos contemporáneos de las ciencias biológicas y de la complejidad, lo que supone también cierta continuidad entre las ciencias naturales y las ciencias humanas, profundamente históricas. En las versiones preferentemente atemporalistas y deterministas, no del todo superadas en ciertos ambientes científicos, el reconocimiento de la dirección pasadofuturo del tiempo físico (por ejemplo, en un cuadro estadístico termodinámico, o en la relatividad) se asociaba a veces a la causalidad. El orden causal sería, en este sentido, intrínsecamente temporal, y la causa sería siempre antes, y el efecto después. De este modo, los eventos conectados causalmente en el espacio-tiempo relativista tendrían, según una frecuente interpretación, un orden temporal invariante, donde el futuro y el pasado son fijados por la situación histórica del observador (por tanto, por una instancia no propiamente física). También aquí, como se ve, aparece la distinción entre futuro y pasado, con una neta irreversibilidad. Este planteamiento, sin embargo, corre el riesgo de restringir demasiado la causalidad a la sucesión temporal y al determinismo. En las versiones físicas menos deterministas (por ejemplo, en la física de la complejidad), el tiempo se muestra mucho más rico, porque la visión causal se toma de un modo más abierto, no como una pura sucesión rígida, deudora de Hume, entre líneas unívocas “antes/después”. Dejando de lado este punto, deseo hacer notar que la “dispersión” de los tiempos relativistas locales se supera en la moderna cosmología relativista gracias a la posibilidad de tomar un evento suficientemente global (la expansión del universo) como “reloj de base”, para así así relativizar los objetos físicos respecto a tal evento, con lo que se obtiene un tiempo universal “coordenado”. Gracias a este tiempo cósmico, desde el punto de vista científico podemos hablar con sentido de una edad 21 del universo, con un inicio (Big Bang), una situación presente (nuestro ahora como observadores) y la perspectiva de un futuro real, si bien incierto. 3. La perspectiva filosófica En las consideraciones anteriores, como puede verse, el planteamiento científico permite pasar a cierta filosofía del tiempo natural. Me he concentrado en la física relativista y en la cosmología, omitiendo, por falta de espacio, otras caracterizaciones que podrían añadirse si quisiéramos trasponernos al campo de las ciencias de la complejidad y a la biología. Obviamente la física, o lo que la física dice del tiempo, puede interpretarse -en una perspectiva filosófica-, en un sentido puramente instrumentalista, atemporalista, idealista, etc. He seguido una interpretación filosófica realista “moderada” (en la que, por ejemplo, los viajes en el tiempo no son más que construcciones matemáticas, sin ninguna base en la realidad). En consecuencia, dada la pura visión científica de la física, podemos anotar una serie de propiedades cualitativas del tiempo, no meramente métricas, que son filosóficamente relevantes: a) El tiempo fenomenológico del hombre está ligado a nuestra condición biológica y psíquica. Físicamente es un “tiempo local”, no atribuible al cosmos, como erróneamente hicieron los antiguos. Pero es un tiempo verdadero, por lo que podemos hablar de él con sentido, como hace la filosofía, en especial la antropología filosófica. Para pasar a este plano no hace falta postular un “tiempo psíquico” completamente diverso del “tiempo físico” (visión dualista). Nuestro tiempo natural humano es cultural y a la vez tiene una raíz biológica y física, en plena continuidad con el tiempo del que hablan las ciencias. b) El tiempo cosmológico, aún con las restricciones impuestas por la física (no podemos considerarlo intuitivamente), aparece caracterizado por una serie de propiedades topológicas no despreciables: * el tiempo del cosmos tiene un inicio y por tanto una dirección, y no tiene demasiada importancia que ese inicio no sea necesariamente absoluto. El inicio o “nacimiento del universo”, según la cosmología del Big Bang, no es el instante de la creación de la nada en un sentido teológico (aparte de que esta creación no acontece 22 en un instante). Desde el punto de vista científico, el problema de un “antes” temporal a tal nacimiento no se plantea, en las diversas versiones cosmológicas (cosmologías standard, o inflacionarias, o incluso cuanto-gravitacionales), dado que el Big Bang es cierto inicio del espacio-tiempo constitutivo de “nuestro” universo. El Big Bang podría ser un evento dentro de un cuadro cuanto-gravitacional pretemporal mucho más amplio, del que hoy podemos hablar en términos puramente especulativos. * el tiempo cosmológico es universal y corresponde globalmente al universo. Por tanto, el universo (“nuestro” universo) se muestra como intrínsecamente sellado por la temporalidad, en cuanto supone un proceso evolutivo global con un despliegue que, partiendo de un inicio, conduce a la emergencia de orden (estructuras locales, hasta llegar a la formación de un planeta como la tierra, capaz de albergar la vida y el hombre), así como se proyecta hacia un futuro final respecto del cual pueden pensarse varias posibilidades cosmológicas (la más probable parecería ser la descomposición final del orden cósmico). Dentro de esta estructura temporal se sitúa la historia de la vida y de la especie humana. La cosmología contemporánea excluye, en línea de principio, las antiguas hipótesis relativas a la repetición indefinida de ciclos semejantes de formación y destrucción del cosmos. Una visión completamente atemporalista del universo, aunque haya sido propuesta por algunos autores, hoy parece forzada y poco convincente. Creo haber presentado en síntesis lo que hoy nos dice la ciencia sobre el tiempo en cuanto puede ser significativo para la visión filosófica. Quizá la atención se desplaza, en este caso, al escenario cosmológico. He aquí una plataforma sobre la cual puede articularse una reflexión de tipo teológico sobre el tiempo del cosmos, como veremos al final. Ahora podemos echar una mirada al tiempo del hombre, pero no en un modo drástico, lo que de nuevo nos llevaría al dualismo, sino en continuidad con el tiempo de la naturaleza y, sobre todo, con su sentido ontológico o metafísico. El tiempo físico corresponde de modo riguroso al devenir, como ya intuyeron los antiguos filósofos. Él es la expresión de un modo de ser permanentemente inestable, es más, huidizo y auto-disolvente. Sin una dirección, está claro, en cierto modo el tiempo ni siquiera existe, en cuanto se disuelve en la multiplicación al 23 infinito de variaciones sin orden ni finalidad. Un tiempo así, aún cuando fuera infinito -como sucede en las proliferaciones caóticas de mundos o universos infinitos en la concepción epicúrea, a veces repropuesta en nuestros días-, no merecería el nombre de “eternidad”, es más, sería precisamente la realidad máximamente distante de la eternidad. El hombre es el ser más temporal de la naturaleza y a la vez es el único sujeto del universo capaz de trascender el tiempo de un modo absoluto y consciente. Vive inmerso en la temporalidad de una manera consciente, en cuanto comprende en abstracto la ratio temporis, el concepto de tiempo, de pasado, futuro, presente, etc., como se nota en las formas verbales del lenguaje (basta pensar en la riqueza con que las conjugaciones verbales articulan algunos aspectos de la temporalidad). Gracias a su capacidad matemática, además, el hombre divide el tiempo en periodos regulares de modo abstracto, reduciéndolo a número ideal. La abstracción es una superación cognitiva del tiempo. Esta superación (o “trascendencia”) no aleja al hombre del tiempo, sino que más bien lo hace más idóneo para transfigurarlo y espiritualizarlo en muchos sentidos. En primer lugar, desde el punto de vista cognitivo, el hombre, en cuanto mide los tiempos, puede recorrerlos en todas sus direcciones (por ejemplo, analizando en sus detalles los eventos de una historia pasada). En una vertiente práctica, el hombre puede programar y organizar su tiempo, planificando lo que hará en los próximos meses, años y periodos de su vida. Se ve, en este sentido, cómo el ser humano es, a la vez un habitante autoconsciente del tiempo (de donde nacen una serie de emociones y virtudes vinculadas al tiempo: paciencia, esperanza, prisa, angustia), un “señor del tiempo” (pero con muchos límites) y un sujeto que continuamente trasciende el tiempo, por ejemplo, cuando comprende con una única mirada una página entera, un libro, una sinfonía, una narración o la entera historia de la humanidad, todas cosas que de por sí se van desenvolviendo de un modo rigurosamente sucesivo. En cuanto habitante del tiempo, el hombre está sometido a sus límites intrínsecos, de los que subrayaría el hecho de que el tiempo es algo de los que disponemos con libertad, pero a la vez finito. En consecuencia, el tiempo existencial (es decir, el tiempo como estructura de nuestro ser, del que somos conscientes) se nos 24 aparece caracterizado sobre todo por la propiedad de estar continuamente abierto al futuro como posibilidad (posibilidad de mis proyectos, mis opciones, mis acciones), y a la vez por ser un espacio limitado que rigurosamente se me acaba. No tenemos un tiempo ilimitado para ninguna cosa: los días son “breves”, el tiempo para hacer cualquier cosa está siempre “contado”, y al final nuestra misma vida encuentra un término final en la muerte. Los aspectos que acabo de señalar nos enfrentan no sólo con el futuro intratemporal, sino con la eternidad. El hombre desea la eternidad porque no está nunca satisfecho con el acabarse del tiempo (precisamente por tener conciencia de él). No puede no desearla, porque su vida espiritual, en la medida en que trasciende el tiempo (pudiendo así abarcar todos los tiempos, con la posibilidad de pensar en tiempos infinitos), contiene una dimensión superior (inteligencia, amor). Aquí la palabra eternidad no significa una duración temporal indefinida, sino un tipo de vida intelectiva y de amor que está por encima del tiempo, aunque se desenvuelva o despliegue en el tiempo. El hombre es un espíritu encarnado y temporalizado. Con otras palabras, el tiempo humano es como una mezcla de eternidad y temporalidad o, mejor, es una vida temporal elevada a una dimensión de eternidad. Cómo llevar a una resolución definitiva el problema del anhelo humano de eternidad es, a mi parecer, el problema antropológico por excelencia. Estimo que ha sido tocado en profundidad en la encíclica de Benedicto XVI Spe salvi, en la que se puede ver el paso de la filosofía al plano teológico de la fe cristiana. Todos los hombres desean, al menos de un modo implícito y oscuro, la eternidad. Prueba de ello es el horror que todos experimentan ante la muerte (propia y de los demás), y el sin-sentido con que se ve, justamente, un futuro terrestre o cosmológico en el que la especie humana se vería destinada a desaparecer, o donde al final prevalecerían los procesos elementales de la materia, sepultando los momentos temporáneos reservados a la aparición de la vida y la inteligencia en el cosmos. De algún modo, todas las obras de la cultura -las ciencias, las artes, las religiones- son como un intento de superación de la finitud temporal, y en este sentido comportan una tensión “indestructible” hacia la eternidad. La “resolución” del problema puede ser, naturalmente, insuficiente o estar desviada. No puedo aquí sino 25 mencionarlas de un modo sumario: trascender el tiempo pretendiendo “eternizar el presente”, o quizá apuntando a un discutible futuro definitivo de la humanidad en el que la historia encontraría una culminación, o bien aceptando estoicamente la finitud e intentando al menos una superación a través de la ciencia, la conciencia, el arte, la filosofía o el amor humano. La muerte, la vejez, la decadencia, la injusticia que no muere, suponen un freno innatural de estas “energías de eternidad”. Éste es el punto donde se puede comprender cómo la apertura del hombre a la eternidad de una vida inmortal en Dios es el único camino transitable para llegar a una superación del drama de la existencia humana. Pero esta vía no es filosófica, es decir, no está disponible en la perspectiva de las fuerzas de la razón humana, sino que resulta posible sólo como aceptación de un don existencial más alto, proveniente de Dios mismo. 4. El tránsito a la fe: desde el tiempo hacia la eternidad como vida En la parte final de esta exposición indicaré de un modo muy esquemático dónde podría situarse, en mi opinión, la relación entre la visión científico/filosófica del tiempo y la perspectiva teológica. La conceptualización científica del tiempo no presenta un vínculo directo con la fe cristiana. Más bien diría, ante todo, que toda interpretación del tiempo físico y cosmológico que pueda oscurecer la realidad de la historia, es decir, de la temporalización de la existencia humana, contrastará con la fe cristiana. Pero esta posibilidad no nace de la ciencia, sino de un añadido filosófico científicamente injustificable. Más relevante podría parecer la confrontación entre el problema del destino final del cosmos, en la perspectiva científica, y la escatología cristiana relativa al final de los tiempos y la historia. Sobre este punto yo diría, en síntesis, que todo posible final del universo, y por tanto del tiempo físico (destrucción, posibilidad de nuevos eventos creativos, etc.), con tal que quede abierto y no se ponga como algo absoluto, es compatible con la escatología cristiana, la cual no tiene necesidad, por otra parte, de ninguna confirmación física. El momento del “final de los tiempos” es un evento metahistórico, no concebible según las leyes físicas. Es un momento relacionado con la Potencia de Dios que procederá a una intervención nueva sobre el cosmos, el 26 mundo, la historia, destinada a la configuración de un nuevo estatuto de la creación “glorificada”, intervención sobre la cual no podemos decir nada utilizando la racionalidad científica. El drama de un final “desastroso” del curso del cosmos, tal como aparece en el horizonte de la cosmología científica, en último término no haría más que confirmar la finitud de un cosmos que no es Dios, y en este sentido tendría un significado análogo al de la muerte de cada persona. Los autores que caen presa del pesimismo y la desesperación, a la vista de esa perspectiva, se colocan precisamente en una visión que ignora la trascendencia, fundamento de la esperanza cristiana. Si pasamos, en cambio, a la racionalidad filosófica, más sapiencial, entonces la relación con la fe se plantea no sólo como posible, sino como algo natural, desde un doble punto de vista. En primer lugar, la salvación humana es ofrecida por Dios de un modo connatural con la historicidad humana, según un designio histórico que culmina en Cristo y que se remite a la capacidad humana de realizar una elección de libertad, destinada a tener un peso definitivo en el paso a la vida eterna. Dios encuentra al hombre en la historia, en los tiempos establecidos por la Providencia divina. La Encarnación del Hijo de Dios lleva el tiempo humano, tiempo de Cristo, al plano de la eternidad, ya en esta vida terrena y temporal. Y así el tiempo humano no resulta anulado, sino que es elevado a una dimensión más alta. Así como el tiempo humano espiritualiza el tiempo físico y biológico, de modo análogo el tiempo cristiano, tiempo de la gracia, conduce el tiempo humano a la dimensión de la vida eterna. La eternidad, en esta perspectiva, no es un simple durar indefinido de los días mortales, y nada tiene que ver con la atemporalidad sin vida del pensamiento abstracto. Ella es, en cambio, una forma de vida más alta, en la que el cuerpo, como el tiempo, resultan elevados y no disueltos. La vida de la gracia pone al hombre en una conexión con la eternidad que corresponde plenamente a la tensión antropológica, constitutiva de la persona, hacia una trascendencia supra-temporal de la que él pueda ser partícipe. En segundo lugar, el tránsito del tiempo a la eternidad se cumple de modo definitivo, en la perspectiva de la fe cristiana, más allá (no “después”) de la muerte, cuando la plenitud de la vida de la gracia queda desligada del contexto de mortalidad 27 orgánica en la que ahora se desenvuelve nuestra vida (inmortalidad de nuestra alma) y, en fin, recobrará el cuerpo en un nuevo contexto de gloria que habrá superado definitivamente el sistema corruptivo de nuestro cosmos (resurrección de los cuerpos, nueva creación). Obviamente estos puntos pertenecen a la fe y a la esperanza cristianas y no pueden ser argumentados y ni siquiera entrevistos por la racionalidad filosófica. Pero la tensión del hombre hacia la eternidad, junto a la imposibilidad de alcanzarla dentro del ámbito de nuestra temporalidad mortal, dan a la esperanza cristiana una peculiar credibilidad desde el punto de vista de la racionalidad filosófica, dado que esa esperanza se presenta como muy congruente con el dinamismo de la persona humana. Dicho de otro modo, la esperanza que supera el tiempo, sin negarlo, no se pone en el futuro horizontal intrahistórico, sino en el “futuro” de la verticalidad de la vida eterna. El tiempo antropológico, en cuanto elevación del tiempo físico, no tiene ya más el sentido de un puro devenir, y tampoco se reduce a un crecimiento biológico. Más bien aparece como tiempo de la libertad, es decir, el tiempo de la posibilidad futura de un crecimiento y maduración moral, esto es, de la persona en cuanto persona. Crecimiento en el amor, dado que el amor “realiza” la destinación de la persona. La esperanza cristiana nos dice que ese cumplimiento -evento de la salvación en Cristo, plenitud del tiempo y por eso eternidad- será realizado, en el futuro “metahistórico”, como una renovación del cosmos y, consiguientemente, de la vida humana, que será glorificada junto al universo. El “tiempo de gloria” del nuevo cosmos y de la nueva tierra será, en consecuencia, una última y definitiva transfiguración del tiempo físico. Abstract. Estas páginas afrontan el problema de la temporalidad en la perspectiva científica, filosófica y teológica. En el ámbito científico, el tiempo aparece como un parámetro vinculado a la mensuración matemática de movimientos y transformaciones físicas. Se valora, en este sentido, la distinción entre el tiempo de la física, aplicable al cosmos y a las realidades microfísicas, y el tiempo “fenomenológico” del hombre, local para la física, pero importante para la existencia humana. El tiempo de la física permite una visión, limitada pero real, del tiempo 28 direccional (pasado, presente y futuro) y universal (tiempo del cosmos). La temporalidad humana, a su vez, cuando se ve en una perspectiva filosófica, manifiesta una dimensión trascendente (superación del tiempo) en la que se produce una apertura a la eternidad. Esta apertura (deseo de eternidad, entendida como vida y no como mera duración indefinida) es un enigma que sólo se resuelve en la perspectiva de la fe teologal. La fe cristiana eleva la noción de eternidad a la dimensión más alta de la vida eterna.